‘Memento’. Le polaroid dell’interpretazione in Christopher Nolan

03/09/2020

Alla fine della narrazione, Leonard Shelby afferma: “Devo credere in un mondo fuori dalla mente”. All’inizio, invece, a seguito di un evento drammatico, il protagonista di Memento (2000) perde la capacità di connettere il passato a breve termine con il suo presente. Ricorda solo gli eventi accaduti prima del trauma, che coincide con l’episodio dell’assassinio di sua moglie. È affetto da un disturbo della memoria, e non ricorda i fatti recenti. L’amnesia anterograda non gli permette di immagazzinare nuove informazioni per più di una quindicina di minuti.

I fratelli Nolan (Jonathan ha scritto la sceneggiatura e Christopher ha realizzato il film) costruiscono in maniera virtuosistica una narrazione modellata sulla distorsione dell’io, per far sperimentare allo spettatore il dubbio sulla linearità del tempo. Provano a trasferire il disordine mnemonico del protagonista nell’attenzione dello spettatore che guarda il film. Se Leonard incarna colui che incontra ogni volta per la prima volta il suo io, anche lo spettatore in qualche modo è indotto a rispecchiarsi in questa modalità.

Il plot è strutturato su due scorrimenti temporali: ventidue sequenze in bianco e nero sono sempre appaiate al seguito di altre ventidue sequenze a colori, in una sottile costruzione tra fiction e autoinganno, tra fatti realmente accaduti e interpretazioni soggettive. Solo nella quarantacinquesima sequenza i due scorrimenti temporali si ripiegano in loro stessi e si congiungono in una chiosa artificiosa e forse circolare, al di là della narrazione che non va dal principio alla fine come nei racconti tradizionali.

Attraverso la non linearità temporale della trama, Leonard cerca di ricostruire i fatti attraverso un sistema di surrogati della memoria, ovvero con dispositivi esterni quali fotografie polaroid, mappe grafiche appese al muro della sua stanza d’albergo, appunti e circostanze da ricordare tatuati sul corpo, norme di azione e appunti didascalici (“quello è l’assassino”, “di quello non ti devi fidare”, “quello è tuo amico” etc.). Si affida a una memoria estroflessa, per cercare di raccordare singoli episodi che stanno isolati e che in mancanza di collegamento sono privi di una trama coerente. I fatti divengono interpretazioni continue, come in un labirinto con Minotauro, dove chi si è perduto cerca la sua presunta verità facendola coincidere con la possibilità di uscire illeso dalla prova. Ciò che Leonard non ha dimenticato è l’ossessione che lo anima per vendicare a tutti i costi la moglie. Come può guarire e vendicarsi se non può sentire il tempo? Come può ricordarsi di aver dimenticato? E quale può essere la via per rammentare di ricordarsi?

Nell’incipit un omicidio procede a ritroso, l’immagine del morto sulla polaroid scompare, il lampo della macchina fotografica torna indietro e la pellicola rientra nella fessura della macchina fotografica. Il sangue ritorna dentro la ferita nel corpo. Il proiettile rientra nella pistola. Il mondo si muove alla rovescia, prima di imprimersi sulla retina. La memoria viene messa in difficoltà e la percezione del tempo non segue un andamento consueto.

Memento è un noir il cui soggetto è costruito su una narrazione ambigua e su un doppio scorrimento temporale, uno a colori e uno in bianco e nero. Appuntatevi questi dati. Leonard lo farebbe. La parola memento nella lingua inglese indica qualsiasi oggetto utilizzato per ricordarsi di qualcosa, compresi i post-it con note e appunti. Le due trame si completano vicendevolmente, dettaglio dopo dettaglio. Interagiscono, fornendo poco alla volta tracce agli spettatori. Nella storia in bianco e nero il racconto è narrato al telefono. Non si sa chi sia l’interlocutore che ascolta la narrazione dello smemorato.

La trama dei fratelli Nolan è ripresa da un caso clinico affine alla «sindrome di Korsakov», descritto in un celebre racconto di Oliver Sacks. Chi è affetto da questa sindrome subisce la perdita della memoria recente, e così dimentica tutto ciò che gli è accaduto a distanza di pochi minuti. La trama di Memento lascia ampi margini di interpretazione, passaggi non rivelati chiaramente, così che fino alla fine non si sia certi di nulla e si provi una sensazione simile a ciò che vive il protagonista. Mancano sempre alcune informazioni chiave per capire cosa stia accadendo veramente. Ogni rivelazione momentanea viene disattesa nelle scene successive e spostata verso altre direzioni, continuamente.

