Sempre troppo umano

05/06/2020

È possibile fare il punto? Non mettere un punto fermo, ovviamente, ma cogliere alcuni punti d’orientamento nella nostra navigazione attraverso l’oceano virale? Che pure è divenuto un oceano di discorsi e la logorrea che accompagna tutte le epidemie non ha mancato di innervosirci. Troppi sono i discorsi, s’intrecciano e turbinano al punto che la parola «filosofia» assomiglia ai viticci della vigna o agli anelli di un serpente sibilante. È umano, troppo umano – ma forse avevamo bisogno proprio di un po’ troppo d’umano per meglio comprendere noi stessi.

È andata così? Dal maelström sono usciti alcuni oggetti curiosi, degni d’interesse? Credo di sì. Senza parlare di scoperte, mi pare che possiamo scorgere qualche segnale, qualche traccia per proseguire nelle nostre rotte di lungo corso.

Ce ne sono almeno cinque, che si dispongono secondo cinque titoli: 1) l’esperienza; 2) l’autosufficienza; 3) la biocultura; 4) l’uguaglianza; 5) il punto.

Sviluppiamo.

1) L’esperienza. Abbiamo fatto, stiamo ancora facendo, un’esperienza, ovvero la prova di una realtà inedita. Ciò che è stato propriamente inedito è il fenomeno di un contagio virtualmente mondiale e particolarmente subdolo, complesso e labile. Ogni esperienza è esperienza di un’incertezza. La certezza, il sapere garantito da se stesso e per se stesso, rappresenta il marchio distintivo della verità cartesiana. Questa certezza, lungi dall’essere solo francese, ordina tutte le nostre rappresentazioni del sapere, scientifico, tecnico, sociale, politico e persino culturale. È dunque l’ordine intero delle nostre certezze e fiducie che è messo alla prova. Per questo motivo, facciamo davvero un’esperienza: siamo spinti fuori dalla nostra pianificazione.

Nulla di nuovo: l’incertezza si agitava già da molti decenni, il volto del mondo non cessava di modificarsi, i nostri inciampi e i nostri disastri ci prendevano sempre di più alla sprovvista. Ma i segnali politici, ecologici, migratori e finanziari non riuscivano a dare forza d’esperienza a quello che invece un minuscolo parassita ha dotato della virulenza dell’inaudito. L’inaudito, il più delle volte, lo avevamo in verità già sentito, ma non l’avevamo percepito o recepito. L’esperienza ci obbliga a riceverlo.

Fare un’esperienza vuol dire sempre smarrirsi. Si perde il controllo. In qualche modo non si è mai veramente il soggetto della propria esperienza. È lei, piuttosto, a suscitare un nuovo soggetto. Un altro «noi» è in gestazione. Un’esperienza sconfina, deborda, oppure non è tale. Travalica il suo oggetto con il suo soggetto. Comprendere l’esperienza, identificarla, significa integrarla a un programma di sperimentazione, che è del tutto differente. Senza un programma, si tocca l’incalcolabile che è per definizione senza prezzo e ha un valore intrinseco, assoluto.

2) L’autosufficienza. Assieme alla certezza e alla fiducia non sorprende che abbiamo sentito scalfirsi anche l’autosufficienza. Quella dell’individuo, quella del gruppo, quella dello Stato o di una qualche istituzione internazionale, quella delle autorità scientifiche o morali. In ogni caso si è ravvivata una interdipendenza: quella del contagio così come quella della solidarietà, quella del distanziamento così come quella della considerazione reciproca, quella della coesione che rispetta le regole così come quella dell’anarchia che spinge a reinventare tutto.

