Si può prendere l’abbrivio da una sorta di “richiesta di soccorso” – un’apostrofe quasi in stile antico – che, subito dopo la presentazione alla critica del film Mamma Roma, Pier Paolo Pasolini rivolse a Roberto Longhi dalle pagine di «Vie Nuove», un settimanale gravitante nella sfera del P.C.I., precisamente sul numero del 4 ottobre 1962:
“Ah, Longhi, intervenga lei, spieghi lei, come non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca! Ma non hanno occhi questi critici? Non vedono che il bianco e nero così essenziale e fortemente chiaroscurato, nella cella grigia dove Ettore (canottiera bianca e faccia scura) è disteso sul letto di contenzione, richiama pittori vissuti e operanti molti decenni prima del Mantegna? O che se mai, si potrebbe parlare di un’assurda e squisita mistione di Masaccio e Caravaggio?”

La supplica, rivolta all’amatissimo professore piemontese – a colui che (stando alle parole del discepolo Pier Paolo) era stato il principale responsabile, circa vent’anni prima, di una entusiastica auto-elezione al linguaggio delle immagini, e dunque corresponsabile nel caso specifico (che è quello di un uomo che sente al contempo il fascino della narrazione) di una piena conversione al cinematografo – dice moltissimo sul modo pasoliniano di intendere le prerogative linguistiche della pittura e di utilizzarle nel cinema, cosí come getta una luce assai chiara su qual tipo di influsso Longhi abbia esercitato presso l’autore di Mamma Roma. Non v’ha dubbio che le lezioni di Longhi, assiduamente frequentate presso l’aula di Storia dell’Arte di Via Zamboni, tra il 1939 e il 1941, siano state “cruciali” per la formazione del giovane in questione, visto che è lui stesso ad attestarlo, urbi et orbi, con quella drastica onestà intellettuale che lo ha sempre contraddistinto:
“Longhi era sguainato come una spada. Parlava come nessuno parlava. Il suo silenzio era una completa novità. La sua ironia non aveva precedenti. La sua curiosità non aveva modelli. La sua eloquenza non aveva motivazioni. Per un giovane oppresso, umiliato dalla cultura accademica, dal conformismo della società fascista, questa era la rivoluzione, perché Longhi non apparteneva alla falsa cultura ma alla vera cultura”. E poi: “Se penso alla piccola aula (con banchi molto alti e uno schermo dietro la cattedra) in cui ho seguito i corsi bolognesi di Roberto Longhi, mi sembra di pensare a un’isola deserta, nel cuore di una notte senza più luce. E anche Longhi, che veniva e parlava su quella cattedra, e poi se ne andava, ha l’irrealtà di un’apparizione. Era, infatti, un’apparizione…”. E ancora: “Allora, in quell’inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la Rivelazione.” [Recensione di Pier Paolo Pasolini a Roberto Longhi, Da Cimabue a Morandi, in «Tempo», 1973].
Ma affermare, o piuttosto constatare, che all’amore per la pittura, instillato in Pasolini dal fascino della parola di uno storico dell’arte (nonché docente) dalle capacità esplicative semplicemente formidabili, si deve la frequenza nel cinema del regista bolognese di molteplici e pienamente riconoscibili citazioni iconografiche dalla grande tradizione pittorica medievale e moderna, è tanto facile quanto, a mio avviso, insufficiente.
Vediamo: proprio l’invocazione a Longhi citata in incipit dimostra, con estrema chiarezza, che Pasolini stesso era profondamente insoddisfatto del solo (facile) riconoscimento della citazione iconografica (“non basta mettere una figura di scorcio e guardarla con le piante dei piedi in primo piano per parlare di influenza mantegnesca”). Ciò almeno nel caso specifico del finale di Mamma Roma, anche se – come vedremo – la facoltà di andare ben oltre questo primo livello di utilizzo del linguaggio pittorico può esercitarsi senza troppi inconvenienti a margine di qualsiasi altra “citazione” pasoliniana, da quelle (evidentissime) del Decameron a quelle (forse piú sottili) de I racconti di Canterbury e perfino a quelle (del tutto dichiarate e plateali, in quanto tematico-testuali) de La ricotta.

