Jus d’Orange

Cominciare qualche cosa, è un’enorme violenza. Io non so cominciare.
Passo oltre, semplicemente, a tutto quello che dovrebbe essere un principio.

Rainer Maria Rilke, La lettera del giovane lavoratore, 1922[1]

Credo che prima di scrivere su Jus d’Orange, la mostra di Camille Henrot e Estelle Hoy in corso a Milano al primo piano di Fondazione ICA, occorra una premessa: lasciare che questo testo ammetta fin da subito il proprio fallimento. Non perché la mostra sia difficile da decifrare – presumerlo sarebbe paradossalmente l’itinerario più semplice, un artificio retorico che penserebbe Jus d’Orange come un succo proibito e inarrivabile e che, percorrendo questa inaccessibilità, la caricherebbe di un certo pathos, giustificando la più totale libertà di parole e decorazioni. No, tutt’altro: il testo fallisce perché Jus d’Orange è proprio lì, provocante nel suo presentarsi allo sguardo come la traccia di una vita (o meglio, di due vite intrecciate: quelle di Camille Henrot ed Estelle Hoy), ricordandoci che scrivere – della vita – è complicato, fallimentare, lacunoso e necessario.

Camille Henrot ed Estelle Hoy si sono incontrate all’inizio del 2021. Si tratta di un rapporto casualmente innescato proprio da un fallimento, un crollo: quello del tetto di una casa comprata con dedizione e sacrificio da un’amica di Hoy e avvenuto appena dopo aver ufficializzato il possesso dello stabile, poco prima di iniziare quello che sarebbe stato un nuovo paragrafo della sua scrittura-vita. Il tetto crolla, facendo collassare non solo l’edificio-casa ma anche quello del tempo: lì dove prima il desiderio coincideva con le aspettative di un ipotetico futuro, rimane la realtà ingiustificata di un presente difficile. Un fallimento in cui è stato impossibile cominciare, e che Hoy ha raccontato in un testo che ha ispirato Henrot con disegni e dipinti che a loro volta hanno innescato altri testi di Hoy. Di questo gioco continuo e sfumato tra le due sensibilità la mostra è la carnosa restituzione – ad oggi l’archivio conta in totale circa cinquecento immagini e migliaia di messaggi, oltre a costanti conversazioni dal vivo.

Quando un tetto crolla ciò che dovrebbe stare su si confonde, ormai insieme sconnesso di frammenti, con il pavimento raso terra, costringendo a muoversi nella confusione sempre presente delle macerie. Questo scenario suggerisce la dimensione temporale di Jus d’Orange, confusa come l’esistenza stessa e tradotta in una narrazione che, come scrive la curatrice Chiara Nuzzi nel suo testo, “porta alla costruzione, decostruzione e sovrapposizione di percorsi in eterna metamorfosi. Percorsi geografici, sociali, psicologici, individuali e universali, che restituiscono uno spaccato della società occidentale e della sua quotidianità, caratterizzata da gioie fugaci, problemi esistenziali, ansie costanti, privilegi per alcuni, ingiustizie per altri”.

Anche Henrot e Hoy partono dai loro frammenti: una moltitudine che spazia da ispirazioni personali a sensazioni effimere, discussioni su teorie queer e questioni politiche, quotidianità fatte di sogni e di lieve angoscia. Inutile – fallimentare – per un occhio esterno cercare di conquistare ogni singolo contesto dietro queste apparizioni. Come il tetto, anche lo sguardo analitico crolla nel tentativo di ipotizzare una genealogia lineare delle opere esposte. Sarebbe paradossale, d’altronde, staccare le immagini di Henrot e le scritte di Hoy dall’immanenza in cui sono nate, eppure qualcosa si percepisce: come delle vicinanze che “ci accompagnano nella confusione dell’esistenza”[2], invitando a “godere dello smarrimento”[3]. Vagare: è l’azione mai risolta che suggerisce la dimensione spaziale di Jus d’Orange, intrecciata a quella temporale del mancato cominciamento. Vagano i corpi che visitano la mostra, e vagano anche le figure e le parole di Henrot e di Hoy con le loro narrazioni circolari, chiare e oscure allo stesso tempo.

