I agàpi jà ti zoì / manachi meni

10/01/2023

“In fondo, basta saper attendere”, scrive Vito Teti in una delle pagine conclusive della nuova edizione del Senso dei luoghi. Memoria e storia dei paesi abbandonati (Donzelli, 2022). È il tempo, infatti, il tema del libro, il tempo dell’abbandono e del vuoto, a cui però non può non seguire un tempo di una nuova fondazione e del pieno. Il luogo del libro è la terra più misteriosa d’Italia, la Calabria, e in particolare le centinaia di paesi abbandonati – per terremoti, invasioni, frane, alluvioni, povertà estrema, emigrazione – che costellano il suo aspro ma bellissimo paesaggio. Paesi abbandonati che tuttavia Teti ci fa sentire come vivi, mai del tutto dimenticati e scomparsi. In queste pagine c’è ricordo e pietà per ciò che non c’è più, ma allo stesso tempo non c’è rimpianto, non c’è alcuno spazio per l’insopportabile lamentela per il sud dimenticato e sfruttato. Ecco perché “in fondo, basta saper attendere”, perché l’esperienza del tempo è continua, il passato non è mai del tutto passato, il futuro è sempre già stato presente e già anche passato, la vita non conosce interruzioni.

Si spiega così anche la particolare scrittura di Vito Teti, che è un antropologo ma scrive in realtà un libro che mischia e confonde i generi (etnografia, romanzo, saggio storico, autobiografia) perché come il tempo è continuo e mette tutto in relazione così anche il racconto dei luoghi non può essere settoriale e specialistico. Per questa stessa ragione, per questa fondamentale intrinseca reversibilità del tempo, il titolo del libro avrebbe anche potuto essere I luoghi del senso. Perché se è vero che è la storia umana che attribuisce un senso ai luoghi, è altrettanto vero che i luoghi possiedono un senso intrinseco che trapassa nei gesti e nei pensieri di chi quei luoghi ha abitato e vissuto. È la continuità del tempo e dello spazio, appunto, il tema del libro. E così anche un paese abbandonato non è soltanto un luogo lasciato dagli esseri umani, è anche un luogo che non ha mai smesso di essere un luogo inumano, un luogo che esisteva prima degli umani, e che non ha bisogno di loro per esserci. La fine è sempre una fine umana, e quindi storica e reversibile (in queste pagine si sente fortissima l’eredità di De Martino). Allo stesso tempo la fine di un luogo significa che da qualche altra parte sta cominciando un’altra storia, sta nascendo un nuovo luogo di vita e storia: infatti “l’abbandono di un luogo è anche inizio di un nuovo luogo” (p. 385).

Soriano Calabro, ph. © Vito Teti

Si tratta di un aspetto decisivo del libro di Teti, che proprio perché libro sul tempo e sulla vita del tempo è in fondo un libro pieno di ottimismo sulla potenza generatrice di quello stesso tempo: ecco perché “l’abbandono segna la fine di un paese, ma comporta in genere la nascita di uno o più paesi nuovi. D’altro canto – e specularmente – ogni storia di costruzione di un paese è accompagnata […] da un mito o da una storia di abbandono di un precedente paese. Il mito di fondazione non è altro che un mito di abbandono. È il vero punto a quo. L’inizio di un luogo è legato spesso alla fine di un altro” (p. 297). Ogni fine, in realtà, era cominciata a finire nel suo stesso momento iniziale, perché nel tempo tutto si confonde, e la fine non è che un momento dell’inizio, e viceversa, dal momento che non ci potrebbe essere inizio se non si fosse prima stata una fine che avesse liberato lo spazio per il nuovo: “dove comincia un luogo, se non facciamo riferimento anche al tempo? I luoghi sono mobili, hanno un inizio, una storia, spesso una fine e bisogna guardarli nel tempo” (p. 102). Per questa ragione di fondo, allora, abbandono non significa – come la nostra mancanza di immaginazione non riesce a non pensare – semplicemente e brutalmente fine:

L’espressione “paesi abbandonati” rimanda immediatamente a un’idea di vuoto, al sentimento di un’assenza che si dilata tra le cose, e infatti l’intento delle mie prime etnografie era proprio quello di riuscire a muovermi e orientarmi nei silenzi che avrei trovato, se possibile di placarli, cercando persone e storie. Da subito mi sono però trovato immerso in un sistema di segni che solo in parte avevo previsto; l’assenza, il vuoto, per tanti versi la pace che trovavo, erano pieni di tracce, di indicazioni, di voci, di memorie, scritte in un alfabeto strano di cui ogni giorno, a ogni passo, a ogni incontro, imparavo a cogliere il senso (p. xiii).

