Il testo che segue è qui presentato in occasione della mostra “Mario Schifano. Qualcos’altro”, a cura di Alberto Salvadori, inaugurata il 22 gennaio 2020 alla Galleria Giò Marconi di Milano (aperta fino al 20 marzo). La mostra è accompagnata da un giornale in formato tabloid con contenuti inediti dell’artista e un contributo di Riccardo Venturi e Alberto Salvadori.
I
Nel 1960 Mario Schifano, appena ventiseienne, realizza Qualcos’altro. È composto da una sola campitura di colore rosso, uno smalto steso in modo disomogeneo su carta intelata; la ripartizione interna è ben visibile e si contano cinque file di sette quadrati ciascuna. Con una tecnica adottata in altre opere dello stesso periodo, le pennellate sono veloci, senza l’intenzione di rendere omogeneo il risultato finale, come mostra la scolatura in basso, una bava di colore che spezza la rigida conformazione geometrica.
Qualcos’altro è anche il titolo di questa mostra, realizzata quasi esclusivamente con le opere di Giorgio Marconi e altri pochi, rari, e preziosi prestiti.
Nella tradizione della pittura astratta è questione di inizi, di gesti eclatanti che fanno tabula rasa. Così sono i primi anni Sessanta in Italia, in cui si propagano delle energie artistiche innovative che gli artisti della generazione di Schifano sapranno incanalare. Ancor più in una città come Roma – “sanguigna, organica, intensa” (1982) nelle parole di Schifano[1] – che, da secoli, vive nell’oblio della violenza efferata della sua fondazione. E alla quale tanti recessi del centro storico – dove l’avventura di Schifano germoglia, si dirama e si consuma – sembrano riportarla. In questa incapacità di nascondere il passato, di rimuoverlo spazzando la polvere sotto il tappeto riconosciamo la maledizione di chi a Roma si adopera a una pratica artistica. Che, in quanto tale, è sempre contemporanea. Una presenza in un presente.
Eppure presto la presenza impallidisce nel senso che gli viene attribuito; presto quel presente s’impelaga in una rete storica fitta e tortuosa da cui è difficile districarla. “I primi quadri soltanto gialli con dentro niente, immagini vuote, non volevano dir nulla. Andavano di là, o di qua, di qualsiasi intenzione culturale. Volevano essere loro stessi, così come fossero spezzoni di… […] Fare un quadro giallo era fare un quadro giallo e basta. Le perplessità sono nate quando i critici ci hanno steso sopra le loro motivazioni e un’intera letteratura. Ma io mi muovevo con autonomia. Il possesso di quel che facevo ce l’avevo soltanto io” (1972)[2].
Fondazione dell’Urbe, fondazione dell’astrazione pittorica: entrambi devono passare per un gesto esemplare, per una cesura radicale, per un atto eversivo.
E se con Qualcos’altro Schifano indicasse, pur nella sua enigmatica sinteticità, un programma, uno di quelli mai esplicitato e ridotto all’osso, ma efficace come uno slogan? La risposta laconica a chi, al giovane Schifano, chiedesse di cosa abbia bisogno l’arte. “Qualcos’altro” sarebbe la sua risposta, con un’alzata di spalle, restio a dare tante spiegazioni.
Ma altro rispetto a cosa, ci si chiederà? Altro da quello che si vedeva in giro nella Roma di fine anni cinquanta; dai discorsi critici rimasti al palo del lessico informale; da una società del benessere che, dal punto di vista della cultura visuale, era poco aggiornata, circospetta, ancorata a un’idea di arte che, gli artisti se ne resero conto prima degli altri, non rimandava a un vissuto condiviso.
Se ne accorge, ad esempio, Jannis Kounellis. Sbarcato a Roma, un Mario Mafai che sembrava non essersi mai allontanato da via Cavour gli confida senza ironia che era il tempo del “dopo dopoguerra”. Come se questo periodo non finisse mai e restasse, anche per una generazione che aveva vissuto gli eventi bellici prima dell’adolescenza, l’unica stella polare per orientarsi. Con la frustrazione di arrivare troppo tardi, di litigarsi gli avanzi post festum, di vivere il presente come un tempo differito, che viene da altrove, in cui soffia un vento di rovine e di voci estinte; una dimensione postuma capace di paralizzare anche il più entusiasta degli artisti.