In Cool Nights Henrot lascia intuire questa circolarità. Appare un corpo che sembra cimentarsi nei primi passi di una danza: i piedi in posa iniziano quasi come filamenti per poi allargarsi in un torso pesante, che con grazia perturbante si risolve nell’unico grande braccio a forma di luna, colto mentre sembra richiudersi su sé stesso.

Camille Henrot, Cool Nights, 2022, Watercolor, ink and acrylic on canvas, 120 x 80 x 4 cm. Courtesy of the artist, Mennour (Paris) and Hauser & Wirth. © ADAGP Camille Henrot

La figura fluttua, quasi a tentare di completare un cerchio tra le sue gambe, che l’ancorano al terreno, e la luna, potenza esterna che influisce sulla vita di quaggiù. L’alto e il basso insieme, senza che nessuno dei due arrivi a un compimento. Parziale è anche la fisionomia della figura stessa, che richiama una sostanza molle, colta nel suo stato embrionale, con il tratto nero che tradisce alcune interruzioni per riprendere subito dopo. In quegli intervalli si insinua lo sfondo ambiguo – astratto e sospeso tra calma e inquietudine – rendendo la figura senza volto, così come tutte le altre di Henrot, come disposta ad accettare la propria apertura, abbracciando l’incommensurabilità che l’avvolge intorno e che la costruisce sempre incompiuta. In The Three Graces (2022) l’avvolgimento si fa più esplicito, materializzandosi nella forma di grandi mani con artigli che celano i tre volti, mentre la mano destra del primo dei tre corpi pende e si lascia andare. Sono figure, queste, erranti, ai margini di un’esistenza quotidiana che emerge intrecciando vivacità e angoscia, e in cui si neutralizza ogni polarità tra le due. Come se in Jus d’Orange paura e gioia fossero dis-orientate su un nastro di Möbius, e attraversando la prima si arrivasse naturalmente alla seconda (dall’altra parte) e viceversa, senza alcuno stacco.

Jus d’Orange, installation view, courtesy the artist and Fondazione ICA Milano, photo Andrea Rossetti

Sospese e senza coordinate sono anche le parole di Estelle Hoy, che abitano lo spazio espositivo allo stesso modo in cui le figure di Henrot abitano il loro fuori.

Le parole e le immagini si accompagnano a vicenda, così simili le une alle altre nel loro essere né vere né false. Quella di Hoy è una scrittura incarnata, nata dal suo corpo e fatta con esso (insieme ad esso), che al primo piano di Fondazione ICA assume i tratti enigmatici delle cose quando osservate da vicino. Le parole si trovano sulle pareti, agli angoli, intorno alle figure di Henrot – colte a vagare insieme a loro – oppure da sole: tutte consapevoli della loro definitiva confusione che risuona con le sensazioni di chi, quelle parole-spazio, le guarda per la prima volta. “È comprensibile evitare la fragilità psichica cercando motivazioni per tutto, basandosi sulla separazione tra il linguaggio e la sfera affettiva. Perché? Non saprei dirvelo. È troppo mondo tutto insieme, per me”. Così si legge in una delle piccole stanze ai lati del corridoio iniziale, con il “per me” finale che campeggia sull’altro lato della porta da cui si scorge Un Croissant (2022) di Henrot, dove la luna guarda interrogativa un volto un po’ interdetto. La stessa luna che diventa figura ulteriore e clandestina infilata tra linguaggio, corpo ed esistenza: “The Moon’s acts are clandestine, birthing light-years of time to analyze our conditions frequently. A condition beyond idealism, an erotic space with a specific agency: deviations”. In quest’ultima parola di Hoy risiede la dimensione affettiva di Jus d’Orange: una deviazione continua senza inizio né fine.

