È fresco di stampa il nuovo numero di «Riga» (il 45° della serie, a cura di Alessandro Giammei, Nunzia Palmieri e Marco Belpoliti, Quodlibet, 493 pp., € 26) dedicato a Giulia Niccolai (scomparsa a 84 anni nel giugno del 2021), che come sempre riporta un’ampia antologia di testi dell’autrice (di brio fuori del comune le diverse interviste e conversazioni, alcune delle quali in questa occasione trascritte per la prima volta) e della sua storia critica, più diversi saggi nuovi. Insieme a quelli di Silvia Mazzucchelli, Marco Belpoliti, Taylor Yoonji Kang, Davide Papotti, Graziella Pulce, Franca Rovigatti e Rebecca West c’è anche quello di Chiara Portesine che per la cortesia dell’autrice, dei curatori e dell’editore proponiamo ai lettori di «Antinomie».
Nell’attuale panorama critico, il rapporto di Giulia Niccolai con le arti plastiche rischia una liquidazione in sordina rispetto al discorso egemonico sulla necessità di chiamare in causa la fotografia come lente di mediazione (costruttiva e deformante) tra sguardo narrativo e mondo. L’attività di reporter – propriamente giornalistica, già a partire dagli anni Cinquanta, e poi culturale, nei fotoservizi sulle riunioni del Gruppo 63 – lascerà dei segni evidenti tanto nel primo romanzo (Il grande angolo, 1966)[1] quanto in alcune occorrenze locali (di ordine tematico e stilistico) depositatesi nello spazio della poesia[2]. Eppure, anche l’interesse per forme di visualità ‘desuete’ come la pittura e la scultura merita un approfondimento specialistico orientato a dimostrare il peso e la concreta funzione delle allusioni alle arti disseminate nel lungo percorso estetico dell’autrice.
In questa sede mi limiterò a isolare alcuni esempi in cui i referenti figurativi (quadri, statue, semplici allusioni nominali a pittori) entrano all’interno della scrittura lineare di Niccolai, trascurando la casistica propriamente verbo-visiva dei libri d’artista e delle poesie concrete[3]. Il saggio si articolerà come un’inventariazione ragionata delle insorgenze plastiche nello spazio dei versi, che verranno isolate e commentate per stabilire se e come l’arte possa rappresentare un’ulteriore strategia retorica per tenere al guinzaglio del distanziamento ironico un reale sempre differito e virgolettato. La poesia niccolaiana, infatti, produce esorcismi alfabetici e incantesimi della forma per dimostrare come la Legge autoritaria del senso possa essere continuamente revocata – con un grazioso lancio di fresbee che restituisce al mittente qualsiasi Significato assoluto, in una piroetta di significanti plurali e giocosamente perturbanti. Oltre ad essere una «novellatrice per interposta lingua» (Giammei 2017, p. 71), potremmo azzardare qui che Niccolai sia stata anche scrittrice per interposto codice disciplinare.
Procedendo in ordine diacronico, all’interno di Greenwich (1971) troviamo già due testi indirizzati a pittori romani, ossia rispettivamente Utah, «to Gianfranco Baruchello» (Niccolai 2012, p. 79), e To Rosetta, Parthia and Geneva, «to Giosetta [Fioroni]» (ivi, p. 83)[4], oltre a una lirica (Sambas) dedicata all’artista e grafico milanese Giovanni Anceschi (ivi, p. 84)[5]. In questo caso, naturalmente, non si può parlare di ecfrasi né di scritture subordinate a un preciso manufatto artistico, giacché le poesie sono state costruite aggregando coordinate geografiche e nomi di città ricavati da un atlante preesistente (Niccolai 2012, p. 90). Al cospetto di una testualità presa a prestito (e, per giunta, da una disciplina del tutto alloglotta), rimane da parte di Niccolai la volontà di raccogliere una specie di ‘album di famiglia’ degli ambienti culturali che si era trovata ad attraversare. Greenwich si presenta al lettore come l’inventario ragionato dell’intellighenzia sperimentale degli anni Sessanta e Settanta, dal Gruppo 63 (Germano Lombardi, Nanni Balestrini, Giorgio Manganelli ed Elio Pagliarani) ai protagonisti internazionali della rivoluzione tipografica e concretista (come Julien Blaine e Gerlad Bisinger) – in un attraversamento al contempo storiografico e privato della cultura coeva che non poteva certo escludere i pittori, co-protagonisti e interlocutori privilegiati del «conversario» niccolaiano[6].
La frequentazione quasi quotidiana e la solidarietà (amicale, creativa e talvolta politica) con alcuni artisti motiverà, infatti, il fiorire di componimenti d’occasione legati a contingenze culturali aggregative – vernissage di mostre, eventi di teatro musicale, soirée intellettuali, e così via. Per i poeti del Mulino di Bazzano (Adriano Spatola, Corrado Costa e, per l’appunto, Giulia Niccolai) una simile militanza interartistica assumerà anche la forma di una cooperazione regionale fra artisti attivi sul territorio emiliano. Una simile militanza localistica si sostanzierà di un fitto calendario di eventi culturali, in una «geografia di progetti» (Gazzola 2008, p. 10) capace di attirare l’attenzione di un pubblico nazionale e, addirittura, internazionale (dal Festival di Fiumalbo, nell’agosto del 1967, all’avventura editoriale di Geiger – che, dopo un esordio torinese nel 1968, verrà trasferita presso l’abitazione spatoliana del Mulino a partire dal 1970).