Il punto di riferimento più forte nell’ambito di questa destabilizzazione dell’autosufficienza è il motivo dell’«auto». L’automobile – con il suo andare in panne e in crisi, la questione scottante della sua trasformazione e del suo ruolo sociale – potrebbe da sola fornire un simbolo molto concreto di questo motivo. L’auto-, il  «da se stesso» (altro grande tema cartesiano), la volontà autonoma, la coscienza di sé, l’autogestione, l’automazione, l’autarchia sovrana segnano gli angoli più esposti della fortezza occidentale-mondiale, tecnologica e autoproclamatasi democratica.

È questa fortezza che oggi si crepa e si riconfigura al tempo stesso. Avevamo atteso un uomo totale e ci ritroviamo con una moltitudine che totalizza invece una disumanità o, perlomeno, una gravosa inquietudine rispetto alla sua capacità di bastare a se stessa. Da qualsiasi punto la si guardi, essa è troppa o troppo poca: troppo informata e troppo ignorante, troppo numerosa e troppo poco raccolta, troppo potente e troppo poco capace. Troppo autonoma, soprattutto, e troppo poco autoregolata.

L’autosufficienza – che nessun filosofo, nemmeno Cartesio, nemmeno Hegel ha sostenuto e che il pensiero da Nietzsche in poi ha messo in discussione – potrebbe essere proprio ciò su cui la modernità si è intestardita. Dal «conosci te stesso» (Socrate) all’«incidi su te stesso» (Schlegel) si manifesta quell’ambiguità che ci fa dimenticare che lo «stesso» è sempre un altro. Per questo gli appelli all’altruismo sono sempre sterili: invocano un altro esterno, estrinseco. Mentre è un’alterità intrinseca che crea la struttura e l’energia di un’identità – che si tratti di una persona, di un popolo o del genere umano.

Con l’«auto», la «sufficienza» in generale si mette in discussione: che cosa può bastare, soddisfare, colmare? Quel che è sempre troppo e troppo poco, che invece di accontentarsi di essere diviene, desidera e muore, ovvero che vive e esiste?

3) La biocultura. Intendo con essa non l’esame dei tessuti viventi fatto in laboratorio ma la nostra cultura in cui il semi-significante «bio» lampeggia senza tregua. Dando a «bio» il senso di «vita organica» (al posto del suo senso attico di «condotta di vita») l’abbiamo messa al centro delle nostre preoccupazioni dopo aver indebolito l’insieme dei viventi. Il «bio» deve essere preservato, curato, coltivato, e attribuivamo molta importanza alle minacce mosse dalla «biopolitica», termine che stigmatizzava il calcolo delle condizioni di rendimento produttivo di una popolazione. Ecco invece che la pandemia porta agli onori la gestione pubblica (che sia autocratica o libertaria, poco importa da questo punto di vista) della salute e dunque, in linea di principio, dell’insieme delle condizioni della vita sociale e dunque individuale. La biopolitica – concetto già dubbio – si è capovolta, permettendoci di vederci più chiaro.

In un certo senso, questo rovesciamento non fa altro che unirsi a un movimento già antico verso un ideale di salute in cui l’asintoto sarà – la cosa non sorprende – un’auto-mantenimento illimitato della vita umana (che contrasterebbe del resto con le condizioni concesse alle altre forme di vita). Possiamo allora domandarci se dobbiamo ormai riporre la speranza di una democrazia realizzata in una politica biologista. Una politica della vita e della cura provvederà al «vivere bene» (eu zèn) che Aristotele pone come fine della città?

Sappiamo bene che non è così: la pandemia ci mostra che evitare il virus non definisce il bene di una vita, né individuale né collettiva. Il bio non fa l’eu zèn. Ma se al contempo ci rifiutiamo di essere trascinati nella spirale della produzione e del consumo, è nostro dovere ridefinire un «vivere bene» che non può eludere la morte, la malattia e pure l’incidente e l’imprevedibile che sono parte (ancora) intrinseca della vita. In altri termini, e nella misura in cui la nostra società non offre più la rappresentazione di un’«altra vita», dobbiamo pensare la vita al di là del «bio». Dobbiamo affrontare quanto Derrida coglieva nella polisemia della parola «sopra-vivere».

