L’abbiamo sempre saputo. Perciò non ci crediamo!

13/05/2020

I.

Nel corso del lockdown per la pandemia varie reti televisive hanno riproposto il film Contagion, girato nel 2011 da Steven Soderbergh. Il film descrive quasi precisamente quel che sarebbe successo nove anni dopo col Covid-19. Parla di un virus venuto dalla Cina (nel film da Hong Kong e non da Wuhan) attraverso dei pipistrelli, trasmesso per via aerea, che impone il distanziamento sociale, ecc. Vediamo nel film tutti con le mascherine, iniziale assalto ai supermercati, fake news cospiratorie… Speriamo che il film abbia previsto anche il lieto fine: poi, si scopre un vaccino. Sappiamo che la natura imita l’arte, ma un film del genere dimostra come in qualche modo questa pandemia fosse perfettamente prevedibile, oltre che dalla scienza, dalla nostra immaginazione.

Viene in mente questo film dopo aver letto l’articolo di Giancarlo Alfano, «L’abbiamo sempre saputo». Un testo che apprezzo, ma non condivido. Anche Alfano prende le mosse da un film, lo sfortunato (per le critiche della critica) The Dead don’t Die di Jim Jarmusch: un film che ha colpito anche me. È un film che prosegue una mitologia moderna (inventata solo 50 anni fa), quella degli zombi: solo che qui si tratta di ironico meta-cinema, dato che i personaggi riconoscono gli zombi come parte del loro patrimonio immaginario (come sono i vampiri, o gli alieni che giungono sulla terra) e si comportano come i personaggi di un qualsiasi altro film di zombi, sapendo però di essere personaggi. «I personaggi di The Dead don’t Die – scrive Alfano restano certo attoniti innanzi all’Avvento degli Zombi, ma non ne sono colpiti […] sembrano non coglierne la realtà».

Alfano rievoca il film per dire che con la pandemia di coronavirus ci siamo comportati come i personaggi di Jarmusch: continuamente ci siamo rifatti al “genere” direi collaudato delle epidemie, come la peste di Atene descritta da Tucidide (e ri-descritta da Lucrezio oltre tre secoli dopo), o la peste nera che permea il Decameron, o la peste a Milano del 1630 descritta da Manzoni… Del resto, ammette Alfano, è stato sempre un po’ così: «A Firenze la peste di metà Trecento si raccontò avendo in mente un’epidemia rurale di sei o sette secoli prima; i terremoti napoletani dei primi del Seicento vennero rappresentati riattivando sequenze telluriche che incrociavano la mitologia dei Titani con la memoria classicistica della lettera di Plinio sulla eruzione del Vesuvio del 79 d.C.».

Secondo l’autore, questo riportare l’evento attuale al già-saputo o già-detto – all’Immaginario, dice, riferendosi evidentemente a uno dei tre registri di Lacan – è dannoso, perché ci fa perdere la dimensione dell’«essere-evento», della presenza e novità di ciò che accade. Questa epidemia può essere efficacemente affrontata se non la si imbottisce di immaginario, insomma di letteratura (o di cinema), se la si accetta come reale, ovvero come shock cognitivo (anche se Alfano non cita qui Lacan, mi sembrano evidenti i suoi riferimenti a questo autore; ha pubblicato un libro su un caso clinico lacaniano, quello di Aimée)[1].

II.

Sembra essere una risposta all’articolo di Alfano un’intervista, sempre sull’epidemia da coronavirus, data dallo scrittore turco Orhan Pamuk – uno degli interventi migliori nella valanga di scritti di filosofi, scrittori, psicoanalisti, ecc., sull’epidemia in questi ultimi mesi (valanga in cui ci ho messo del mio). Si dà il caso che già da quattro anni Pamuk si stesse occupando della letteratura sulle epidemie ai fini di un romanzo (Le notti della peste). E dice: «Nella storia umana e letteraria ciò che rende simili le pandemie non è la semplice comunanza di germi e virus, ma che le nostre risposte iniziali sono sempre state le stesse».