Restringendo il campo d’osservazione alle arti figurative, si possono citare alcuni esempi chiarificatori di questo attivismo positivamente provinciale, in grado di convertire una indistinta «particolarità emiliana», come dichiarerà la stessa Niccolai, in una «particolarità che dà luogo anche a una certa atmosfera letteraria» (cit. in Gazzola 2008, p. 15)[7]. Assieme a Franco Beltrametti e Adriano Spatola, ad esempio, Niccolai siglerà uno dei testi inseriti nel catalogo di tre artisti modenesi (Carlo Cremaschi, Giuliano Della Casa[8] e Franco Guerzoni) esposti alla Galleria Flori di Firenze dal 27 novembre 1971 (Cremaschi, Della Casa, Guerzoni 1971, pp. nn.). In questo contesto presentativo Spatola scriverà un lungo componimento in versi intitolato Pensiero & Oggetto (a cui forse si ispirerà – complice una comune matrice anceschiana – la formula scelta da Niccolai tre anni dopo per titolare il proprio Poema & Oggetto). Il testo è organizzato in forma di ‘critica d’arte andando a capo’, a partire dall’incipit provocatoriamente saggistico («Quanto sta accadendo nel campo delle arti | figurative sembra dimostrare ancora una | volta che la necessità di definire e cir- | coscrivere un’area culturale secondo un | formulario rigido e più o meno scontato è | l’unico dato di fatto incontrovertibile dei | momenti di crisi», vv. 1-7). L’intonazione dimostrativa modellerà il registro dell’intera versificazione, con un passaggio (quasi da manuale di retorica argomentativa) da un macro-discorso relativo all’abuso dell’aggettivo «nuovo» («libertà troppo spesso identifi- | cata con un “nuovo” ambiguamente retrodata- | bile, con una “sorpresa” sorprendentemente | già etichettata ed esaurita», vv. 12-15) alla valutazione circostanziata e riepilogativa dei «tre artisti qui presenti» (v. 25). Nella sezione centrale della lirica, Spatola distribuisce una serie di ‘categorie versificate’ applicabili ai lavori del trittico emiliano, all’insegna di un rinnovato rapporto con il mondo empirico («non un tuffo tra | le cose, ma l’estrazione di un midollo spina- | le (di un’essenza) da fuori», vv. 56-58) che il poeta definirà «operazione neometafisica» (v. 62). Nel prosieguo della poesia-pamphlet, Spatola illustrerà, come una specie di visionaria guida museale, tre opere degli artisti riprodotte in catalogo – la Lavagna di Cremaschi, il Tavolo di Della Casa e il Trapezio di Guerzoni –, che funzioneranno come dimostrazioni scientifiche delle tassonomie proposte nel primo segmento compositivo.
Accanto a questo avvicinamento critico e iper-referenziale che surroga pienamente la prosa d’arte tradizionale, troviamo la tredicesima sezione di In Transito, riciclata da Beltrametti senza interpolazioni o adeguamenti al contesto pittorico dal poeta (come suggerisce anche la data orgogliosamente anteriore del «2/11/70»). La riproduzione del dattiloscritto di Niccolai compare per ultima – a conferma di una certa marginalizzazione (e auto-marginalizzazione) dell’autrice negli spazi discorsivi della Neoavanguardia[9]. L’esibizione delle coordinate spazio-temporali («Firenze, 27.11.71», ossia la data dell’inaugurazione della mostra) farebbe pensare a un testo d’occasione analogo a quello spatoliano. I versi, invece, si rivelano desunti dal ciclo Dai Novissimi, in cui la poetessa confeziona un montaggio straniante di tasselli lessicali ritagliati dall’antologia del 1961, piegati a veicolare nuove e impreviste significazioni (Niccolai 2012, pp. 91-94). Il patchwork accolto nel catalogo fiorentino rispecchia fedelmente il componimento inaugurale della silloge – e, con ogni probabilità, l’obliterazione a penna del numero «1» è funzionale a cancellare, al contrario di Beltrametti, l’appartenenza dei versi a una serie antecedente e indipendente dall’evento espositivo del 1971.

Se in questa occasione, dunque, la partecipazione di Niccolai si attesta a un livello più nominale – da ‘sponsor poetica’ piuttosto che da effettiva postillatrice ecfrastica –, in altri testi si registrerà un’effettiva auscultazione dei manufatti o dello stile plastico dell’artista dedicatario. È il caso, per esempio, di Dis-location, accolta poi tra i Webster Poems (1971-1977) e dedicata «a Claudio Parmiggiani» (Niccolai 2012, p. 141) – artista nato a Luzzara, in provincia di Reggio Emilia, al centro dell’interesse verbo-visivo dei poeti del Mulino (da Spatola a Costa[10]). L’opera a cui fa riferimento Niccolai (Delocazione, realizzata nel 1970 e ospitata sul quinto numero di «Geiger», due anni più tardi) mette in scena una parete vuota, il white cube museale che esibisce un supporto (la tela) altrettanto assente, espropriato dei suoi contenuti convenzionali («Complete lack of its usual | painted content», come leggiamo ai vv. 1-2). [fig. 1] Il biancore di un’opera confiscata allo sguardo viene denunciato nell’intero componimento (dall’allusione all’«empty wall» del v. 5 al successivo «unoccupied wall from which | it has been removed | – the painting –», vv. 7-9), fino a maturare la consapevolezza paradossale che quella stessa sparizione rappresenti, in realtà, il significato stesso della creazione artistica («essential meaning | of a product of painting», vv. 15-16) e, anzi, che la «visible image» (v. 18) debba necessariamente completarsi «with the lack | of its usual painted content» (vv. 20-21). Nel commentare questo testo, Graffi (2012, p. 27) ha scritto efficacemente che «il gioco dei segni del vuoto lasciati sulla parete dei quadri che vi erano stati appesi diventa nella ricostruzione verbale una sequenza dove il termine painting […] costituisce da solo un intero verso, ripetuto, “appeso” tra i dettagli delle azioni in cui si esprime il lack».

