Due considerazioni dall’interno, per dir così, di questa emergenza.
Prima considerazione: un’epidemia colpisce sempre alle spalle e subitaneamente. Ci si ritrova dentro, ed è tutto. Per quanto prevedibile (in Italia, e nel resto del mondo, si sapeva da mesi che cosa stava accadendo in Cina), vi è sempre in essa un largo margine di incertezza e di imponderabilità. Le prospettive, i segnali, le avvisaglie appaiono nel mezzo della tempesta come echi di un tempo in cui vi era ancora del possibile. La diffusione di un virus, invece, opera a tutta prima una drastica riduzione del reale. Se da una parte, infatti, tutto si complica enormemente, dall’altra si assiste a una semplificazione brutale del mondo in cui viviamo.
Una serie di contrapposizioni s’impone senza resto: tra i vivi e i morti, innanzitutto – la precarietà sembra esasperare per troppa prossimità gli ambiti, rispettivamente, della vita e della morte. Ecco poi le nuove categorie dalle immediate applicazioni pratiche: i sani e i malati, gli infetti e i non infetti. E tra gli infetti: chi presenta sintomi e gli asintomatici. Infine, rigide divisioni vengono estese al di là della questione prettamente sanitaria fino a investire l’intera società determinando gran parte delle nostre vite, a cominciare da quelle tra chi deve lavorare e chi non può lavorare e, più in generale, tra ciò che si può (ancora) fare e ciò che non è (più) possibile fare.
In tutto questo, ciò che appare evidente è la difficoltà della politica a reagire (anche se, beninteso, si dovrebbe distinguere tra paese e paese e, a quanto pare, tra Oriente e Occidente) di fronte a una pandemia che va ad aggiungersi a una crescita esponenziale e incontrollabile dei flussi, già di per sé difficili da contenere, che caratterizzano le dinamiche capitalistiche globali e l’ipertrofia tecno-scientifica. La politica appare presa in contropiede, se non francamente smarrita, rispetto alla situazione che si è venuta a creare. Il che non significa che le misure sin qui adottate dai vari governi non siano preoccupanti o che avranno un impatto lieve sul presente e sul futuro. Sicuramente le cose si complicheranno e gli effetti di quanto stiamo vivendo non cesseranno certo dall’oggi al domani. Peraltro, gli stessi esperti (scienziati e tecnici), sempre più coinvolti in problemi di gestione, ai quali i politici si rivolgono più o meno opportunisticamente per prendere le loro decisioni, risultano alquanto ambigui nelle loro sortite pubbliche. A tutt’oggi, infatti, si sa ancora poco del Covid-19. Quanto emerge, insomma, è una situazione a stento governabile; un ordine pericolosamente vicino al caos, contraddistinto da un forte senso di urgenza.
Ora, si dice, la salvaguardia della vita diventa pressoché l’unica posta in gioco (per quanto le ragioni dell’economia riaffiorino minacciose con insistenza). Il corso del tempo subisce un corto-circuito, l’orizzonte si restringe, non resta che un imperativo: uscirne quanto prima.
Ma, e questa è la seconda considerazione, se dovessi dire qual è il sentire immediato, la tonalità emotiva fondamentale che caratterizza questi giorni di quarantena, direi in prima istanza: una sorta di nostalgia dei corpi – a differenti livelli e intensità –, provocata dal diradarsi dei contatti dovuto alle misure adottate dai vari paesi per fronteggiare l’epidemia. E quando parlo di nostalgia, non mi riferisco soltanto ai corpi umani, ma a ogni corpo: animale, vegetale, minerale – e dunque a qualsivoglia porzione di materia. Potremmo forse chiamarla nostalgia dell’aperto o dell’esposizione. La sofferenza di non poter essere immediatamente corpo fra corpi.
Le misure di contenimento, di distanziamento sociale, d’igiene pubblica, la chiusura delle scuole e delle università, delle fabbriche e dei luoghi di ritrovo, l’entrata contingentata nei negozi di prima necessità, i divieti di circolazione, la limitazione delle più elementari libertà in nome della sicurezza e della salute pubblica, il confinamento coatto (al di là di tutti i problemi che tali provvedimenti pongono e degli interrogativi che suscitano, e sui quali si discuterà a lungo) provocano innanzitutto un perturbamento, un sottile malessere che non deriva tanto (o non soltanto) dalla noia (che i mass media s’ingegnano in tutti i modi a scongiurare), quanto piuttosto da una deprivazione. Nei confronti del nostro e degli altri corpi abbiamo un sentimento di deprivazione. Dove siamo, dove sono i corpi? Si direbbe, infatti, che la loro consistenza ontologica in questi giorni di isolamento s’assottigli, se non a volte scompaia addirittura. La severa diminuzione dei contatti comporta la messa in questione, per certi aspetti, della stessa corporeità.