(Ettore sul lettino di contenzione poco prima della morte)
Restiamo per ora a Mamma Roma e alla morte (con trasfigurazione) di Ettore nel suo letto di contenimento carcerario. Non è di certo un caso – appunto – che Pasolini chieda precisamente a Longhi, e non ad altri, di aiutare i critici cinematografici a comprendere che non c’è solo il Cristo morto del Mantegna (1475-80, Pinacoteca di Brera) dietro quella inquadratura a prospettiva longitudinale, cosí (in effetti) vistosamente mantegnesca. Da un lato diciamo subito che il “vistosamente” coincide, per la profondità del pensiero di Pasolini, con un “superficialmente”, e dall’altro prendiamo atto che tale profondità pasoliniana è in rapporto con la lezione di Roberto Longhi, dato che lui stesso ce lo conferma tramite l’invocazione. Nell’ideare le forme della tragedia – indispensabile per la conclusione di un film crudele e disperato, un film che deve essere in sostanza una denuncia totale della ferocia assoluta della società capitalistica nel suo momento di apparente maggior sviluppo positivo (il boom economico dei primi anni Sessanta in Italia) – il regista non esita ad addurre la rappresentazione spaziale della piú celebre e drammatica visione della morte di Cristo di tutta l’arte italiana del Quattrocento, cosí che l’assimilazione di Ettore all’immagine di una innocenza massacrata sia fulminea, e sia fulmineamente posta in primo piano. Piano dello spazio, dunque, e spazio di una prospettiva drammatica e audacissima (drammatica in quanto audacissima, si potrebbe dire) a partire dal geometrismo intellettualizzato del (nuovo) linguaggio rinascimentale delle immagini, tra Alberti, Mantegna e Piero della Francesca. Ma – ecco il punto – Pasolini non si accontenta di questa prima “scatola” ideologica, ovvero di una ideologia dello spazio. Egli chiede di riconoscere la componente masaccesca e caravaggesca del dramma, l’impatto che una (piú sottile ma non psicologicamente meno efficace) adibizione del ruolo della luce – “bianco e nero così essenziali e fortemente chiaroscurati nella cella grigia dove Ettore (canottiera bianca e faccia scura)” – va a produrre sulla sensibilità profonda e perfino inconscia del fruitore. Quell’impatto è effettivamente formidabile, ed è essenziale per la rappresentazione piena (ovvero emotivamente ricca ed esplosiva) della tragedia. E senza quell’impatto la sequenza della morte di Ettore non sarebbe quel capolavoro della storia del cinema che essa è.
Longhi ha forse, per primo e piú di chiunque altro, sentito la forza drammatica che la pittura può sprigionare al di là di ciò che essa narra o dice, ovvero ha compreso come ciò che potremmo definire la “semiotica dell’immagine” lavori a produrre contenuti che travalicano di gran lunga l’aspetto diegetico dei dipinti. Basta rileggere, per rendersene conto, un memorabile passo del Viatico (1946), laddove lo storico – presunto “puro-visibilista”– in relazione all’analisi di un dipinto di Giovanni Buonconsiglio (la Pietà del Museo di Vicenza, 1500 circa) – dà prova di una capacità di attribuzione di senso ai caratteri formali del testo pittorico che è senza uguali nella critica d’arte di quegli anni:
“L’accordo straziante tra la spoglia livida del Cristo, come corazzato dalla morte, e il picco immobile della Vergine impietrita che sovrasta i monti lontani; il funereo pennacchio e lo sterpo attoscato sulla roccia levata di quinta a stringere l’intarsio freddo e rigato del cielo dopo la tempesta d’autunno; i monti di verde lavato presso il borgo pallido; ogni cosa si rilega in una lettura netta e crudele, senza comparazione a quei tempi.” [Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, 1946, ristampa Sansoni, Firenze 1978].