Un secondo Webster Poem (datato «June 1972») viene dedicato a Maurizio Osti (Niccolai 2012, p. 141) – un altro artista emiliano (di Sasso Marconi). L’opera Hypothetical line evocata nel titolo verrà pubblicata sempre sul quinto numero di «Geiger» in forma di tavola grafica – un foglio quadrettato con un reticolo di linee che si intersecano con i versi inglesi della poesia di Niccolai, incollati a collage da un foglio precedente. [fig. 2] Nella versione lineare della poesia, Niccolai inserirà alcuni accorgimenti di standardizzazione tipografica – in particolare, la maiuscola per introdurre la frase iniziale («Obtained», v. 1) – e, in generale, lavorerà per sovvertire la ripartizione delle cellule frasali, spesso spezzettate tra versi differenti senza rispettare l’originaria sequenzializzazione dei cartigli (ad esempio, i tre segmenti «has turned out to be simple in», «operation and is yet» e «very accurate increasing» verranno scanditi come «has turned out to be simple | in operation and is yet | very accurate | increasing», vv. 2-4, in un’attenzione per il ritmo e la pronunciabilità della frase assente nella tavola originaria).

Fuori da simili logiche di mutua promozione culturale, non mancheranno i versi offerti ad artisti geograficamente (e stilisticamente) più distanti. Per restare nel perimetro dei Webster Poems, anche il testo For Elisabetta Gut (Niccolai 2012, p. 140)– pittrice di origine italo-svizzera, nata a Roma e cresciuta a Zurigo – s’inscrive entro un dialogo serrato con le opere riprodotte su «Geiger», a costituire una sorta di micro-raccolta ecfrastica di un numero di rivista. Sempre sul quinto fascicolo, infatti, era stata ospitata un’opera di Gut (Progetto) accompagnata da una lunga didascalia lirica («come ingabbiare un albero / albero ricoperto di rete metallica a forma di fungo atomico / nell’interno / colombi neri / non farli morire di fame / finita la rassegna la rete viene aperta a metà / cade in terra / i colombi in libertà»). [fig. 3] Niccolai sembra importare questo avvilupparsi geometrico del disegno («An entrapping situation | a network of lines», vv. 1-2), conservando anche un’allusione ai volatili che ne abitano occultamente la struttura, il cui cinguettare («the twitter», v. 12) rende l’architettura di Gut «the network of sound» (v. 13). I Webster Poems si presentano al lettore, quindi, come l’accompagnamento verbale alle tavole distribuite lungo le pagine della rivista, una specie di targhetta esplicativa che interviene a completamento della nuda immagine. Nella Nota conclusiva alla raccolta, la stessa Niccolai dichiarerà che queste poesie devono essere «considerate “poesie d’occasione”, poesie ad personam», alla stregua di «didascalie o postille» che «si riferiscono a poesie o quadri sempre fatti dalle persone a cui sono dedicate» (Niccolai 2012, p. 144) – denunciandone la natura derivativa nonché, en fin, ecfrastica.

Anche l’ultimo «poema» della raccolta, For Gianni Fontana’s Radio Drama (ivi, p. 143), si riferisce a un preciso referente figurativo – ossia l’omonimo libro stampato per le edizioni Geiger nel 1977 (Fontana 1977, pp. nn.). In questo caso, Niccolai sembra realizzare una specie di esegesi critica in versi, esplicitando i meccanismi poetici alla base del progetto di Fontana – come si può verificare leggendo l’incipit: «The idea is | someone is listening to a radio drama | and can’t see it but he hears it» (vv. 1-3). L’autrice si sofferma sulla conversione degli ideali stimoli auditivi in «signs and traces» (v. 7) che la mente è portata ad associare ascoltando la voce radiofonica. Nel finale, Niccolai apostrofa direttamente l’artista e performer di Frosinone sentenziando che «your book is the visual representation | of what someone was listening to | and by looking at it | someone else will be able | to hear | and thus obtain the same or similar | sounds | his minds associates | with this visible technique» (vv. 13-21). Il libro di Fontana, insomma, mima attraverso una ricercata impaginazione verbo-visiva l’associazionismo verbale tra suoni percepiti e immagini scarabocchiate sul foglio durante l’ascolto, invitando il lettore a ripetere autonomamente il gioco e a confrontarne i risultati con le tavole proposte nel volume. [fig. 4] Di fronte al Radio Drama Niccolai assume, dunque, la posizione di un’ideale presentatrice e prefatrice in versi, senza soffermarsi descrittivamente su una specifica immagine ma illustrando compendiosamente il processo creativo di Fontana.