La risposta di Schifano è un risoluto NO scritto in nero o in rosso e a lettere maiuscole su un quadro, un’altra carta intelata, ennesima declinazione di Qualcos’altro.
Dopo aver lavorato tutto il giorno a contatto con l’arte etrusca di Villa Giulia – sarcofagi, altorilievi, oggetti votivi provenienti dalle necropoli –, Schifano passeggia per il centro di Roma con la sua bicicletta. Non ha fretta di rincasare a Cinecittà. Il suo sguardo è attratto dall’asfalto, dalle strisce pedonali e dalla segnaletica urbana. Come in un bivio stradale, Schifano intravede da una parte un’autostrada illuminata a più corsie, quel “dopo dopoguerra” che affonda nelle sabbie mobili dello storicismo e di cui non sa cosa farsene, dall’altra un sentiero scosceso percorso da pochi figuri quali Jasper Johns e Jim Dine. Dipinge Qualcos’altro di un rosso acceso che non passa inosservato, qualcosa che sa più di strada che di collezione museale. Di certo qualcosa che, tradendo le aspettative, sfugge alla morsa letale del modernismo.
Un gesto disinvolto, quello compiuto da Schifano, non privo di una certa sprezzatura propria alla sua opera quanto al suo personaggio, perché la prima è inscindibile dal secondo, come si accorgono subito i critici dell’epoca: “Mario Schifano è i suoi quadri. Dunque guardi i quadri e conoscerà Schifano”, per dirla con Goffredo Parise (1965). Così è il suo atelier estivo, la terrazza di un palazzo che si affaccia su piazza Scanderbeg, dove Schifano dipinge tra i cassoni dell’acqua e i dipinti che sono come panni stesi al sole, pienamente immerso nell’elemento romano, in un momento in cui artista e città sono coagulati uno nell’altra.
“Mario Merz lo diceva… poche persone – diceva – riescono a cavarsela dignitosamente con la città di Roma. E lui pensava che io, in fondo, ce l’avevo fatta […] La mia Roma non aveva limiti, era ampia, possedeva una ‘geografia’ culturale molto estesa…” (1982)[3].
II
Qualcos’altro è un gesto più spericolato di quanto appare sulle prime, e che non si sottrae alle obiezioni, a partire dalla più evidente: siamo davanti a un monocromo, a nient’altro che a un monocromo, e non c’è niente di meno innovativo negli anni sessanta che dipingere monocromi. Quella che sarà denominata neo-avanguardia (neo-metafisica, neo-dadaismo, neo-realismo…) spaccia come nuovo un ritorno di forme radicali ma appartenenti a una storia precedente quel dopoguerra da cui gli artisti volevano emanciparsi, una retroguardia.
Schifano non solo ne è consapevole ma non è disposto a far carte false per sembrare coerente a tutti i costi. Nello stesso periodo infatti dipinge opere con riferimenti a Picabia (Sogno a Picabia 1919 (Congresso Dada), 1963), Malevič (Chiamato K. Malevič, 1965) e persino De Chirico (A De Chirico, 1962). “Avrei voluto conoscere Picabia e Balla. Il passato comincia con Picabia e Balla. Gli antichi, i veri antichi, sono stati per me talvolta dei nomi da mettere a dei quadri incerti: Piero della Francesca, Botticelli… Era il nome che diventava importante” (1974)[4]. Quella che sembra una versione in nero di Qualcos’altro porta il nome di Santa Tecla (1961), una parola, osserviamo per inciso, simile a tela – una santificazione dell’invenzione rinascimentale del quadro. E un’opera vicina a Qualcos’altro, un quadrato rosso più piccolo, s’intitola Quai du Louvre – una messa in scacco della novità. Allora tanto valeva restare a Villa Giulia ad ammirare gli Etruschi!