Al di là dell’invenzione di una retorica specifica per la traduzione in linguaggio verbale delle “verità” rivelate nella pittura e nelle arti dell’immagine, che è forse il merito maggiormente riconosciuto allo scrittore langhigiano, si noti quel che specificamente “accade” all’opera del Buonconsiglio grazie a quella potente analisi: ogni dettaglio dell’immagine, ogni elemento descrittivo di un contesto paesistico, ogni atmosfera celeste o parvenza rupestre, concorrono per Longhi a dar forma al dramma rappresentato, quasi come se il pianto della Vergine di fronte al Figlio morto fosse solo la silloge un dolore globale e onnipervasivo, il quale si espande ovunque nel quadro, il quale da ogni luogo converge e si concentra, il quale prende, infatti, la forma della luce (“l’intarsio freddo e rigato del cielo”) o quella di un arbusto (“lo sterpo attoscato sulla roccia levata di quinta”) o quella di una nuvola (“il funereo pennacchio”). E’ questa, per Longhi, l’autentica forza della pittura, nonché il segno della genialità di un artista: creare emozione intensa – foss’anche per vie subliminali che la parola critica tenta di far emergere in consapevolezza – a mezzo di una qualità della trattazione complessiva del significante, una forza dell’espressione, senza la quale una Crocifissione di Grünewald non varrebbe molto di piú di qualsiasi altra Crocifissione dipinta da qualsiasi altro pittore o imbrattatele di turno.
L’equivoco in cui sono incorsi storicamente gli avversari di Roberto Longhi (e sono stati tanti!) consiste nell’aver inteso la concezione longhiana – puro-visibilistica si diceva – come il corrispettivo di un pressoché totale disinteresse per la “portata” di contenuti (id est: umanistica, sociologica, filosofica, drammatica, e infine politico-critica) dell’opera d’arte. Ma è evidente, ormai, che Longhi, come Gadda in letteratura, intende la forza del linguaggio artistico come ciò che è in grado di sprigionare potenziale interpretativo, ovvero “contenuto” filosofico e perfino critico-ideologico, oltre il dato tematico e oltre le scelte di campo esplicito nell’impostazione diegetica del testo; il che significa che egli è persuaso che l’altrove a cui l’opera indirettamente fa cenno potrà essere – grazie alla vocazione metaforica e allegorica del linguaggio estetico – il qui ed ora della nostra condizione esistenziale. Longhi non ha mai pensato alla qualità di un quadro come alla semplice e banalissima questione dell’abilità tecnica del suo autore, ma ha invece sempre saputo riconoscere negli esiti espressivi (quindi comunicazionali) che il testo pittorico va di volta in volta a conseguire il risultato e il termometro della sua qualità, che è anche ovviamente, a sua volta, l’esito di capacità tecnico-linguistiche. Parlare di “formalismo” in senso spregiativo, come se si trattasse del trastullo di una mente semplice o del frutto di un amore solo istintivo per la bellezza esteriore delle grandi opere, magari contrapponendolo alla ricchezza delle risultanze storiografiche offerte dalle metodologie iconografiche-iconologiche, è un errore che grida vendetta, oppure si tratta di vera e propria malafede alla quale non si può concedere perdono. Questo Pasolini l’aveva compreso alla perfezione, io credo meglio degli allievi stessi di Longhi sulle cattedre di storia dell’arte, fatta eccezione per Francesco Arcangeli.
La coscienza piena della forza espressiva dell’immagine, in quanto struttura di elementi ottico-percettivi composti in un campo bidimensionale di forze e di tensioni, che è l’esito di un intendimento altrettanto pieno (e ricco) del linguaggio della pittura, conduce Pasolini a una concezione del quadro cinematografico (quasi in “allitterazione” con il quadro pittorico) come dato basilare per la produzione del significato filmico. Tale coscienza e le scelte che ne conseguono non fanno, del resto, che ricondurre il cuore vivo del cinema al luogo operativo che gli è proprio, quello dell’arte visiva, da dove tendono ad espellerlo (per contro) i prodotti banali e commerciali che imperversano attorno ad esso.
Quando, per la morte di Ettore, Pasolini riprende il chiaro-scuro potentemente volumetrico della Cappella Brancacci (Masaccio, 1424-28) e spinge fino in fondo la crudeltà della luce abbacinante che piove da una finestra, attivando dinamiche espressive tipicamente caravaggesche, egli dichiara la propria fiducia in una estetica dell’immagine di cui la storia della pittura ci rende eredi, e al contempo pone in rilievo (con riconoscenza) il proprio debito nei riguardi della lezione di Roberto Longhi, al quale (non a caso) il film Mamma Roma è dedicato. La “assurda e squisita mistione di Masaccio e Caravaggio” è interamente attualizzata sul piano del trattamento formale dell’immagine: la luce a cui è esposta la fotografia è in questo caso come il pennello dell’artista, che infligge colpi d’ombra e di chiarore per far emergere corpi vivi e sofferenti, strazi e patologie della carne, fisicità urlanti la tragedia della morte e quella della vita.
Ma anche quando, lavorando invece sull’iconografia, il cineasta bolognese “compone” un arco di rocce attorno al volto della Vergine in modo tale da incorniciarlo in una sorta di “aureola” simbolica e sacrale (nel Vangelo secondo Matteo, 1964), egli appare non meno intento ad allestire longhianamente i rapporti significanti di un quadro pitto-cinematografico: un poco come – stando appunto alla lettura di Longhi – il Buonconsiglio aveva fatto con i “monti lontani”, nella Pietà di Vicenza, capaci di trasformare, quasi per contagio visivo, la figura di Maria in una sorta di “picco immobile e impietrito”.