Nelle successive Russky Salad Ballads (1975-1977) (Niccolai 2012, pp. 145-162) – un’autentica «insalata russa linguistica» di gerghi, idiomi e sintagmi citazionisticamente «noleggiati» (ivi, p. 144) – il terzo testo sarà dedicato a Joan Mirò (J. M. Ballad, ivi, pp. 151-152). Graffi (2012, p. 29) ha sostenuto che in questo componimento sia «l’esuberanza del colore a innescare il plurilinguismo». La dialettica interdiscorsiva con il pittore, tuttavia, non si limita alle insorgenze cromatiche distribuite nel perimetro della scrittura – in verità, esplicitate apertamente soltanto nell’allusione al «bleu (dei gessetti)», al v. 22. Il dialogo con l’artista si sostanzia qui di un ascolto più immersivo e filologico, come possiamo già sospettare dall’evocazione diretta di un quadro dipinto da Mirò tra il 1923 e il 1924 («die katalonische landschaft», v. 16). Nel Paesaggio catalano, per l’appunto, ritroviamo una serie di elementi trasferiti di peso nei versi di Niccolai – ad esempio, la parola «Sard» che campeggia in basso a destra nel dipinto di Mirò e che verrà fedelmente trascritta al verso successivo della Ballata («le Sard du tableau», v. 17). [fig. 5]

Chiarita l’impostazione enigmistica e allusiva, non sarà difficile rintracciare anche gli altri rimandi cifrati alla produzione di Mirò – ad esempio, ai vv. 18-20 («escargot | fleurefemme et toile | étoile») si può cogliere un rimando al quadro Escargot, Femme, Fleure et Étoile del 1934. L’invito a scompigliare e a mescolare confusivamente le parole che formano il titolo veniva già parzialmente suggerito dalla superficie stessa del quadro originario, dove le diverse scritte erano unite da un’unica linea che rendeva accidentata (e mutevole) la sillabazione dei singoli lemmi. [fig. 6] Per quanto riguarda l’«eucalyptus eucalipto eukalyptus» del v. 7, invece, potrebbe trattarsi della pianta collocata al centro del dipinto The Farm, realizzato da Mirò nell’estate del 1921 in un tentativo di ricreare le atmosfere della Catalogna. Il suolo di fronte alla casa di campagna, in effetti, sembra corrispondere alla successiva allusione alla «terra tutta a righe | la terra tutta a strisce» che si srotola tra «l’aiuola e il sole» (vv. 9-11). [fig. 7]

In generale, i titoli dei quadri[11] vengono inventariati distrattamente da Niccolai, come se si trattasse, a tutti gli effetti, di ipotesti sommersi entro una testualità neutra – ossia priva di tutti quegli indicatori tipografici (dalle virgolette al corsivo) che porterebbero il lettore all’intuizione di trovarsi di fronte a un meccanismo derivativo. Oltre alle titolature, lo sguardo ecfrastico di Niccolai insiste nell’accumulare un elenco di oggetti-chiave prelevati dall’immaginario fiabesco di Mirò (dalla «scala» alla «stella cometa», dalla «luna caudata» al carnevale). La scrittura niccolaiana, insomma, cattura una costellazione di dettagli più o meno referenziali che possano restituire al lettore-connaisseur un’immagine sintetica della carriera di Mirò, approntandone una sorta di bignami versificato di titoli e particolari grafici. Il fatto che, come scrive Graffi (2012, p. 26), «il visivo e il verbale siano per Giulia Niccolai le due facce di un unico foglio, segnate da una inesauribile contiguità» (Graffi 2012, p. 26) viene comprovato anche dal trattamento paritetico riservato alle fonti plastiche e a quelle letterarie – entrambe assorbite e cannibalizzate dall’appropriazione niccolaiana. L’immagine – e, dunque, l’oggetto plastico – non si dà mai come puro avvenimento fenomenico, ma viene sempre calata entro una stratigrafia di linguaggi (iconici e verbali) che rendono impossibile distinguere il prodotto creativo dal contesto storico e segnico circostante.
Facendo un piccolo balzo temporale, prendiamo in considerazione come ultimo esempio il lungo componimento intitolato La tenda, ripartito in sei sezioni e ispirato a «un olio di Paola Marzoli per Lisa Corti» (Niccolai 2012, pp. 303-309)[12]. La scelta di accludere l’analisi di questo testo (datato «settembre 1998») è funzionale a proporre un’ulteriore verifica dell’onnivorismo linguistico di Niccolai – che, nel descrivere alcune opere d’arte preesistenti, ne restituisce un resoconto stratificato e intermediale. Per chiarire brevemente la doppia dedica alle artiste, mi attengo a una testimonianza personale di Paola Marzoli, che ha raccontato di aver dipinto per l’amica «alcune tavolette che Lisa ha utilizzato per diffondere le sue creazioni tessili». All’inizio degli anni Ottanta, infatti, Corti aveva aperto un’azienda (l’«Home Textile Emporium») dedita alla creazione di progetti tessili caratterizzati dall’uso di decorazioni esotiche e di antiche tecniche manifatturiere indiane come il «blockprint» – ossia un disegno ottenuto imbevendo di inchiostro un blocco di legno e premendolo manualmente sui tessuti, per ricavarne uno stampo al contempo ripetibile eppure artigianalmente unico. Il comune legame con l’immaginario orientale verrà esplicitamente tematizzato da Niccolai nella terza, nella quarta e nella quinta parte – con una digressione filosofica sul «Buddismo tibetano» (ivi, p. 305)[13] e con le iterate allusioni alla mediazione del Lama nella scelta niccolaiana di intraprendere un ritiro a Capoliveri, nella villa di Giliola e Gianni Randelli (ivi, p. 306). Le tecniche tessili importate dall’Oriente costituiscono per Niccolai l’appiglio ideale per dare spazio a una riflessione spirituale che la stava parallelamente impegnando a livello biografico ed esperienziale – dal momento che, al tempo della stesura della Tenda, la scrittrice era già diventata monaca tibetana da otto anni.

