Uno spazio chiuso dall’aria industriale, con diversi tubi che lo attraversano, una struttura in metallo sullo sfondo, una cisterna sulla destra. Uno spazio buio illuminato artificialmente e segnato da una massa non meglio identificata al centro. Un uomo vestito con una tuta protettiva e un casco da cantiere, ripreso in due momenti distinti mentre è in piedi e mentre si china. Solo la parte superiore del corpo è visibile: dalle ginocchia in giù diventa evanescente, come se non toccasse terra ma aleggiasse. È pronto a farsi luce o fuoco, allo stesso modo di quel turbinio di segni che, come fulmini, lo avvolgono. Sembra fatto di un’altra sostanza rispetto all’ambiente circostante, un ectoplasma che, anziché mostrarsi classicamente ricoperto di un lenzuolo bianco con due cavità nere al posto degli occhi, indossa una tuta arancione e un casco azzurro sotto il quale s’intravedono i tratti di un volto umano.
Nel complesso è una foto esteticamente povera, venuta male, sgranata e poco leggibile. Ma a Černobyl’, lo sappiamo bene[1], le foto vengono male.
Non parlo dei reportage dei turisti nella Zona d’esclusione, quella terra dal raggio di 30 km che i russi chiamano “zona di alienazione” (otchuzhdenia). Da Kiev agenzie specializzate propongono pacchetti all included con pulmino, guida anglofona (meglio se con parenti stretti che lavoravano alla centrale), una o più notti a Černobyl’ dove il personale amministrativo e scientifico lavora due settimane al mese per non accumulare troppe radiazioni. Se non ci sono scuole né bambini a Černobyl’, se è vietata ai minori di 18 anni e alle donne incinte, nel 2013 ha aperto il Café 10, con un servizio di foresteria dove, pare, si mangia decentemente[2].
“No smoking, no eating outside, no touching vegetation, no mushrooms, no berries, no drinking water from open water supplies. Don’t touch any structures…”, così ripete la guida, come mi riportano due amici con cui avevo programmato un viaggio atomico disdetto all’ultimo minuto.
I turisti del nucleare girano per Prypjat armati di attrezzature fotografiche e video d’ultima generazione, alla ricerca di luoghi dove nessun umano ha messo piede da quando, da un giorno all’altro, la popolazione locale è stata evacuata da casa loro. 43000 persone sfollate ordinatamente in tre ore con una fila di pullman. Venduta come gita fuori porta, erano stati rassicurati che sarebbero tornati a casa dopo tre giorni. Vietato persino portare con sé gli animali domestici, abbandonati nella Zona mentre il loro pelo accumulava polvere radioattiva. Mi viene in mente una delle scene più crude della serie televisiva Chernobyl (2019) girata da Johan Renck e scritta da Craig Mazin seguendo le testimonianze di Preghiera per Černobyl’ di Svetlana Aleksievič (ristampato dalle Edizioni e/o nel 2018). Delle brigate vengono costituite col compito di sterminare le specie compagne a colpi di fucile. Abituati alla presenza umana, i cani corrono verso i loro aguzzini per fargli festa, contenti di vederli dopo tanta solitudine. Pochi minuti dopo le loro carcasse sono caricate sul camion.
Non parlo, dicevo, delle foto del nuclear tourism, di quelle con la piscina vuota incrostata, i banchi di scuola coi registri ancora squadernati come se l’appello fosse in corso, le bambole sui letti degli ospedali, i beni personali nelle credenze coi centrini ricamati a mano, le foto di famiglia dagli angoli smangiati ai muri, le barche con la poppa sott’acqua, i tronchi degli alberi malformati. Non mancano le reliquie, come i poster del 1 maggio 1986 festeggiato a Černobyl’ come se nulla fosse, perché gli abitanti vennero tenuti all’oscuro dalla menzogna di regime. Faceva bello quel primo maggio, anche se in seguito tutte le immagini ufficiali sono scomparse, tranne quelle di Igor Kostin che non esita a parlare di una “parata della morte”[3].
Oggi ognuno porta a casa il suo souvenir di Prypjat, granaio dell’Unione sovietica, ridente città di rose, castagni e ciliegi dove gli abitanti avevano un’età media di ventisei anni, e città benestante: il rifornimento di cibo era migliore che a Kiev, ricordano gli sfollati. Oggi è un cristallo di tempo dove il mondo sovietico si è conservato come da nessuna parte e dove i lupi, senza la caccia e la deforestazione che li aveva fatti quasi scomparire, si moltiplicano. Nella zona infestata dalle radiazioni sono più tranquilli che coabitando con gli umani.
Ora invece, dicevo, mi riferisco a quelle rare foto in cui il nucleare si mostra, si rende visibile, diventa protagonista dell’immagine. A quelle foto in cui l’ignaro fotografo diventa un semplice medium – medium di un fluido tossico presente nell’aria che rende l’immagine sgranata. Lo scatto fotografico registra direttamente la radioattività nucleare, s’imprime sulla pellicola come un organismo fossilizzato.