Quel che colpisce, insomma, non è la rassomiglianza tra le descrizioni delle epidemie, ma quella tra le reazioni reali alle epidemie. Egli si rifà in particolare a A Journal of the Plague Year di Daniel Defoe, che descrive la peste nel 1664 a Londra, e ai Promessi Sposi:

Negazione. Sempre, in una fase iniziale, le autorità politiche negano l’epidemia, o comunque chiaramente la sottovalutano. Nel 1630, dice Pamuk, «il governatore di Milano ignora la minaccia rappresentata dalla malattia e non annullerà nemmeno le celebrazioni per il compleanno di un principe locale». (Ci si ricorda subito di Macron, il quale, mentre già l’epidemia si diffonde in Francia, permette il regolare svolgimento delle elezioni amministrative nel paese e se ne va tranquillamente a teatro con la moglie…). Contrariamente a quel che dicono i “complottisti” di destra o di sinistra (secondo i quali l’epidemia serve al potere politico per controllare i cittadini), il potere politico tende a negare il pericolo, probabilmente perché il potere si sente minacciato da ogni catastrofe. Negazione che abbiamo visto anche, oggi, con Trump e Johnson.

Fake news e individuazione del capro espiatorio. In ogni epoca sulle epidemie si diffondono false informazioni (fake news) le quali tendono a coagularsi in forme persecutorie: l’epidemia viene dall’esterno, e in particolare da quell’esterno a cui siamo ostili. Nel suo resoconto della diffusione della peste ad Atene, Tucidide iniziò osservando che l’epidemia era iniziata molto lontano, in Etiopia ed Egitto. L’angoscia delle popolazioni colpite non addormenta la ragione (che è sempre abbastanza dormiente) comunque crea mostri: i capri espiatori. Il potere politico per lo più cavalca questo odio rabbioso per gli agenti immaginari:

«Marco Aurelio [si noti: non Nerone!] incolpò i cristiani dell’Impero romano per la peste del vaiolo antonino, poiché non si unirono ai rituali per propiziare gli dei romani. E durante le successive piaghe gli ebrei furono accusati di avvelenare i pozzi sia nell’Impero ottomano che nell’Europa cristiana».

Se Trump accusa la Cina di essere responsabile della diffusione del “virus cinese” (come lo chiama lui) non è perché abbia letto Defoe o Manzoni, ma perché è abitato da meccanismi psichici elementari che si ripetono, imperturbabili, nella storia. Trump sfrutta evidentemente una certa sinofobia che fluttua sotto la superficie delle coscienze occidentali (quando andavo alla scuola media, nel 1960, la professoressa di lettere ci disse, in una lezione di geografia: «La Cina è grande allevatrice di porci. Dato che sono porci loro stessi…»).

III.

Mi sono occupato un po’ di grandi incendi, e anche in questo caso si è colpiti da come le stesse reazioni si ripetano – direi a dispetto della letteratura preesistente. Tutti sanno dell’incendio che distrusse Roma nel 64 d.C.: si sparse la voce – messa in giro dai senatori romani, che odiavano Nerone – che fosse stato l’imperatore ad appiccare il fuoco (una fake news secondo molti storici di oggi: cfr. Richard Holland, Nero: The Man Behind The Myth, Sutton 2000). Nerone capì che la gente cominciava a crederci, per cui diffuse una contro-bufala: che gli incendiari fossero stati i cristiani. Per il popolino romano erano rompiballe fanatici e spocchiosi, Nerone non poteva trovare di meglio.

Del grande rogo di Londra del 1666, che distrusse gran parte della città, venne incolpato un orologiaio francese (uno straniero, appunto!), certo Robert Hubert[2], il quale avrebbe incendiato Londra per ordine del papa (il papa allora era “il nemico” dell’Inghilterra). Venne impiccato, e solo molto dopo risultò assolutamente innocente. Per decenni “i papisti” vennero accusati di essere gli artefici dell’incendio.