Se un primo livello del confronto con i manufatti di Corti e Marzoli pertiene all’ordine filosofico e religioso, la poesia non si rivelerà comunque esente da avvicinamenti genuinamente ecfrastici. L’incipit stesso del componimento è inaugurato, infatti, da una parafrasi metodica di uno degli oli confezionati dall’artista lombarda per le Tende di Corti – come immagine da stampare direttamente sui tendaggi. Il riferimento alla «tenda da porta-finestra | che vola verso l’esterno», in un «tratto di terrazzo spoglio | di cemento» (vv. 4-7), rende inconfutabile l’identificazione con un disegno specifico di Marzoli. [fig. 8] Nel mistero di un’atmosfera rarefatta e metafisica, Niccolai immagina che si nasconda l’essenza stessa «di quell’India vasta come un continente» (v. 18), immortalata «in una notte di monsone» (v. 3) che, nel sollevare tendoni e nello spalancare gli usci, dischiude all’improvviso il segreto di quella «invisibile presenza» (v. 23). Le Tende d’artista, ribadirà l’autrice nella seconda sezione, sono progettate per «svelarci il segreto, il mistero | delle cose» (vv. 15-16); disertato dalla figura umana, lo spazio può finalmente accogliere quegli «archetipi» che «parlano alla mente» (vv. 26-27) senza mediazioni antropiche o sovrastrutturali. La superficie figurativa, in questa fase del percorso ideativo di Niccolai, diventa il cerchio sacrale in cui può ancora manifestarsi il rituale muto delle cose, l’incantesimo degli Enti che l’immagine (più e meglio della parola) conserva il potere di evocare.
Ai livelli della meditazione tibetana e dell’ecfrasi puntuale si sovrappone, poi, quello dell’allusività letteraria e intertestuale. Per quanto riguarda la seconda sezione, mentre la focalizzazione si sposta dal dipinto di Marzoli a una tenda confezionata dall’artista mantovana Elena Schiavi, i versi di Niccolai arriveranno addirittura a ospitare una citazione virgolettata, estrapolata ostensivamente da un catalogo: «Della pittrice che ha dipinto questo quadro | magico e sospeso in uno spazio senza tempo, | un critico ha scritto: “Elena Schiavi | ci mostra le cose in un momento | in cui nessuno le vede”, e così dicendo | è implicito che ogni suo quadro | debba svelarci il segreto» (vv. 9-15)[14]. Ai margini del rimando intertestuale (incastonato da Niccolai per corroborare, sul piano documentario e nozionistico, le proprie impressioni liriche sul quadro), la scrittrice inserisce nuovamente un incipit descrittivo, che recita: «Quella sbiadita color fucsia, di tela | grossa – per proteggere dal sole – | che volando verso un interno scuro | indecifrabile e fuligginoso, una cucina? | dalla soglia umile, priva di gradino | di una casa contadina, col soffio d’aria | si porta dietro una luce limpida e radiosa» (vv. 1-7). In questo caso, sarà Niccolai stessa a svelare, nel finale, l’opera oggetto dell’attenzione ecfrastica («e il titolo del quadro | è Annunciazione», vv. 27-28 [fig. 9] – dipinto realizzato nel 1963 e poi selezionato come copertina del catalogo di una mostra allestita al Museo Civico di Palazzo Te tra il 22 marzo e il 26 aprile del 1981 (Schiavi 1981). Nel presentare al pubblico l’Annunciazione, il critico Carlo Belli aveva elogiato la capacità di Schiavi di convertire la «consueta apparenza» e l’«involucro» dei nudi oggetti (la porta, le travi del soffitto, il legno del pavimento e la tenda) in assoluti estetici, restaurando «nella chiaroveggenza di un lampo, la memoria di quelle forme, vergini di ogni abuso e di ogni estranea funzione» (ivi, p. 28). Analogamente, Niccolai parlerà della pittura «metafisica» di Schiavi come di un incantesimo figurativo che riesce, «per alchemica compiutezza | della percezione», a trasformare le cose in «archetipi» che «parlano alla mente» (Niccolai 2012, p. 304, vv. 25-27).

Dopo la tenda di Corti-Marzoli e quella di Schiavi, nel terzo segmento Niccolai interrompe la catena figurativa per concentrarsi su un autentico tendone, ossia quel «lungo sari color ruggine di seta di Benares» (v. 1) che Giliola Randelli ha appeso alla finestra della stanza occupata alla poetessa durante il suo soggiorno a Capoliveri – sancendo così il trapasso dal dominio dell’arte a quello della realtà empirica. Sarà proprio Niccolai a rimarcare il repentino passaggio di stato, asserendo che la «tenda messa lì | a protezione dei raggi pomeridiani del sole» (vv. 8-9) le ha fatto «ricordare con gratitudine | e commozione le tende dei due quadri | che ho descritto a memoria» (vv. 16-18) – nonché il campionario di «quelle tende sparse in tutto | l’Antico e il Nuovo Testamento» (vv. 19-20). I dettagli rievocati «a memoria» nel precedente dittico ecfrastico innescano un paragone analogico con i tendaggi reali del suo ritiro spirituale (nonché con quelli, squisitamente testuali e mediati, dei libri sacri), in un’ulteriore esemplificazione della bulimia referenziale di Niccolai, che divora e sussume nella propria scrittura gli stimoli verbo-visivi più disparati. Sempre nella terza sezione, ad esempio, la poetessa ingloberà una frase aforistica dell’amico Giorgio Manganelli («“… l’eternità è essere vicini, vicinissimi” | ha scritto Manganelli con disarmante convinzione | come se lui stesso, da vivo, | ne avesse già fatto l’esperienza», vv. 26-29), al fine di introdurre una considerazione teorica sul «distacco dalla vanità del mondo» (v. 37) caldeggiato dal Buddismo tibetano. Nella Tenda, dunque, le opere d’arte funzionano come motore d’avvio di un associazionismo verbale che procederà per assonanze, trapassi disciplinari e giochi lessicologici a cavallo tra codici (e immaginari) eterogenei. Come dichiarava proprio Manganelli nell’introduzione a Harry’s bar, Niccolai «deglutisce l’Atlante totale, e partorisce una storia che include tutto il mondo» (Manganelli 1981, p. 10) – linguistico e referenziale.