(La Vergine con l’aureola di pietre)
Se si considera il profluvio di citazioni pressoché letterali da grandi dipinti del passato che orienta e qualifica, fortemente caratterizzandola, l’impostazione visuale del Decameron (1970) c’è quasi da stupirsi di ciò che – in questo caso – può apparire come una forma di didascalico divertimento: Giotto nelle pitture di Buffalmacco, Bruegel il Vecchio nella “festa campestre” d’interludio a metà film, ancora Giotto nel “giudizio universale” conclusivo, che riprende abbastanza fedelmente quello della Cappella degli Scrovegni (fatta salva una Madonna Silvana Mangano al posto del Giudice Redentore)… Ma occorre considerare il fatto che queste ispirazioni, cosí dirette e plateali, vengono accolte da Pasolini proprio allo scopo di rendere piú efficace la presenza della pittura tout court (la pittura come universo linguistico latente, e dunque soggiacente) in veste di retaggio profondo e operativo, che si muove ovunque (in filigrana) sotto le riprese “cine-fotografiche”, anche laddove esse non citano affatto opere pittoriche… Non a caso il personaggio di Buffalmacco è impersonato da Pasolini stesso, il quale si dichiara per tal via nient’altri che il pittore del proprio film.

Allo stesso modo, nei Racconti di Canterbury (1972) aleggia onnipervasiva la grande pittura fiamminga del Rinascimento, la quale è in grado di conferire a gran parte delle sequenze un fascino formidabile, una sorta di potenza espressiva aggiunta, che nasce dalla capacità dei quadri di sommuovere memorie interiorizzate a livello subliminale, procurando un godimento estetico tanto intenso quanto difficile da spiegare razionalmente. La figura e le posture sceniche del venditore d’uova nell’episodio di Perkin, dove per altro incombe anche la citazione cinematografica chapliniana (con Ninetto Davoli brillante reinventore del vagabondo Charlot), sono il frutto di un immaginario visivo che ha assorbito tutta la linfa climatica e culturale di quei medesimi dipinti di Bruegel (Lotta tra Carnevale e Quaresima, 1559; Il paese di cuccagna, 1567) che erano stati direttamente “tradotti” in una stupenda serie di scene – a mo’ di intermezzo para-pittorico – nel Decameron. E allo stesso titolo sprigionano “sentimento” rinascimentale fiammingo (da Bosch a Bruegel) le costruzioni plastiche della vicenda degli studenti e del mugnaio, ma in fondo – sia pure in maniera meno sensibile – anche tutti gli altri episodi del film.