Morale: in situazioni simili, gli esseri umani, in ogni epoca, tendono a reagire nello stesso modo. Questo certo cozza con il tipo di cultura storiografica della quale – credo Alfano quanto me – la nostra generazione si è pasciuta, con Foucault in prima linea: l’estrema sensibilità alle differenze storiche, alle discontinuità culturali, per cui fenomeni simili in epoche diverse vanno visti nei quadri storici particolari, e quindi come del tutto tra loro eterogenei. È quel che è stato tacciato di relativismo storico. Una visione molto perspicua, a cui faccio spesso appello. Ma questo non deve del tutto obnubilare l’aspetto delle invarianti storiche – che poi era la scommessa di Freud, tra le altre cose. Il fatto cioè che, trasversalmente alle differenze storiche, gli esseri umani sono lavorati da automatismi che possiamo considerare universali, in quanto strutturali alla psiche umana alla Massenpsychologie. La ricerca dei capri espiatori, in particolare dopo catastrofi, sembra essere una di queste invarianti.

Ricordo che in un suo seminario Lacan una volta quasi urlò: «Lo psicoanalista non fa etnologia! E nemmeno storiografia».

Un film come Contagion ci dice che in questo senso questa epidemia non è affatto evento unico, irripetibile – come vuole un certo sensazionalismo giornalistico – ma realizza qualcosa che avevamo tutti, in qualche modo, aspettato. Come quando ci viene diagnosticato un cancro: quel che ci turba è il fatto che era qualcosa che avevamo sempre temuto. Non ci pare vero perché la diagnosi era troppo attesa.

IV.

L’esortazione di Alfano, comunque – confrontiamoci con l’evento come trauma irriducibile a ogni edulcorazione immaginaria – riflette una preoccupazione diffusa nei milieux intellettuali influenzati dal pensiero di Lacan. Oggi ci si focalizza sul concetto (molto sfuggente) di Reale in Lacan (probabilmente per rimediare al rimprovero un po’ infamante che Derrida rivolse a Lacan, di essere “logocentrico”, di dare troppa importanza al linguaggio e al simbolico). Altro che linguaggio, il Reale conta!

Ogni tanto vengono organizzati convegni o numeri di riviste su temi riassumibili in questo: «Quando è che in analisi si incontra il Reale?». Il che deve essere ampliato nella domanda: «Quando è che noi esseri umani incontriamo il Reale?». Si tende a rispondere che il Reale è il traumatico, quello che appunto ci lascia senza parole. Ma vedremo che non è così semplice. Reale non è l’epidemia presente, per esempio.

Ovviamente per Reale non intendiamo la realtà – le cose che mi stanno attorno, l’ambiente a me esterno – così come la intende il senso comune. Per Lacan il Reale è qualcosa di non simbolizzabile, che quindi non si può dire… ma allora, come dire quel che non si può dire?

Penso che il Reale lacaniano vada inteso nel senso di «non ci posso credere!». Il che dà senso alla provocatoria affermazione di Lacan (ma quale sua affermazione non è provocatoria?) «il Reale è l’impossibile». In effetti è la prima reazione che abbiamo quando ci viene detto qualcosa di inaspettato ma terribile, ad esempio la morte improvvisa di una persona cara: «Ma come è possibile? Stai scherzando!». Quest’incredulità dura però poco, ovvero, un lampo di reale ci attraversa, ma poi ben presto il fattaccio, il trauma, viene simbolizzato, ovvero ne accettiamo penosamente l’esistenza. Entriamo così nella trafila del lutto, della nostalgia, e di tutti i rituali funebri. A meno che non si sia psicotici…

Freud spiegò che il trauma può essere uno Schreck, uno “spavento”: un evento orribile ci coglie nel presente, ma ancora non è rappresentabile, né consciamente né inconsciamente. Dallo spavento passiamo al Furcht, alla “paura”: è temere un evento futuro, il quale perciò è ben rappresentato dalla coscienza. Ma col tempo la paura diventa Angst, “angoscia” o “ansia”: non c’è più evento, ma solo rappresentazione conscia – e, spesso, inconscia (ad esempio, ho un attacco di panico ogni volta che salgo su una scala mobile, ma non so perché… quale oggetto nella scala mi angoscia?). La nostra psiche tende ad addomesticare l’evento traumatico trasformandolo in angoscia, la quale è un sentimento solo parzialmente spiacevole, dato che in realtà, via arte e letteratura, succhiamo spavento e paura come il miele: film horror, Dracula, zombi, efferati delitti, battaglie sanguinolente… L’industria dell’angoscia – non meno fiorente dell’industria porno – ci alletta con orrori che ci liberano immaginariamente dalla minaccia dell’evento. Cuocendo il trauma nella pentola immaginaria, lo inghiottiamo nutrendo il nostro apparato simbolico. Ma il Reale?

