È verso la fine del 1924 che Georges Bataille entra per la prima volta in contatto con Michel Leiris. A fare da
...C’è qualcosa in Osip Mandel’štam che ha a che fare con la memoria che ci raggiunge mediante il suo sguardo. Ho la
...Il rapporto di Mandel’štam con l’Armenia fu come noto molto stretto e nacque nel 1916, quando il poeta era ancora studente e
...Come ogni pensiero capace di svincolarsi dai parametri della conoscenza, la riflessione di Arasse invita ad un domandare che sconfina da
...Le fotografie di Patellani si muovono su un orizzonte parallelo a quello di Rossellini: non tanto per la prospettiva etica o morale
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Perché transeunte è detto quello che passa: trascorre: transita. Quello che va, quello non ha luogo ma transita dall’un luogo all’altro incessantemente — infallantemente transito è il suo luogo. Le tracce pattumate fra l’uno e l’altro transito s’imprimono sulle retine; così assuefano di loro tossine insublimate le tracce. Transita ciò che si consuma ma consumatosi deposita una traccia. Traccia d’una traccia.
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I fratelli – e le sorelle – sono prima di tutto soggetti autonomi la cui coesistenza non si fonda in nient’altro che in una compagnia di cibo (com-pagnia significa: chi condivide il pane) e in un’assenza di ragione nella loro comunità di esistenza.
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Tomaso Binga compie domani 90 anni e per l’occasione ha pensato di festeggiare con noi tutti questo suo nuovo traguardo, proponendo, nonostante i tempi difficili e le ristrettezze del momento, un gioco collettivo e connettivo che nasce da alcune sue riflessioni legate al 'Biographic', un ciclo avviato nel 1985 e che oggi, con la conclusione dell’opera 'Locus', si chiude per aprire nuove avventure.
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Vorrei parlare dei lavori di Jacques Perconte, un artista che apprezzo, ma non ho sufficienti nozioni informatiche per farlo. Così, per cercare di raccapezzarmi, ho provato a considerare alcuni di quelli che mi sembrano suoi gesti abituali, operazioni che hanno il fine di modificare le immagini che ha filmato, trasferendole, traducendole, visualizzandole grazie all’apporto della filologia. Dunque, un artista che lavora sulla compressione delle immagini avrebbe qualcosa a che fare con la filologia? Forse.
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Per me l'aspetto centrale è il rapporto molto affettivo che le persone hanno con le fotografie. Finché nulla va storto nella vita, le fotografie sono amate perché sembrano confermare la normalità e la felicità.
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Forse il merito maggiore di questa raccolta di scritti di Castellani è di offrirci un ritratto più complesso e sfaccettato di quello che la bibliografia già nota sull’artista ci ha consegnato sino ad oggi, facendoci accedere per la prima volta alla sua sfera più intima. È qui che scopriamo il suo amore per la scrittura, coltivata in segreto, come esercizio privato ma condotto con la stessa dedizione e disciplina cui ci ha abituati per le sue opere.
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Sia Toulouse-Lautrec sia Duchamp utilizzano la fotografia in modo paradossale, ovvero cercano, attraverso il medium che dovrebbe fissare l’identità della persona ritratta e la prova tangibile della sua esistenza, di depistare le tracce dell’identità singola, rendendo visibile l’ambivalenza tra ricerca identitaria e artistica, tra cultura d'élite e cultura di massa, tra mascolinità e femminilità.
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È fuor di dubbio che la tipologia di immagini prodotte dai droni – e più in esteso, le immagini nonhuman – facciano parte sempre di più della realtà che viviamo ma è oltremodo importante interrogarci sugli effetti che queste immagini hanno e avranno sulle nostre vite: cosa succede quando l’immaginario viene nutrito, costruito, bombardato e colonizzato da queste tipologie di immagini? Cosa succede se l’iconosfera viene nutrita sempre più da sguardi disincarnati? Quale nuovo punto di vista avremo sul mondo?