Si tratta quindi di qualcosa di più della politica, se solo smettessimo di abusare di questa parola, che identifichiamo con una vaga totalità di senso dove non si distingue più tra la governance e l’esistenza.

Bios, polis, vita e città sono divenuti i nostri significanti più opachi, e nessun algoritmo potrà produrre dei nuovi sensi. Dovremo parlare un’altra lingua invece del nostro greco malconcio.

4) L’uguaglianza. Quanto scritto finora conduce a questo punto. Coinvolti in un’esperienza dove saggiamo i limiti della nostra autonomia e della nostra vita, siamo anche messi a confronto con l’idea di uguaglianza, che certamente crediamo di professare ma che, in realtà, è continuamente – e violentemente –, compromessa, da tutti i punti di vista e da ogni parte. D’altronde, le reazioni legate alla libertà – alle nostre piccole libertà di deambulazione – sono state molto più accese nei paesi sviluppati che le prese d’atto imposte dalle disuguaglianze, principalmente in materia di protezione sanitaria e sociale. Nessuno ha mai evocato il concetto di «égaliberté» di Balibar.

Come se non sapessimo fin troppo bene che la disuguaglianza non è mai stata così stridente, ovvero mai così forte e mai così intollerabile. Poiché ci sono già state delle disuguaglianze incorporate a delle gerarchie sociali che non sostituiscono, al contrario, le scale tecno-finanziarie reali, simboliche e immaginarie.

La nostra civiltà stabilisce in linea generale un’uguaglianza che suppone fondata su un uguale valore (o dignità) delle vite umane (lascio da parte la questione indubbiamente essenziale di altre forme di vita). È la vita che in sostanza conferisce automaticamente l’uguaglianza. «Gli uomini nascono liberi e uguali» recita la Dichiarazione del 1789. Il verbo «nascere» porta qui un carico considerevole. Nascere è un atto o un’operazione biologica? E qual è la posta in gioco? Mi fermo qui, senza omettere pertanto di notare che le stesse domande si ripresentano a proposito del morire.

Una cosa diventa oggi evidente: non sappiamo che cosa ci rende uguali. Così la maggior parte delle volte ci accontentiamo di postularlo o di proiettarlo in un «mondo migliore». Ma l’ineguaglianza reale ci obbliga a non rimandare ulteriormente una risposta. Quanto non corrisponde più esattamente alle dinamiche di una lotta di classe non è meno spinto da una pressione altrettanto dirompente: non c’è nessuna ragione affinché ci siano dei «dannati della vita» (e dunque delle vite dannate) se la nostra ragione d’essere è di nascere e di morire e non di acquisire dei beni, dei poteri e dei saperi. O ancora: se la nostra ragione di vivere non può trovarsi che nel senza-ragione di un più-che-vivere paragonabile a quello della rosa di Angelus Silesius: «La rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce; non pensa a sé, non si chiede se la si veda oppure no».

Anche questo non è molto umano? Troppo? Ma chi può dare la misura del nascere e del morire, del comparire e dello scomparire?

5) Il punto. Non mi dilungherò, si tratta giusto di fare il punto. È un punto, in effetti, senza dimensione. Solo un punto di svolta, d’inversione o di rivoluzione.

Possiamo fare del «senza perché» una misura di civiltà? Se non possiamo, forse non andremo ancora molto lontano nella nostra traiettoria già vacillante. Tutto il resto è agitazione virale.

Saremmo troppo umani per fare a meno del «perché»? Ma è in fondo ciò che già comprendiamo, oscuramente, confusamente, vivendo le nostre vite di tutti i giorni? Sappiamo a nostra insaputa, spontaneamente, che il «senza ragione» è più forte, più intenso di ogni ragione. Come lo splendore di un fiore, come un sorriso o come una canzone.

Traduzione di Ottilia Braccini

In copertina: Henry Fantin-Latour, Rose, 1871

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