Il filtro artistico non deve essere considerato, tuttavia, una semplice verifica strumentale e pretestuosa dell’assemblage niccolaiano, ma piuttosto un vettore di interesse prioritario in tutta la produzione creativa dell’autrice. Gli oggetti d’arte funzionano, in primo luogo, come attivatori del reale; rappresentano la materializzazione concreta degli archetipi e di quei fondamenti primi (pericolosamente villiani) che la letteratura può evocare descrittivamente, ma che le arti plastiche riescono a imitare in modo più concreto e tangibile. Si vedano, per esempio, alcuni capitoli di Esoterico biliardo – a partire da Il bronzo, in cui viene tratteggiata «una scultura molto nota, oserei dire un archetipo» che affiora a intermittenze nel subconscio della scrittrice, durante un ritiro spirituale coordinato da un Lama tibetano, «per stagliarsi poi nitida e potente quale fulcro di un vortice di ricordi, di associazioni e alfine […] di “doni”» (Niccolai 2001, p. 19; i corsivi sono miei). L’intero capitolo sarà occupato dall’esercizio spirituale della meditazione, teso a «polverizzare tutti quegli ostacoli» che vengono a frapporsi «fra noi e la nostra essenza più riposta, fra l’Ego e l’Es» (ibidem). In un simile contesto (la parafrasi letteraria e verbalizzata di un’esperienza mistica), la prima immagine a prendere corpo nella mente di Niccolai «fu Il pensatore di Rodin» (ivi, p. 20). In questo caso, la scultura diventa il medium privilegiato per intercettare un ricordo d’infanzia e le energie ad esso connesse («rividi due fermalibri della mia infanzia, riproduzioni in bronzo del Pensatore […], e ritrovai la mia mente bambina che scrutava la forza enigmatica e chiusa in se stessa dei due pensatori gemelli», ibidem).
L’arte conferma il suo ruolo di risvegliare il mondo sotterraneo della percezione e della memoria, ripristinando il passato (individuale e storico) e cancellando dalla superficie degli oggetti la crosta delle apparenze fenomeniche. Nello stesso capitolo di Esoterico biliardo Niccolai, guardando il volto sudato e «con gli occhi pesti per la fatica» di uno dei partecipanti al ritiro spirituale, lo accosta prima alle «foto dei pugili» che appaiono sui giornali sportivi e subito dopo vi scorge «lo spirito di quel Pugilatore in bronzo del I secolo a.C., seduto a gambe divaricate» (ivi, pp. 21-22)[15]. I processi che Niccolai sperimenta durante la meditazione zen verranno progressivamente inglobati all’interno della scrittura creativa, trasformandosi in tecniche narrative da collaudare per tentare un nuovo avvicinamento al mondo. Come scaturite «dalla lampada di Aladino», le immagini si dispongono di fronte al lettore seguendo un percorso analogico fatto di pretesti, fraintendimenti e memorie involontarie. La realtà si offre all’osservatore nell’eterno presente della ripetizione: gli oggetti artistici riescono a interrompere per un attimo la catena delle associazioni, modellando un archetipo collettivo che compendi al suo interno le tensioni di tutti quegli elementi che, somigliandosi eternamente, hanno dato forma alle nostre categorie occidentali.
Nelle Due sponde – il libro in cui le riflessioni artistiche raggiungono forse la maggiore estensione quantitativa – Niccolai si domanda con insistenza perché le opere di Hopper le «ricordino il passato». La risposta risiede nel fatto che l’artista americano è «sempre riuscito ad avere e a trasmetterci quell’intenso sentimento di stupore che avevamo anche noi da bambini […] quando, ancora liberi da preconcetti, ancora nuovi e freschi» lasciavamo che un pretesto percettivo (una luce, un volto, una voce) ci «facesse vibrare di riconoscenza, trasformandoci in testimoni privilegiati di un magico momento di purezza» (Niccolai 2006, p. 24). Nel commentare A Bigger Splash di David Hockney, Niccolai preciserà ulteriormente la propria posizione spiegando che «ciò che maggiormente ci affascina in certi quadri» è il fatto di poter tornare «sempre a guardarli e a interpellarli, ed essi possono così continuare a vivere […] quali specchi e interlocutori del nostro subconscio» (ivi, p. 40). L’opera d’arte interroga e provoca l’osservatore costringendolo a inserire l’esperienza estetica all’interno di una lunga catena di percezioni primigenie che allacciano la creazione artistica a quella prenatale, l’autenticità di un colore ‘azzeccato’ alla spontaneità di uno sguardo vergine sul cosmo.
In conclusione, studiare le insorgenze artistiche nei lavori di Niccolai[16] può servire per problematizzare l’effetto di deliberato nonsense che la poetessa programma per i propri testi – senza che l’accostamento dei singoli tasselli derivi da una selezione arbitraria e totalmente a-referenziale, come abbiamo cercato di dimostrare a proposito della J.M. Ballad. Oltre a una funzione meramente diagnostica, il figurativo serve soprattutto a Niccolai come chiave d’accesso per decrittare il mistero del mondo. Nei quadri e nelle sculture restano impigliati alcuni indizi dell’eterno ripetersi della percezione; i riferimenti alle arti cadenzano i testi di Niccolai perché lo sguardo inciampa letteralmente su questi simulacri estetici intuendovi, tra uno stucco e una pennellata, quel gioco sottile delle forme a cui si può accedere soltanto attraverso un allenamento sacrificale alla concentrazione (ascetica e poetica). Dopo aver evocato i nomi di Wols e Lucio Fontana, nella Meditazione 2 Niccolai suggerisce come, dietro le loro opere apparentemente ‘sgrammaticate’ e «analfabete», risieda in realtà la sfida di «lanciare un segnale comprensibile | a pochi; solo a chi ha già sperimentato | nell’occhio della mente un intermittente | piccolo vortice di luce, una radiosa | fosforescenza di segmenti concentrici | identici a quelli dei nostri polpastrelli» (Niccolai 2012, p. 338, vv. 13-19).