La ripetizione però è uno degli operatori principali dell’opera di Schifano. Un suo dipinto s’intitola del resto Narcissus double (1962), e la questione diventa esplicita nella seconda versione di Qualcos’altro del 1962: un polittico composto da quattro pannelli verticali grigiastri. In una foto rarissima, l’artista è nel suo studio con, alle spalle, l’opera poggiata a terra, verosimilmente finita.

Mario Schifano, Qualcos’altro, 1962
Enamel on paper mounted on canvas
cm 201.3 x 230.5 x 3.8
Aguzziamo lo sguardo: sullo sfondo, a sinistra, parzialmente coperto da Qualcos’altro s’intravede un altro dipinto con la lettera “a” e lo spazio che divide “Coca” da “Cola”, molto probabilmente Propaganda IV (1962). L’accostamento non è peregrino: la scritta “Koka-Kola” era già apparsa nel 1961 su un altro monocromo rosso. Uno stigma nel cuore dell’astrazione pittorica, non meno incisivo, per restare all’arte italiana, di Rosso Gilera 60 1232 e Rosso Guzzi 60 1305 (1967) di Alighiero Boetti.
Che si riferiscano a Malevič o a Picabia, al Louvre o a Santa Tecla, le superfici monocrome di Schifano restano tutte, eloquentemente, Space available, per riprendere il titolo di un disegno su carta del 1964. Spazio disponibile: Schifano doveva sentire che tale è diventato il monocromo pittorico in quel frangente storico. Spazio di nuovo disponibile (in tal senso neo-avanguardistico), perché per alcuni decenni non era stato pensabile rifarsi a una stagione dell’avanguardia che aveva presto esaurito la sua forza propulsiva e aveva visto naufragare il suo bottino utopico.
Questo spazio di nuovo disponibile esorcizza lo spazio vuoto, che non designa più ormai alcun infinito trascendentale, alcuna assenza d’immagini, alcun segno traumatico, alcuna attesa non garantita di una pienezza perduta. Per Schifano dipingere il vuoto – lo Space available – vuol dire aprire lo spazio del quadro a interventi di ogni genere, non circoscritti a un medium specifico, nella misura in cui egli si mostrerà capace d’includere la strada e presto lo schermo televisivo e cinematografico.

Enamel on paper mounted on canvas
cm 180.4 x 159.5 x 2.9
Una liberazione dalla logica del progetto propria dell’avanguardia e del modernismo. Finalmente il monocromo si darà senza il fardello di un programma ideologico e utopico che lo riduce a poco più di un passo intermedio, per quanto necessario, verso una meta prefissata. E che, una volta raggiunta, farà inevitabilmente scomparire la singolarità di quell’opera.
Schifano così moltiplica i modi in cui dire qualcos’altro: lo spazio disponibile, come abbiamo visto, ma anche lo zero. Se le due forme chiuse di Tempo moderno (1962) fanno pensare a una finestra, a un circuito automobilistico o alla lettera “o”, anche la cifra 0 è plausibile: “era da uno zero speciale che partivo, il più moderno degli zeri, non era un azzeramento. Era zero. Era qualcosa di molto più moderno di un’opera d’arte quello che volevo fare”[5].
III
La grammatica dei monocromi di Schifano è semplice: ci sono i colori accesi grazie agli smalti industriali, alcuni raramente utilizzati nella pittura astratta come il verde (Solo verde, 1960; Grande verde, 1960; Palinuro, 1961; La porta verde, 1961). C’è la carta intelata, applicata sul quadro, con una tecnica che ricorda l’affiche dei manifesti pubblicitari, incluse le piccole increspature dovute alla colla. Ci sono le estremità bombate che restituiscono alla tela una materialità simile agli Schermi di Fabio Mauri (Monocromo, 1960). Ci sono delle scritte stampigliate al centro, lettere e a volte numeri consecutivi (Numero 30-31,1960), come se facessero parte di una pellicola cinematografica o di un rullino fotografico. C’è l’abitudine di ripartire il dipinto in più pannelli senza rinunciare alla scala antropomorfa: un dittico (La porta verde, 1961) o un polittico – a volte chiamato quadrittico, come Monocromo (Castro) (1961) – per sfuggire alla singolarità e all’autonomia della pittura modernista, se non alla stessa instaurazione del quadro nell’era moderna.