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«Il barocco è qualche cosa che è saltato in aria, che s’è sbriciolato in mille briciole: è una cosa nuova, rifatta con quelle briciole, che ritrova integrità, il vero». Ho pensato a queste parole folgoranti di Giuseppe Ungaretti (verso la fine degli anni Sessanta dettate a commento della sua raccolta “barocca” anni Venti, "Sentimento del Tempo"), guardando lo splendido video che documenta una delle più stupefacenti opere di Gordon Matta-Clark, "Office-Baroque".
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Una strana coincidenza: nello stesso giorno “La Lettura” del “Corriere della Sera” dedica alcune pagine alla cultura “africana” (ma solo una colonnina al teatro); poi mi capita di ri-vedere “BlackKlansMan”, il bellissimo film di Spike Lee; e infine, in serata, finisco un ottimo libro: “Le Afriche di Peter Brook”, scritto con partecipe passione da una giovane studiosa, Rosaria Ruffini. Insomma, una giornata all’insegna della black culture di grande interesse.
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Domenica 7 febbraio uno spot lento, troppo lento, frattura la quiete urlante del Superbowl. Nella festa globale per il Trump decollato, nel peana all’eroe tragico Joe Biden rinato dall’ingiusto destino, il grande capitale si unisce al coro. Per vendere la sua senilità, i suoi ottant’anni – e cosa fu il 1941 in America –, anche Jeep canta l’addio al vecchio villain e va salmodiando per il nuovo inquilino. Lo fa con una pubblicità in mondovisione.
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Il 2021 è arrivato e porta con sé un vento di speranza (è il caso di dirlo): il vaccino. Virologi virali, imbonitori da domenica sera, veline da salotto tv si fanno in quattro per diffondere la lieta novella. Il Ministro della Salute in persona ha ribadito che verrà fatta una campagna “senza precedenti” per convincere tutti a vaccinarsi, e la macchina comunicativa del Ministero si è messa immediatamente in moto. Quando è arrivato l’ordine dall’alto di cercare il regista per creare uno spot televisivo, ritenuto assolutamente indispensabile per lanciare la campagna vaccinale, al Ministero si sono certo domandati a chi
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“I tuoi personaggi hanno bisogno di amare qualcosa, altrimenti non potrebbero essere amabili.”
Questo segreto più prezioso del tesoro di Tutankhamon ce lo spiffera James Franco, vulcanico californiano di Palo Alto classe 1978 che non è solo l’attore di film importanti e di film dimenticabili, un attore decisamente dotato. James Franco è pure il regista di film straordinari e di film trascurabili, un regista in linea di massima ispirato. Non è finita: James Franco è anche uno scrittore.

L’atto di immaginare, la capacità di vedere l’invisibile agli occhi, è il motore di ogni pensiero politico degno di una trasformazione radicale dell'esistente.
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Vedere qualcosa che solo il dialogo incessante tra interrogazione memoriale e sua restituzione visiva può darci: il mistero del referente. Mi pare che tutto Ultimo parallelo – e tutto il lavoro di Tuena – si ponga su questa linea. Lo scrittore romano, infatti, lavora sempre con documenti “reali”: per lui il referente è imprescindibile. Del resto, ogni fotografia ha sempre un referente in sé: quello che s’impressiona sulla lastra è certo un’entità spettrale, ma è anche la certificazione di quello che il Barthes della Camera chiara chiama un «è stato».
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Quella cosa che chiamiamo poesia non sarebbe tale se fossimo equidistanti rispetto alle parole, come se le guardassimo dall’alto di una torre e potessimo puntarle indifferentemente con il nostro fascio di luce. Bisogna essere disposti a un corpo a corpo con singoli vocaboli. Ci sono dislivelli, parole che impattano, revenants, e soprattutto siamo immersi nella mischia, e spesso ci sentiamo soffocare, ci manca l’aria per via di una parola che occlude il respiro.
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L’estinzione dei semafori, segnacoli luminescenti sparsi da mano previdente a regolare il transito nelle placide pianure dell’Europa moderna, è la conseguenza di un meccanismo di evoluzione genetica del vivere collettivo infastidito da ogni forma di ostacolo, basato su logiche rigidamente competitive e sopraffattorie: “declino della ripartizione • dell’equità • dei diritti di precedenza • tramonto • della regolamentazione impassibile • dei semafori • della distribuzione • del tempo”. Il semaforo era egualitario, socialdemocratico; figlia del darwinismo sociale postumano è la rotonda.