Siamo nel basamento inferiore del reattore 4 della centrale di Prypjat, davanti al cosiddetto Elephant’s foot, undici tonnellate di corium, un materiale generato dalla fusione del nocciolo di un reattore nucleare. Fatta eccezione per alcune esperienze in laboratorio, al mondo se ne conoscono solo cinque occorrenze: a Three Mile Island in Pennsylvania nel 1979, a Černobyl’nel 1986 e in tre occasioni distinte a Fukushima Daichi nel 2011. Quella di Černobyl’ è la più consistente. Nel 1986 questa lava nera emetteva 10.000 Röntgen all’ora, l’equivalente di quattro milioni e mezzo di radiografie, dieci volte la quantità necessaria per uccidere una persona. È così radioattiva che una breve esposizione può essere letale, come ha ben ricostruito Kyle Hill nel 2013[4]: un’esposizione di trenta secondi comporta vertigini e fatica per una settimana; due minuti sono sufficienti per danneggiare le cellule; quattro minuti causano vomito, diarrea, febbre; cinque minuti e vi restano un paio giorni di vita. Trecento secondi in compagnia di questa massa rugosa sono sufficienti per una dose letale.
Filtrato dal reattore, questo blob – condensato della nostra pulsione di morte – si è lentamente spostato verso il basso. C’era (o c’è? le notizie sono contrastanti) il rischio che raggiungesse la falda freatica e avvelenasse le acque della regione o persino che innescasse un’altra esplosione. Nel 1986 una squadra di minatori viene ingaggiata per aprire un accesso al reattore attraverso un passaggio sotterraneo. Come topi, scavano una galleria di centocinquanta metri di lunghezza tra il blocco 3 e 4 e una camera sotto il reattore per installare un sistema di raffreddamento. Finiranno per cementificare la struttura e consolidarla per evitare che il corium continui la sua corsa verso il basso. I minatori hanno tra i 20 e i 30 anni, lavorano senza protezione a causa della mancanza di ossigeno e delle temperature di 52 gradi. Non vengono informati dei pericoli cui vanno incontro. Un quarto di loro morirà a 40 anni.
Oggi la temperatura e la tossicità di quest’ambiente sono diminuite. Ma quando viene scattata questa fotografia, nel 1996, a dieci anni dall’esplosione, l’agglomerato informe – una delle sostanze più pericolose sulla Terra – è ancora attivo.
Alla fine degli anni novanta il Centro ucraino per la sicurezza nucleare, i rifiuti radioattivi e la radioecologia di Černobyl’ spedisce questo scatto al Pacific Northwest National Laboratories (PNNL) a Richland (Washington), che collabora col Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti. Finisce nella biblioteca digitale tra fotografie ufficiali per lo più anonime. 394 scatti sono ancora disponibili on line[5].

L’immagine rispunta fuori solo nel 2013 su internet. David Goldenberg[6] risale alla didascalia ufficiale: “Artur Korneev, vicedirettore di Shelter Object, mentre osserva la colata di lava ‘piede d’elefante’, Černobyl’ NPP. Fotografo: Sconosciuto. Autunno 1996”. L’uomo-fantasma ha finalmente un’identità: Artur Korneyev, ispettore nucleare di origine kazaka coinvolto nella costruzione del sarcofago sul reattore 4. Un uomo che è sceso in quegli inferi diverse volte, accompagnando persino diversi giornalisti in visita al sarcofago come Marcel Theroux nel 2009[7]. Ha accumulato una quantità di radiazioni letale per qualsiasi essere umano e, pare, è ancora in vita.
Continuo a raccogliere informazioni su questa fotografia ma resto smarrito, incapace di tenere assieme i suoi due elementi. Da una parte l’Homo Sovieticus diventato ormai Homo Chernobylus, dall’altra parte la merda radioattiva, perché di merda e non altro stiamo parlando. Tanto evanescente il primo quanto corposa e soda la seconda. Il fotografo, secondo Goldenberg, è lo stesso Korneyev, che usa un autoscatto difettoso – parente povero dei selfie – cui si deve l’inquietante effetto che lo fa apparire in due porzioni di tempo differenti. Ma tale duplicazione non ne rafforza la presenza, perché due fantasmi non fanno un uomo.
[1] Riccardo Venturi, Chernobyl, le pellicole difettose, in “Alias – il manifesto”, 26 aprile 2020; Lo Stalker di Chernobyl, in “doppiozero”, 26 aprile 2020
[2] Mike Baudoncq, Chernobyl’s Café, film, 2016
[3] Thomas Johnson, La Bataille de Tchernobyl, film, 2006.
[4] Kyle Hill, Chernobyl’s Hot Mess, ‘the Elephant’s Foot’ is still lethal, in “Nautilus”, 4 dicembre 2013. In italiano cfr. Christine Kewitz, L’uomo che ha trovato un ‘elefante radioattivo’ nel seminterrato di Chernobyl, in “Vice”, 25 aprile 2016
[5] https://insp.pnnl.gov/-library-uk_ch_1-1.htm
[6] David Goldenberg, The Famous Photo of Chernobyl Most Dangerous Radioactive Material Was a Selfie, in “Atlas Obscura”, 24 gennaio 2016
[7] Marcel Theroux, Chernobyl Today, in “Travel + Leisure”, 15 maggio 2009
In copertina: Artur Korneev, vicedirettore di Shelter Object, mentre osserva la colata di lava ‘piede d’elefante’, Černobyl’ NPP. Fotografo: Sconosciuto. Autunno 1996