Nel recitare il copione del nonsense o dell’esercizio spirituale, la poesia è destinata, insomma, a tornare corpo, oggetto, gloria delle piccole cose percepite (anche) grazie all’intercessione paziente dell’arte. Dunque, la vera rappresentazione estetica coincide con la prosecuzione biologica di un pensiero, individuale e junghianamente collettivo. Niccolai si serve dell’arte come maschera (apparente) per ‘smascherare’ e recuperare un contatto immediato (in quanto magico e ritualizzato) con la vita. Per citare le frasi conclusive delle Due sponde, con cui Niccolai congeda Las Meninas e il pubblico dei suoi lettori: «Che dire dello specchio allora? Lo specchio che va attraversato per poter entrare? Guarda attraverso me e io ti invento un altro esistente, ci sta dicendo il primo degli Arcani maggiori, il Mago: Velázquez» (Niccolai 2006, p. 282) – vale a dire il pittore, il poeta, il custode del focolare sacro degli archetipi.
BIBLIOGRAFIA:
Borelli, M. 2015: Il grandangolo del romanzo, «alfabeta2», 20 giugno 2015: https://www.alfabeta2.it/2015/06/20/il-grandangolo-del-romanzo/ (consultato il 17 marzo 2022).
Costa, C. 2021: Poesie edite e inedite (1947-1991). Opere poetiche II, a cura di Chiara Portesine, Argolibri, Ancona.
Cremaschi, C., Della Casa, G., Guerzoni, F. 1971: Carlo Cremaschi, Giuliano Della Casa, Franco Guerzoni, testi di Franco Beltrametti, Giulia Niccolai, Adriano Spatola, Galleria Flori, Firenze.
Della Casa, G. 1974: Giuliano Della Casa (19 settembre 1974), Galleria Etrusculudens, Roma.
Fontana, G. 1977: Radio/dramma. I(n)terazione, Geiger, Torino.
Gazzola, E. 2008: «Al miglior mugnanio». Adriano Spatola e i poeti del Mulino di Bazzano, Edizioni Diabasis, Reggio Emilia.
Giammei, A 2013: La bussola di Alice. Giulia Niccolai da Carroll a Stein (via Orgosolo) fino all’illuminazione, in «il verri», 51, pp. 33-77.
Giammei, A. 2017: “Desdemona, noun, See Othello”. Giulia Niccolai: Gender&Neoavanguardia, in «Engramma», 145, pp. 67-194.
Graffi, M. 2014: La mano sicura dello sperimentalismo, in G. Niccolai, Il grande angolo, Oèdipus, Milano, pp. 9-36.
Graffi, M. 2012: L’action writing di Giulia Niccolai, in G. Niccolai, Poemi & Oggetti, a cura e con una introduzione di Milli Graffi, prefazione di Stefano Bartezzaghi, Le Lettere, Firenze, pp. 13-46.
Manganelli, G. 1981: Prefazione, in G. Niccolai, Harry’s Bar e altre poesie (1969-1980), Feltrinelli, Milano, pp. 7-13.
Niccolai, G. 1971: Greenwich, con ouverture di Giorgio Manganelli e sei disegni di Giosetta Fioroni, Geiger, Bologna.
Niccolai, G. 2001: Esoterico biliardo, Archinto, Milano.
Niccolai, G. 2006: Le due sponde. Spazio/tempo – Oriente/Occidente, Archinto, Milano.
Niccolai, G. 2012: Poemi & Oggetti, a cura e con una introduzione di Milli Graffi, prefazione di Stefano Bartezzaghi, Le Lettere, Firenze.
Schiavi, E. 1981: Elena Schiavi (Museo Civico di Palazzo Te, Galleria d’Arte Moderna di Mantova, 22 marzo-26 aprile 1981), Paolini, Mantova.
Sedlmayr, H. 1981: Ars Humilis Ars Sublimis, in Elena Schiavi (Museo Civico di Palazzo Te, Galleria d’Arte Moderna di Mantova, 22 marzo-26 aprile 1981), Paolini, Mantova, pp. 5-10.
Sessa, M. 2019: Un centauro di testo e immagine. Interpretazione teorica del libro d’artista tra poesia concreta e poesia visiva: l’esempio di Giulia Niccolai, in «Avanguardia», 71, pp. 19-46.
Spatola, A. 2008: The Position of Things. Collected Poems 1961-1992, Green Integer, København & Los Angeles.
[1] Per un’analisi di questo primo romanzo, rimando soprattutto a Graffi 2014 e Borelli 2015.
[2] Graffi (2012, p. 13) sosterrà addirittura che «un frisbee, la particolarissima forma di poesia da lei inventata, sia un clic del fotografo». Sulle tangenze tra poesia e fotografia, si legga soprattutto Facsimile. Fotografie concettuali (1979) (Niccolai 2012, pp. 167-190).
[3] Su questi temi, cfr. l’approfondito saggio di Sessa 2019.