È questo uno dei tanti paradossi che stiamo vivendo: proprio quando l’emergenza sanitaria sembra concentrare l’attenzione sulla nostra esistenza biologica, tale materialità sembra dileguarsi. E diventa, dunque, ancor più problematica e inafferrabile di quanto già non lo sia di per sé. Più si tratta di corpi, più i corpi sfuggono irrimediabilmente. Rimandati a se stessi nella separazione e nell’isolamento, i corpi perdono consistenza e si allontanano indefinitamente in non luoghi pressoché irraggiungibili. E questo in molti sensi.
Negli ospedali, i malati di Covid-19 muoiono in una solitudine estrema. A parte il personale sanitario, nessuno è con loro al momento del trapasso. La testa chiusa nell’impianto che li aiuta a respirare, se ne vanno senza una carezza, una parola, un contatto da parte di chi è loro prossimo. Corpi letteralmente intoccabili, se non con mille precauzioni e protezioni. Per non parlare poi delle bare ammassate una accanto all’altra; portate al cimitero in lunghe file anonime di automezzi. Vietati i riti funebri, i morti vengono cremati o sepolti in tutta fretta; un prete benedice le bare. A volte, è prevista una registrazione video della cosa a uso dei parenti; ma – nella maggior parte dei casi – tutto avviene a distanza e in modo freddamente funzionale. Nell’impossibilità di qualunque commemorazione, il lavoro del lutto s’infrange in un’ulteriore separazione dei corpi che si fa, se possibile, ancora più ostinata e crudele, si direbbe quasi astratta.
Ora, la filosofia, specie degli ultimi decenni, ha fatto del corpo, dei corpi, uno dei suoi principali interessi. Ed ecco che con l’arrivo dell’epidemia emerge un fatto inaspettato (d’altronde, la realtà sorprende immancabilmente il pensiero): mai forse come in questi momenti sentiamo di essere un corpo tra corpi e, al tempo stesso, i corpi sembrano, da una parte, allontanarsi tra loro a una distanza abissale o, dall’altra, fondersi in un abbraccio mortale (il virus ci ricorda, tra l’altro, che i corpi sono in una costante lotta fra loro). Per difenderci dal virus, abbiamo eretto una serie di barriere tra il nostro e gli altri corpi. L’epidemia si trasmette, passa da un corpo all’altro, confonde i piani e, insieme, costringe alla separazione, alla divisione, all’allontanamento. Essa mostra drammaticamente che i corpi sono sempre altrove.
Nelle brevi passeggiate nelle vicinanze delle nostre case o facendo la spesa al supermercato, gli esseri umani ci appaiono come punti che si muovono nello spazio seguendo linee immaginarie dettate dalle norme di distanziamento sociale. Desideri e bisogni seguono traiettorie predefinite, prevedibili, monitorabili. E l’imbatterci casualmente in qualcuno diventa estremamente improbabile. Confinati in casa, non frequentiamo più amanti, parenti, amici, colleghi. O meglio li percepiamo in una strana forma, né presenti né assenti, mediante gli schermi dei computer e degli smartphone. In altre parole, la separazione dei corpi si accompagna alla virtualizzazione delle relazioni. Negli schermi, il corpo dell’altro diventa piatto, inodore, escluso da ogni contatto fisico che non sia quello della voce mediata dalle protesi tecniche. Ti vedo, parlo con te – siamo vicini e, insieme, irrimediabilmente lontani. Un po’ come le anime dei morti evocate da Ulisse nell’undicesimo canto dell’Odissea. Le menti comunicano, senz’altro; ma i corpi restano isolati. Corpi appartati e menti connesse. Ma che cos’è un corpo isolato? Vale a dire un corpo che non ha contatti (o soltanto contatti estremamente ridotti e reiterati) con altri corpi, un corpo che vive nella solitudine e nel distacco? Tutto quanto si è detto e scritto sul confinamento, sulla reclusione, sulla segregazione dev’essere ripensato – durante un’epidemia – in termini più ampi e a livello generale.
È un punto su cui lavorare. Niente è qui deciso e non si può che procedere a tentoni. Viviamo in una strana sospensione. Pensare che la si possa affrontare con griglie prefabbricate è l’illusione più pervicace. Ma si deve perlomeno aggiungere che lo spaesamento dei corpi che stiamo vivendo è il sintomo estremo di uno squilibrio più vasto dalle conseguenze difficilmente immaginabili. Questa epidemia, che è il prodotto indiretto della globalizzazione, sta mostrando impietosamente il lato oscuro delle società in cui viviamo e porta con sé tristi presagi: l’aumento delle disuguaglianze e dell’emarginazione, l’esclusione sempre più accentuata dei deboli, la crescita a dismisura dei disoccupati e dei poveri.
Dove troveremo una nuova misura per il nostro stare insieme? E, infine, la troveremo?
Immagine di copertina: Adrian Piper, Everything #2.8, 2003 © Collection Adrian Piper Research Archive Foundation Berlin, con il supporto di Institut für Auslandsbeziehungen