E anche alla fine non si è certi di come siano andate veramente le cose. Le amnesie sono derivate da un colpo che Leonard Shelby ha ricevuto mentre tentava di soccorrere sua moglie, violentata e uccisa da uno sconosciuto? Teddy è il poliziotto a cui assegnarono il caso dell’aggressione.  In realtà la moglie di Leonard è sopravvissuta allo stupro, ma successivamente, nel tentativo di testare la memoria del marito, è morta a causa delle molte dosi di insulina che si è fatta somministrare da lui.

Questa storia è uguale a quella che Leonard narra nel film, ovvero quella dell’ex commercialista cinquantottenne Sammy Jankis, che in seguito a un incidente ha perduto la possibilità di immagazzinare nuove informazioni, pur essendo la sua memoria a lungo termine integra. Teddy invece rivela che è Leonard quel Sammy Jankis che ha ucciso involontariamente la propria moglie. Leonard non crede alla rivelazione del poliziotto e procede nelle sue ricerche per scoprire il vero assassino, ma l’handicap non facilita le sue indagini. Escogita stratagemmi per ripartire ogni volta da qualche dato ipotetico.

Si crea una memoria artefatta, esterna, incisa sulla pelle con parole e numeri tatuati, una memoria frammentaria fermata su foto istantanee, con immagini rivisitabili ogni volta con improvvisate e parziali letture. Attraverso questo filtro, legato però solo a quello che gli fa comodo ricordare, si costruisce una possibile storia nuova dopo ogni amnesia.

È un gioco interpretativo continuo, partendo dalle polaroid e dalle parole e indizi che si è fatto tatuare sul corpo per non dimenticare accadimenti, che dovrà riscoprire e capire ogni volta.

Perché non si affida a un diario scritto di suo pugno, contrassegnato con la data, ora e firma, per dare testimonianza, con molti dettagli e descrizioni, ai fatti accaduti giorno dopo giorno, ora dopo ora, quarto d’ora dopo quarto d’ora? Perché non utilizza una telecamera e invece preferisce affidarsi alle polaroid, a messaggi estemporanei su foglietti, tatuare sul corpo frasi e riflessioni, annotare nomi, indirizzi e targhe di automobili? Pensa di ricostruire i frammenti della sua tragedia attraverso immagini che hanno colto solo semplici istanti.

Forse anche questa scelta è una deliberata testimonianza di non voler venire a conoscenza dei fatti accaduti realmente. Senza un diario e senza una telecamera a cui affidare gli eventi dei giorni precedenti ci sono più margini di intervento nella ricreazione della verità. Mettere insieme tutte le tessere del mosaico in questo modo è più difficoltoso. La fotografia e la memoria possono viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda se non sono collegate dalla razionalità e dalla logica? La fotografia è veramente un mezzo attendibile per la conservazione dei ricordi? In mancanza di una memoria normale e funzionante non è possibile leggere correttamente il senso dell’immagine presente in una fotografia e nemmeno attingere al pozzo dei flashback. La sindrome di cui è affetto Leonard annulla il potenziale dei flashback. Questa menomazione mette a dura prova uno dei capisaldi della narrazione filmica. Il regista si affida, forse anche simbolicamente, all’immagine fissa della fotografia: il cinema prova a costruire ugualmente una narrazione alternativa anche per mezzo di un’arte che non si affida la sua forza evocativa e documentale alle immagini in movimento.

La memoria a breve termine sfida la sua menomazione per mezzo dell’immagine fissa. In Memento le polaroid rappresentano una sorta di traduzione fotografica dei flashback che il protagonista non ricorda di aver vissuto. La fotografia istantanea diventa il fermo-immagine che gli consente di ritrovare le proprie tracce, mentre il suo corpo accumula giorno dopo giorno informazioni tatuate. Ogni volta riparte da capo costruendo una storia a partire dalle immagini che osserva nelle sue polaroid e dalle didascalie e appunti che lui stesso ha scritto a margine, nella cornice bianca delle foto e sul retro.