[4] L’artista aveva realizzato i sei disegni che accompagnano la prima edizione geigeriana di Greenwich (Niccolai 1971). Come racconta la stessa Niccolai, peraltro, durante il primo soggiorno a Roma «in un primo tempo abitai con Giosetta Fioroni» (cit. in Gazzola 2008, p. 160), rivendicando una dimensione più privata e amicale della collaborazione artistica che connoterà anche altre forme di co-autorialità interdisciplinare.
[5] Figlio di Luciano Anceschi, l’artista realizzerà anche il marchio tipografico di «Tam Tam», come racconta Spatola in Gazzola 2008, p. 148.
[6] A proposito di Greenwich e, più in generale, delle scritture confezionate attraverso la giustapposizione di vocalità altrui, cfr. il minuzioso intervento di Giammei 2013.
[7] Come scriverà lo stesso Gazzola (2008, p. 17), a cavallo tra anni Sessanta e Settanta «l’Emilia tornò a essere nuovamente un crocevia dell’avanguardia all’inizio di un decennio che ostinatamente guardava alle proprie spalle. In un certo qual modo, la regione accoglieva l’avanguardia rifugiata nelle sue città più protette, Reggio Emilia e Modena con Bologna capoluogo […]. Nei pochi chilometri quadrati di provincia si formarono e crebbero le manifestazioni più coerenti dell’avanguardia letteraria italiana».
[8] Per Giuliano Della Casa, Niccolai scriverà anche una prosa critica (Le storie parallele) pubblicata nel catalogo di una mostra inaugurata il 19 settembre 1974 alla Galleria Etrusculudens di Roma – assieme a una poesia di Adriano Spatola (La cornice nel muro. A Giuliano Della Casa) (Della Casa 1974, pp. nn.). La perpetua inversione di ruoli tra Spatola e Niccolai nella gestione delle mansioni presentative (di critico e di poeta) rende visibile una sinergia professionale e ideativa fra i due co-autori che meriterebbe ulteriori indagini comparative.
[9] Per l’occupazione niccolaiana degli spazi editoriali e culturali sempre da una prospettiva dislocata, ai margini e sui bordi del discorso ufficiale, cfr. il già citato Giammei 2017.
[10] Spatola dedicherà a «un’opera del 1976 di Claudio Parmiggiani» il testo intitolato La salita della memoria (Spatola 2008, p. 408). Costa, invece, pubblicherà nel catalogo di un’esposizione torinese dell’artista (Paradiso terrestre. Zoo geometrico, aperta dal 21 maggio al 15 giugno 1970) un testo dal titolo L’arcobaleno, per il quale rimando a Costa 2021, pp. 397-400.
[11] Segnalo anche, per i vv. 1-2 («Le palmier | la palma della casa della palma»), il quadro intitolato La Maison du palmier (1918); per i vv. 5-6 («les yeux du kaninchen | the feet of the table»), invece, l’allusione è a Der Tisch (Stilleben mit Kaninchen (1920). Ho riportato le titolature assecondando la lingua (prevalentemente) usata da Niccolai per alludervi, affinché risultasse immediatamente chiaro il prelievo citazionistico.
[12] Desidero ringraziare la gentilezza di Paola Marzoli e di Ida Corti (la figlia di Lisa), che nel marzo del 2018 mi avevano aiutata a rintracciare le informazioni preliminari e le immagini necessarie a impostare questa comparazione.
[13] Nella terza ripartizione del testo niccolaiano si legge, infatti: «Per una sorta di illusoria | contraddizione che ha a che fare con la non-dualità | e dunque, con l’armoniosa unità degli opposti, | secondo il Buddismo tibetano, si potrà essere | vicini, vicinissimi, anzi identici, immedesimati | in qualsiasi fenomeno si voglia prendere | in considerazione» (Niccolai 2012, p. 305).
[14] La citazione è tratta dalla traduzione italiana del testo di Hans Sedlmayr, pubblicato nel già citato catalogo del 1981, dove si legge: «L’arte di Elena Schiavi possiede anche un terzo grado di magia: ci mostra le cose in un momento in cui nessuno le vede […]. Come attraverso la fessura di una porta, l’artista ci mostra qualche cosa che nessuno ha mai occasione di vedere: la vita intrinseca degli oggetti nel momento in cui noi li abbiamo lasciati» (Sedlmayr 1981, p. 10). Anche l’identificazione dell’oggetto che si intravede dalla porta come un inginocchiatoio («Ma là sullo sfondo, nel buio caliginoso | della stanza, non c’è forse, appena | percepibile, un inginocchiatoio?», Niccolai 2012, p. 304, vv. 19-21) proviene con ogni probabilità dall’analisi di Sedlmayr – l’unica in cui compaia un’allusione esplicita a un «inginocchiatoio abbandonato» nell’Annunciazione (Sedlmayr 1981, p. 10).
[15] Analogamente, nel capitolo sulla Scrittura, il «tuffo nell’innocenza ritrovata» dell’infanzia viene subito accostato al «tuffo del Tuffatore etrusco» (ivi, p. 27), mentre nel Professore e la signora Maria la rievocazione di Luciano Anceschi viene associata alla figura «del mugnaio in Max und Moritz di Wilhelm Busch e la sua figura in grembiule con il volto e le braccia infarinate» (ivi, p. 79).
[16] La campionatura di esempi proposta in questo lavoro rappresenta soltanto un punto di partenza parziale, incentrato perlopiù sulle poesie raccolte in Poesie & Oggetti. Molti altri percorsi ecfrastici meriterebbero di essere esplorati, in particolare per quanto riguarda le fitte meditazioni sull’arte visuale presenti all’interno dei suoi ultimi libri – in particolare Cos’è poesia (2012), Foto&Frisbees (2016) e Favole&Frisbees (2018).
In copertina: Giulia Niccolai, da Poema & Oggetto (1974)