Due ancora gli elementi decisivi, a partire dal paesaggio urbano. A seconda di dove Schifano rivolge lo sguardo, trae ispirazione per una diversa serie di dipinti. Verso il basso c’è la segnaletica stradale: “Nel ’60, con Tano Festa, discutevamo dei nostri quadri, di quello che volevamo metterci dentro, le strisce pedonali, l’asfalto, i passaggi a livello, e tutte queste cose non le avevamo trovate nei libri, eppure ci servivano per la nostra formazione, per la nostra maniera di fare cultura” (1974)[6]. Verso l’alto svettano i billboards, al punto che Schifano dedicherà due dipinti ai pittori d’insegne. “I monocromi forse sono cartelloni della pubblicità senza la pubblicità” (Schifano)[7], una frase che avrebbe potuto dire James Rosenquist.
Diverse anche le modalità di percezione: la pubblicità rapisce lo sguardo, ma i suoi contenuti restano ambigui, volti meno a comunicare che a generare desiderio. Che cosa vogliono davvero le immagini?, si chiederà decenni dopo W.J.T. Mitchell nel contesto del pictorial turn. La segnaletica stradale invece è un codice composto da pochi colori e forme elementari, che induce una risposta percettiva immediata e senza ambiguità: “i miei monocromi sono pittura grondante […] Quando usavo – e quando uso – il colore industriale volevo dare un significato emblematico alla pittura. Non volevo sfumature, perciò sceglievo il colore-blocco il colore-barattolo” (1982)[8].
Il secondo elemento è la fotografia. In una sequenza di cinque scatti, Schifano gioca con la macchina fotografica, da sempre con lui, la prima una Rolleiflex 6×6 che utilizza sin dal 1962, poi le Nikon F dal ’65 e dalla sua comparsa la Polaroid: “Ho sempre usato la fotografia […] I miei primi quadri erano delle fotografie proiettate, perché volevo evitare di fare delle cose artistiche” (Schifano, 1973). La foto tuttavia non offre solo un nuovo medium ma un nuovo sguardo, un occhio meccanico che Schifano adotta senza remore. Al punto che Maurizio Fagiolo dell’Arco, col consueto acume, considererà l’artista romano non più un artiste-peintre ma un tecnico dell’immagine[9].
Prendere sul serio il ruolo che la fotografia ha avuto per l’astrazione pittorica vuol dire parlare di riquadro o visore monocromo. Dal quadro al riquadro, dalla visione al visore: ecco riassunta in una frase la rivoluzione compiuta in pochi anni da Schifano.

Enamel on paper mounted on canvas
160.3 x 140 x 2.9 cm
IV
l’amico g.f.
blu/il pavimento della pittura
marrone/e i passi necessari
azzurro/dover stiamo andando
bianco/guardando bene
rosso/poi viene nero
grigio/non c’è più nessuno
giallo/un’altra immagine
Così Nanni Balestrini introduce la mostra di Schifano alla galleria Odyssia di Roma nel 1964[10]. In questo spazio, nel 1962, Giorgio Marconi comincia la sua collaborazione intensa col giovane artista romano, dopo aver visto alcune opera alla galleria La Tartaruga di Plinio De Martiis[11].
Giuseppe Uncini gira per le sale della galleria Odyssia e non sa capacitarsi. Alle pareti campeggia un dipinto con un tondo giallo al centro che ricorda un sole; legge il titolo e si rende conto che ci ha visto giusto: si tratta di O sole mio (1963), un’opera che entrerà poi nella collezione di Gianfranco Baruchello.