È nella follia che incontriamo un reale, per dir così, nudo e crudo. Una mia paziente mi diceva che sua madre anni prima «aveva fatto finta di morire». È vero, lei l’aveva vista nella bara, era andata al suo funerale, aveva intascato parte della sua eredità… ma – aggiungeva ridacchiando da donna scafata – «Era tutta una messinscena. So che lei attraverso una serie di computer manovra l’intera mia vita. So che quando incontro un ragazzo che mi piace, è lei che attraverso il computer me l’ha messo sulla mia strada». Possiamo dire che per questa paziente la morte della madre era il suo reale. Qualcosa insomma di impossibile da accettare. Come si vede, il Reale è un concetto inscindibile da quello di soggettività: il reale è sempre ciò che è inammissibile per un soggetto. Il Reale per me è ciò che per un altro è la mia follia.

Freud però ci ha portato anche esempi non psicotici di Reale. In tarda età, fu affascinato dalla sensazione che molti anni prima ebbe lui stesso, la prima volta che andò ad Atene e salì sull’Acropoli: ebbe la strana sensazione (ma non la convinzione, perché lui non era psicotico) che quei monumenti fossero irreali… Che quello che stava contemplando non fosse vero[3]. In realtà Freud conosceva benissimo l’Acropoli prima di averla vista, da tempo aveva sognato di visitarla… Ma è proprio perché l’aveva sempre conosciuta che ora, confrontato alla sua esistenza, la percepiva come irreale, non credeva di essere in sua presenza. Lasciamo stare qui la ricostruzione che Freud fa di questa sensazione: egli non crede nella realtà di ciò che sta vedendo perché per lui quei monumenti erano simboli forti, e il fatto che questi simboli esistessero, questo sì che era reale, cioè incredibile.

Freud e poi Lacan ci hanno parlato di sensazioni che tutti abbiamo avuto, il déjà-vu o déjà-vécu, la sensazione precisa di aver vissuto già quella certa situazione, anche se non abbiamo memoria di averla vissuta. È che a un certo punto ci imbattiamo in qualcosa che è puro evento, sta là, ma proprio per questo possiamo accettarne l’esistenza solo come una ripetizione di qualcosa di già accaduto, come se si trattasse non di un puro evento ma di un segno (i segni sono ripetizioni). Sentiamo di ri-vivere quell’esperienza perché dobbiamo vivere qualcosa che la vita non prevede, perché la vita prevede solo ciò che è stato.

V.

Così, un soggetto è toccato da qualcosa di reale solo quando lo nega. In particolare, quando ne nega l’esistenza, vuoi in termini cognitivi, vuoi in termini affettivi. In fondo, siamo in presenza del Reale ogni volta che ci confrontiamo con “negazionismi”. Tra i più noti, il negazionismo dell’Olocausto, quello del Gulag (ho conosciuto parecchie persone in paesi dell’ex-URSS che negano le persecuzioni staliniane, dicono che Solženicyn si è inventato tutto). Ma anche il negazionismo del riscaldamento climatico (Trump e gente come lui), la negazione dello sbarco americano sulla Luna nel 1969 («Fu tutta una montatura mediatica»), dell’11 settembre («fu un complotto della CIA»), ecc. Potremmo dire che ogni volta che ci rifiutiamo di confrontarci con dati di fatto che mettono seriamente in questione le nostre credenze o convinzioni, il nostro sistema ideologico (politico, religioso, filosofico, ecc.) – la nostra costruzione simbolica che per noi è verità –, tocchiamo un reale attraverso l’altro soggetto. Perché la negazione dell’evento da parte mia dice all’altro che cosa è reale per me.