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L’ekphrasis del mostro, montato pezzo a pezzo sullo sfondo di un paesaggio nordico: ma un mostro donna, come quello costruito, prima di distruggerlo, da Victor Frankenstein su un’isola delle Orcadi: è il soggetto della parte finale di Filamenti di Elisa Biagini, riuscito esperimento di attraversamento della propria ‘maniera’ alla ricerca di una sempre più forte definizione di sé come artista.
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L’occhio fotografico di Schifano sembra instaurare un rapporto mesmerico con i vuoti e le asprezze del reale che si manifesta intorno a lui. Nel paesaggio lunare e sassoso, invaso da sterpaglie, recinti e strani cartelli, trova piena immanenza la vocazione trascendentale che si nutre per lo spazio al di là del mondo, per l’universo più lontano, assoluta alterità mai davvero conoscibile, e per il futuro al di là di oggi, tempo incipiente della nuova tékhne, che tutto sottende e trasmuta.
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La modernità polacca nasce da un insostenibile senso personale di perdita e vuoto: ma non è, non è solo, la costante disperazione patriottica di chi è costretto ad abitare in un paese che non esiste, in quella «Pologne – c’est‑à‑dire nulle part», di cui scriveva Alfred Jarry non molti anni prima, ma ha la tangibilità, anch’essa romantica, di due amori tragici.
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Esistono molti modi per evitare lo sguardo di una donna, ovvero per eludere quello della musa, rappresentandola per esempio mentre lo volge altrove, intenta o ad occhi chiusi per un sonno che pare marcarne l’assenza, sebbene l’immagine ne manifesti la presenza. Uno di questi consiste nella parcellizzazione della sua figura, espediente prima e meglio attestato in letteratura che nelle arti visive, a partire dall’esempio sublime del Canzoniere di Petrarca.
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"Fotocopie" è un lungo attraversamento da intendere anche come una serie di trapassi – vi compaiono persone morte, persone vive, e persone vive che si legano a quelle morte. Ed è allora anche una storia della vita umana che scorre su più livelli, tra i presenti, gli assenti. In un dialogo possibile, a volte impossibile, tramite fotografie, disegni, tramite parole.
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Non mi è chiaro quale sia il fantasma, i miei genitori e il loro “da dietro” o il disastro climatico. Comunque una questione di ecologia e, così come la fine, il revenant non può tardare. Tutto è prossimo. Una cosa del tutto diversa da me e te. Il fantasma, non queste immagini. Eppure entrambe sono questione di ripetizione, “uno spettro è sempre un revenant. È impossibile controllarne gli andirivieni, perché comincia colrinvenire” [1]. Un rinvenimento che si è imposto senza passare dal lutto nella sua dimensione più facile e filmica, ma attirato piuttosto dalla costante distruzione dell’inorganico, ciò che non
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Nell’età del testimone che muore, quando la voce di chi c’era – nei luoghi dove si è perpetrata la Shoah – si spegne, scende al grado zero la possibilità di raccontare le cose “com’erano laggiù” (secondo l’espressione di Primo Levi). Per ‘ridire’ le ‘cose di laggiù’ non basta raccogliere testimonianze in articulo mortis, né farsi testimoni di testimoni, affidando a una narrazione della narrazione il compito della staffetta, la trasmissione del testimone. Ci vogliono altri modi, altre strategie di ricreazione del ricordo.
...Cosmopolis
Domenica 7 febbraio uno spot lento, troppo lento, frattura la quiete urlante del Superbowl. Nella festa globale per il Trump decollato, nel
Imago
In tutta l’opera della Yourcenar, al fondo, percepiamo la fine di un’epoca in cui le opere d’arte non erano immagini ma presenze
Microgrammi
La verità di una identità (ammesso che due questioni come “verità” e “identità” siano afferrabili o stabili al punto da lasciarsi catturare
Scrizioni
Un sapere capace di sostare tra la parola e l’immagine: mai davvero di casa né nell’una né nell’altra; sempre inquieto nell’infinito passaggio
Ritratti
È verso la fine del 1924 che Georges Bataille entra per la prima volta in contatto con Michel Leiris. A fare da