Il vuoto, come ci ricorda inascoltata la fisica moderna, non esiste, il vuoto è pieno di una vita virtuale che aspetta solo un incontro per diventare reale ed effettiva. Così lo stesso Teti si accorge che quello che all’inizio aveva forse pensato come un libro di testimonianza e fedeltà per un mondo scomparso è in realtà un’avventura piena di sorprese e possibilità inattese. I luoghi sono tempo, il tempo è inseparabile dai luoghi. Luoghi che cambiano, si trasformano, ma non finiscono mai di iniziare (solo per questo possono indefinitamente finire), proprio perché il luogo è l’altra faccia del tempo. Questi luoghi pieni di storie e possibilità inespresse sono quelli che Teti chiama “luoghi della memoria”, da intendere, però, in senso contrario all’uso comune di questa espressione, che vuole invece fissare la memoria e bloccarne lo sviluppo. Per questo, parlando dei paesi abbandonati dell’interno calabrese, Teti precisa: “vorrei che questi [luoghi] fossero considerati luoghi della memoria”, cioè “luoghi di nuove forme di vita e non del mistero e del magico. […] Lo ammetto, non mi piace il termine fantasma per indicare i paesi abbandonati” (p. 81). Un paese fantasma è un luogo che non esiste più, è ormai appunto soltanto un fantasma di paese, ossia un luogo fuori dal tempo e dalla storia. Al contrario, se i luoghi sono tempo, allora non smettono mai di essere a loro modo vivi, e quindi non smettono mai di essere luoghi generativi di “nuove forme di vita”.

È questo il senso del libro, i luoghi non finiscono mai, anche quelli più abbandonati e dimenticati, in realtà sono sempre (stati) sul punto di mettere in movimento nuova inaspettata vita. Ecco perché l’abbandono di un luogo da parte degli umani non significa fine in senso assoluto, è piuttosto un tornare di quello stesso luogo ad un luogo ancora più antico, un luogo inumano che non ha mai smesso di esserci anche quando sembrava esserci solo quello umano. Teti fa il caso delle pietre che cocciutamente resistono all’abbandono, testimonianza di un tempo anteriore alla stessa volontà umana: “le pietre sono materiali che resistono di più alle pressioni del tempo e degli elementi che le aggrediscono e le modificano. Anzi, terre, sabbia, vento, pioggia, sole modellano le pietre delle case abbandonate come la natura circostante. Assumono forme e colori del paesaggio. Nascoste tra la terra, la sabbia e le erbe, avvolte da rampicanti e da muffa, attraversate da alberi e da piante di fico, le pietre sono materiali e simboli di luoghi abbandonati” (p. 180).

La pietra è natura che è diventata storia umana, senza però mai cessare di essere qualcosa di affatto materiale e inumano; la pietra abbandonata, la pietra che sopravvive alla fine del paese, torna ad essere pura pietra inumana senza però smettere di essere ormai anche una testimonianza silenziosa di un antico e perduto lavoro umano. La pietra è materia e storia. E così il paese abbandonato non smette di essere anche il paese che è stato e che ora non è più. Il paese abbandonato non cessa in qualche modo di esserci ancora. Vale anche per le pietre, allora, quella “restanza” di cui Teti ha parlato in un libro recente. Una “restanza” che non è un semplice rimanere o non andar via, quanto un convinto insistere sul posto. La “restanza”, cioè, è il senso del tempo, il senso che il passato non è mai del tutto passato, e che il futuro è inseparabile da quel passato: “ho iniziato ad adoperare il termine “restanza” per raccontare i rimasti, le loro storie ‘in assenza’ di qualcosa o di qualcuno. Sapevo che il termine avrebbe potuto evocare la forma inerziale di una nostalgia regressiva, un’etica del mero immobilismo, ma io ho provato a valorizzarne un’accezione esattamente contraria, per tanti versi controintuitiva, indicando un modo di rimanere che è dinamico, che è dialogico, che è utopico. Una restanza si configura sempre, implicitamente, come il nucleo fondativo di nuovi progetti, di nuove aspirazioni, di nuovi sogni (p. xvii).

La “restanza” vale per le persone come per le cose, perché entrambe sono partecipi del movimento del tempo. Torna il tema della continuità, dei legami fatti di tempo e spazio che tengono insieme le persone ai luoghi e i luoghi alle persone, e quindi al passato e al futuro. In questo senso i paesi, più che essere abbandonati, sono piuttosto popolati e ripopolati di forme di vita più antiche di quelle umane. Ecco perché fine significa piuttosto sempre un inizio (che può essere anche un ritorno) diverso: “in posti come questi”, cioè nei paesi abbandonati, “si ha la sensazione che le costruzioni degli uomini siano tornate lentamente alla natura. […] Qui sembra che la fatica dell’uomo si sia sfarinata a poco a poco per diventare terra, sabbia, materia. I materiali da costruzione da qui ricavati sono tornati ad essere di nuovo materiali, dopo catastrofi e abbandoni, e quando ancora resistono sono così mimetizzati nel paesaggio che quasi diventano invisibili” (p. 195). L’abbandono umano è un ritorno inumano, la storia diventa natura, come prima quest’ultima era stata trasformata in storia: “è come se nei paesi abbandonati la presenza delle piante e degli alberi volesse compensare l’assenza degli uomini” (p. 283). Un tempo gli alberi, poi gli esseri umani, poi di nuovo gli alberi, domani chissà. La storia continua, la vita continua. Come dice in grecanico Salvino Nucera “I agàpi jà ti zoì / manachi meni” (L’amore per la vita / solo rimane)[1].

Africo vecchio, ph. © Vito Teti

Vito Teti
Il senso dei luoghi
Donzelli, 2022
pp. 620, € 34

In copertina: Processione di San Giorgio di fronte alla frana di Cavallerizzo, Cerzeto, foto di Vito Teti ©


[1] Salvino Nucera, Chimàrri, Quale cultura – Jaca Book 1999, p. 107.

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