Il lavoro di messa in campo della pittura non si avvale dunque, nei Racconti di Canterbury e in altri capolavori pasoliniani, della citazione iconografica diretta (la quale, come si è detto, il nostro non disdegna affatto in linea di principio: fino a sfiorare o anche a praticare dichiaratamente il tableau vivant), ma fa leva sul potere di richiamo subliminale, di azione psicologica profonda, che a livello di costruzione formale – colore, accento tonale, uso della luce, elaborazione (anche geometrica) di strutture psico-percettive – la grande tradizione pittorica mette nelle mani di chi sa amarla con passione. Si tratta quindi per il regista di riuscire ad attivare i dispositivi di significazione allegorica che la forma linguistica in quanto tale, al di là di ciò che essa “riveste” sul piano della narrazione esplicita, è in grado di supportare come contenuto precipuo, in sostanza per mezzo di un potenziamento espressivo dell’immagine. E in questo consiste precisamente, a mio parere, il “longhismo” di Pasolini.


In Che cosa sono le nuvole, magnifico cortometraggio presentato nella cornice del film-antologia Capriccio all’Italiana (1967), Pier Paolo lavora a una certa sua idea di cinema come rappresentazione della rappresentazione: un mondo fatto di marionette – intese in un solo tempo come bambocci animati solo da fili (manovrati da un regista) e persone viventi capaci di soffrire e di morire – si erge ad allegoria della futile tragedia della vita umana, e tale allegoria viene da lui posta sotto l’egida di Las Meninas di Velázquez (1656), che troviamo infatti come sfondo del titolo del film e dello spettacolo narrato al suo interno. Si potrebbe dire che Pasolini dimostra di aver intuíto il formidabile significato filosofico e analitico-linguistico del dipinto, che già Luca Giordano aveva insignito dell’appellativo “teologia della pittura” e dinnanzi al quale Théophile Gautier (preso da una sorta di vertigine) non aveva potuto trattenere la domanda: “Ma dov’è il quadro?». E si potrebbe anche dedurne che Pasolini ha compreso fino in fondo tale significato prima di aver la possibilità di leggere il celeberrimo saggio di Michel Foucault (Le damigelle d’onore, in Le parole e le cose), che era stato pubblicato in Francia solo un anno prima…

«Vi è in questo quadro di Velázquez una sorta di rappresentazione della rappresentazione classica e la definizione dello spazio che essa apre. […] Ma là, nella dispersione da essa raccolta e al tempo stesso dispiegata, un vuoto essenziale è imperiosamente indicato da ogni parte: la sparizione necessaria di ciò che la istituisce – di colui cui essa somiglia e di colui ai cui occhi essa non è che somiglianza. Lo stesso soggetto – che è il medesimo – è stato eliso. E sciolta infine da questo rapporto che la vincolava, la rappresentazione può offrirsi come pura rappresentazione.» [Michel Foucault, Le parole e le cose, edizione italiana Rizzoli, Milano 1967]. Ma infine, ed è quel che piú conta, si può osservare che con siffatti richiami letterali – quello di Las Meninas ed altri: nel camion del netturbino (Domenico Modugno), che si appresta portare in discarica le marionette di Otello (Ninetto Davoli) e di Jago (Totò), l’inevitabile “immagine licenziosa” è la Venere allo specchio della National Gallery di Londra, 1650 – Pasolini ci ha offerto la chiave piú solida per la comprensione della via attraverso cui ha potuto congegnare il fascino plastico di questo suo breve capolavoro, visto che tale fascino discende appunto da una lucida e geniale rimeditazione dei meccanismi espressivi su cui si fonda la grande pittura di Diego Velázquez.

In copertina: Diego Velázquez, Venere allo specchio, 1649-50