Christopher Nolan scardina l’idea di tempo “regolare”, e immagina il suo film come un ininterrotto flashback, a sua volta collegato a un monologo telefonico del protagonista, impegnato in una (ulteriore) rievocazione. Ma con chi sta realmente parlando Leonard? Con se stesso o con un interlocutore immaginario, per depistare lo spettatore? Quanto possiamo fidarci dei suoi e dei nostri ricordi? Gli appunti e le immagini possono essere interpretabili da qualsiasi punto di vista, cadendo inevitabilmente nell’equivoco. Le polaroid dovrebbero fungere da rappresentazioni concrete a disposizione delle funzioni mentali di Leonard, e le stesse, disposte sulla carta attaccata al muro, vanno a delineare una mappa mentale o una rappresentazione della memoria, come tramanda la tradizione classica dei luoghi di memoria, ripresa all’inizio del Novecento dagli iconologi di scuola warburghiana.

Ma nel film c’è un nodo non risolvibile. Sembra che Leonard abbia già deciso in partenza di non voler conoscere la verità. E nemmeno pare sia disposto ad accettarla. Semmai mette in atto ogni volta una nuova sua versione. Teddy gli rammenta i veri eventi: “Tu non vuoi sapere la verità, tu crei la verità”. Leonard pensa: “tra un quarto d’ora non lo saprò più e sarò posseduto di nuovo dall’illusione perfetta di avere ciò che per me sembra vero”. Quindi manipola il presente e riformula la trama per trovare uno scopo alla propria esistenza. Altera le tracce per consentire una lettura vantaggiosa il giorno dopo. Il suo pensiero ricorrente è rivolto verso l’auto-imposizione di dimenticare alcune cose, per rifiuto di elaborare il lutto. Perché non vuole superare il trauma dell’uccisione della moglie? Questa ritrosia è legata al suo stato patologico o nasconde una colpa? O non vuole rimarginare la ferita perché l’evento drammatico nonostante tutto gli fornisce un senso, a cui riesce ad agganciare la sua vita, come se fosse giustificato a innescare il gioco di cercare l’assassino e vendicare la morte di sua moglie. Ma se l’assassino non esiste o non c’è più (perché forse l’ha già scoperto e ucciso, ma ha dimenticato tutto) deve sempre inventarne uno nuovo. Leonard non riesce a ricordare o non riesce a dimenticare? Nolan delega allo spettatore il compito di fare chiarezza tra la messe di informazioni fornite. 

La verità non è mai dichiarata, nemmeno nella chiosa del film. Sembra sempre rimandata al prossimo quarto d’ora. Quindi che peso dobbiamo dare ai fatti che accadono, al reale così come appare e alla presunta verità, in una trama che probabilmente esiste solo nella mente di Leonard? Senza una memoria affidabile che senso ha distinguere tra passato e presente, tra vero e falso, tra fatto e sogno?

Memento è un film sulla capacità di falsificare consciamente la nostra percezione del mondo e, poi, dimenticare di averlo fatto. Le fotografie qui non sono dati attendibili. Sono loci utilizzabili dall’interpretazione soggettiva. Leonard rimuove alcuni suoi ricordi per non affrontare la realtà. E da questa ricreazione di una realtà altra o parallela si riparte ogni volta da capo. L’immagine del morto sulla polaroid scompare, il lampo della macchina fotografica torna indietro e la pellicola rientra nella fessura della macchina fotografica. Il sangue ritorna dentro la ferita nel corpo. Il proiettile rientra nella pistola. Il mondo si muove alla rovescia, prima di imprimersi sulla retina.

Tutte le immagini sono tratte dal film Memento, regia di Cristopher Nolan, 2000

Mauro Zanchi

è critico d’arte, curatore e saggista. Dirige il museo temporaneo BACO (Base Arte Contemporanea Odierna), a Bergamo, dal 2011. Suoi saggi e testi critici sono apparsi in varie pubblicazioni edite, tra le altre, da Giunti, Silvana Editoriale, Electa, Mousse, CURA, Skinnerboox, Moretti & Vitali e Corriere della Sera. Scrive per Art e Dossier, Doppiozero e Atpdiary.

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