Chi si aspetta che Schifano approfondisca la direzione del monocromo intrapresa così brillantemente nei primi anni Sessanta si sbaglia, a partire dalla gallerista Ileana Sonnabend, che vuole monocromi e solo monocromi, nothing else. Girando per la galleria Odyssia, Uncini apostrofa Schifano: “Mario ma che cavolo hai fatto?”, per sentirsi ribattere: “A Pè, svejate!’. “Dentro allo schermo”, precisa Uncini, “dentro al monocromo c’erano le prime immagini: Coca-Cola, Esso, No, il ritratto di Leonardo, il sole, gli incidenti, i grandi paesaggi… Il monocromo si trasformò in una specie di tabula rasa in attesa di diventare qualcosa, di ospitare qualcosa di altro. Diventò un luogo di proiezione, un campo fotografico”[12]. Del resto nel dicembre 1963 Schifano e Anita Pallenberg si erano imbarcati da Napoli in direzione degli Stati Uniti. Era il suo secondo viaggio transatlantico, consapevole che, allora, New York rappresentava altro rispetto a Roma. Pochi si erano accorti che Schifano era già altrove, verso “un’altra immagine” come scriveva Balestrini. Allora, come nel resto della sua carriera, un demone benigno lo spingeva a cercare sempre qualcos’altro.
Crediti fotografici:
Congeniale, 1960 (immagine di copertina)
Enamel on paper mounted on canvas
100.4 x 150.9 x 3.2 cm
Private collection, Courtesy Fondazione Marconi, Milan
Photo: Fabio Mantegna © Mario Schifano by Siae 2019
Qualcos’altro, 1962
Enamel on paper mounted on canvas
201.3 x 230.5 x 3.8 cm
Private collection, Courtesy Fondazione Marconi, Milan
Photo: Fabio Mantegna © Mario Schifano by Siae 2019
Tempo moderno, 1962
Enamel on paper mounted on canvas
180.4 x 159.5 x 2.9 cm
Private collection, Courtesy Fondazione Marconi, Milan
Photo: Fabio Mantegna © Mario Schifano by Siae 2019
Vero amore incompleto, 1962
Enamel on paper mounted on canvas
160.3 x 140 x 2.9 cm
Private collection, Courtesy Fondazione Marconi, Milan
Photo: Fabio Mantegna © Mario Schifano by Siae 2019
[1] Marco Meneguzzo, Conversazione con Schifano, Roma 6 aprile 1982, in Mario Schifano, Pinacoteca Comunale, Loggetta Lombardesca, Ravenna 1985.
[2] In Enzo Siciliano, Lui ama Nancy la fotografa, in “Il Mondo”, 16 novembre 1972.
[3] Marco Meneguzzo, Conversazione con Schifano, Roma 6 aprile 1982.
[4] In Alberto Moravia, Moravia registra Schifano, a cura di G. Massari, in “Il Mondo”, 9 maggio 1974, pp. 16-17.
[5] In Gaetano Cappelli, Ritratto irregolare d’artista, in MS Tutto, Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, Spazi Espositivi ex Fabbrica Peroni, 2001-2002, Electa, p. 81.
[6] In Alberto Moravia, Moravia registra Schifano, a cura di G. Massari, in “Il Mondo”, 9 maggio 1974, pp. 16-17.
[7] In Gaetano Cappelli, Ritratto irregolare d’artista, in MS Tutto, Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea, Spazi Espositivi ex Fabbrica Peroni, 2001-2002, Electa, p. 81.
[8] Marco Meneguzzo, Conversazione con Schifano, Roma 6 aprile 1982.
[9] Metafora 66. Adami, Baj, Del Pezzo, Schifano, Tadini, Studio Marconi alla Galleria del canale, Venezia 1966, poi in MFA, Rapporto 60, pp. 151-152.
[10] Nanni Balestrini, A colori. Poesie per Mario Schifano, in cat. Galleria Odyssia, Roma 1964; poi in Schifano 1960-1964. Dal monocromo alla strada, a cura di G. Marconi, 2005.
[11] Cfr. A.C. Quintavalle, Intervista a Giorgio Marconi, in A.C. Quintavalle, Mario Schifano America Anemica, Skira 2008.
[12] Uncini in Luca Ronchi, Mario Schifano. Una biografia, Johan & Levi 2012, p. 44.