Per tornare all’epidemia di coronavirus: essa è reale per chi la nega. Per esempio per Trump, che l’ha negata fin quando ha potuto (e sono convinto che, sotto sotto, la neghi ancora). Altri negano anche loro l’epidemia: pensano che sia una montatura, un’esagerazione di un lieve aumento della mortalità stagionale, giusto per esercitare potere sulla massa. Nel caso delle negazioni dell’epidemia da parte dell’estrema destra, quest’epidemia è il loro reale perché scardina la loro segreta convinzione nell’onnipotenza umana: le attività umane, l’espansione economica, non possono essere bloccate da un volgare virus! «Non è nei nostri piani, quindi non esiste».

VI.

Qui si apre – e non si può chiudere qui, ovviamente – la questione filosofica più generale sul Reale. Direi addirittura che è la questione filosofica per eccellenza. La questione dell’ousìa, come lo chiamavano i Greci.

Perché se il Reale è ciò che non si può pensare (se non nella forma della negazione), cosa significa pensare questo impensabile? Non siamo qui nella contraddizione, nel paradosso? Ma mi chiedo se tutta la filosofia non riediti continuamente questa contraddizione, da qui la sua sostanziale non-chiusura, ovvero il suo proseguire senza fine. Direi addirittura: pensiamo solamente solo quando facciamo i conti con l’impensabile. La scienza invece scommette sul fatto che tutto può essere pensabile, e quindi spiegabile; ma è la molla segreta dell’impensabile che spinge, a mio avviso, il grande scienziato.

Ciò pone una questione grave ai filosofi stessi in quanto persone, in quanto essi sono continuamente tentati di pensarsi come un’aristocrazia unica nell’umanità, ovvero come tra i pochi (o i soli) che non negano il Reale. Ma se il Reale non si può dire, se esso si segnala (agli altri) come tale solo attraverso il fatto che io lo nego, è possibile ai filosofi, o comunque a una élite di esseri umani, non sfuggire il Reale? Ovvero, a un certo livello, non siamo tutti come la paziente che negava la morte della madre? E quale è questo livello, per ciascuno? Perché per disporre di quella coesione soggettiva che ci permette di non cadere nella schizofrenia – ovvero nel caos del Reale – da qualche parte dobbiamo negare qualcosa di fondamentale, una sorta di evento irriducibile al lavorio immaginario e all’integrazione simbolica. Qualcosa che Freud, a suo modo, aveva colto parlando di «rimozione originaria»: una negazione inaugurale della soggettività, quella che farà da attrattore fondamentale di ogni altra negazione, di ogni altra rimozione.

Grazie a Lorenzo Gabutti.


[1]  Giancarlo Alfano, La cleptomane derubata. Psicoanalisi, letteratura e storia culturale tra Otto e Novecento, New Magazine, Trento 2012.

[2] Per favore, non ci si abbandoni a fantasticherie sul fatto che questo Robert Hubert sia omonimo del grande pittore del Settecento, famoso soprattutto per i suoi dipinti di incendi di città…

[3] Sigmund Freud, Un disturbo della memoria sull’Acropoli: lettera aperta a Romain Rolland (1936) in Id. Opere, edizione diretta da Cesare Musatti, vol. 11, L’uomo Mosè, Torino, Boringhieri, 1979.

In copertina: una scena di Contagion, di Steven Soderbergh, 2011

Sergio Benvenuto

già ricercatore del CNR a Roma, esercita come psicoanalista e scrive da filosofo. È stato Visiting Researcher alla New School for Social Sciences di New York, insegna psicoanalisi in vari istituti in Russia, Ucraina e Italia. È presidente dell'Istituto psicoanalitico Elvio Fachinelli. Ha fondato nel 1995 l’”European Journal of Psychoanalysis”. È redattore delle riviste di psicoanalisi “American Imago”, “Psychoanalytic Discourse” e della rivista filosofica franco-indiana “Philosophy World Democracy”. Ha collaborato e collabora a varie riviste culturali sparse per il mondo, di varie lingue. Ha pubblicato vari libri in italiano e in molte altre lingue. Tra i più recenti: “Perversioni” (Bollati-Boringhieri), “Accidia” (il Mulino), “La gelosia” (il Mulino), “Godere senza limiti” (Mimesis), “Conversations with Lacan” (Routledge), "La ballata del mangiatore di cervella" (Orthotes 2020), “Il teatro di Oklahoma. Miti e limiti della filosofia politica di oggi” (Castelvecchi).

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