Camille Henrot, Un croissant, 2022, Watercolor, ink and acrylic on canvas, 60 x 80 x 4 cm. Courtesy of the artist, Mennour (Paris) and Hauser & Wirth. © ADAGP Camille Henrot
 

La corrispondenza tra le due artiste, durata per questa mostra fino a metà del 2023, procede per dissolvenze, sparizioni e riprese: un processo in cui ad ogni momento registrazione cognitiva ed emotività si intrecciano confondendo le regole del gioco, sia per le artiste che per il pubblico. Gli esempi appena citati sono infatti solo un parziale itinerario di Jus d’Orange, e non può che essere così: si potrebbero materializzare nell’intervallo di passi compiuti tra una sala e l’altra – tra un’apparizione e un’altra – per scomparire una volta che lo sguardo si è posato altrove, vagando nel disorientamento della mostra stessa. In questo rapporto tra momenti, ricordi e processi si fa strada il filo rosso di tutta l’esposizione: l’elemento centrale e invisibile di una narrazione che, come scrive Nuzzi, “circola in modo sotterraneo, quasi sottovoce”[4]. È il filo di una relazione ambigua e sfuggente: quella in cui i singoli momenti della vita – le sue grandi e spesso ingiustificate indiscrezioni – si rivelano in una postura diversa, colti in un flusso più ampio che a un primo momento risulta difficile da decifrare. Secondo dinamiche misteriose, l’istante si converte nella lunga durata del processo vitale, come se quest’ultimo fosse un’arancia da cui si prendessero insieme spicchi e polpa, passando dalla forma del frutto alla sua sostanza molle e informe.

In entrambi gli elementi di quest’arancia scorre il succo che diventa titolo e metafora cardine della mostra: quel Jus d’Orange in cui sia Henrot che Hoy abitano le loro proprie arancioni melme esistenziali, ognuna impegnata a distillare i propri spicchi mentre tiene traccia del mestiere di vivere e del mistero del fallire. Perché si può tenere traccia – della vita – annotando e condividendo le sue assurdità, finitezze e contraddizioni, senza tirare in ballo il destino. Si tratta di una scrittura che non riesce ad avere dei paragrafi che dividono. Forse qualche evento nella confusione, ma anche lì sospeso in una dimensione misteriosa che ci accompagna a tempo indeterminato. Jus dOrange è questa annotazione così simile a un’immagine, e viceversa: non un testo da leggere, ma una miriade di appunti tra cui vagare, perdersi e ritrovarsi.

Continua Nuzzi nel suo testo: “Nonostante gli eventi drammatici che hanno caratterizzato la Storia recente, continuiamo a sbucciare quest’arancia, alla ricerca della nostra collocazione nel mondo e alla scoperta delle possibilità generative della vita”[5]. Ecco che sempre “sottovoce” inizia ad emergere l’altra estremità dell’angoscia: la speranza. Perché sentire il fallimento è già amare, condividere le macerie del Tempo, giocare a renderle parti di una metamorfosi continua, riparare.

All’interno del primo piano di Fondazione ICA sono installate anche piccole pile di biscotti della fortuna: potenti misteri in miniatura. Ho preso l’ultimo dall’ultima pila all’angolo sinistro, credendo che la mia scelta potesse disturbare quella composizione effimera. Non è successo niente, il piccolo cumulo sicuramente è ancora lì. Ho lasciato il biscotto intatto fino a questo momento, forse per entrare anche io nella melma del succo d’arancia e cercare di capirci qualcosa. Lo rompo e leggo il messaggio che recita così: “l’accettazione della cosiddetta morte naturale”.  Sorrido e ripenso a un testo recentemente letto del poeta tedesco Rainer Maria Rilke: tre prose riunite in un unico componimento intitolato Dal libro dei sogni e pubblicato nel 1907 sul periodico praghese “Deutsche Arbeit”. L’Undicesimo Sogno si conclude con un dialogo tra la fanciulla e il sognatore:

« Siete strani » disse la fanciulla mentre continuavamo a scendere per l’ampia strada chiara. « Voi pensate, non fate quasi nient’altro che questo, e tuttavia vi sfugge tutto. Non sapevi dunque che la gioia è uno spavento che non si teme? Andare attraverso uno spavento sino alla fine: ecco la gioia. Uno spavento di cui si conosce più della lettera iniziale. Uno spavento in cui si ha confidenza. Oppure avesti paura? » « Non so » risposi confuso. « Non posso risponderti ». [6].

Anche fuori Jus d’Orange bisogna continuare a sbucciare. Come il piede pesante che tocca la luna e ne accoglie la potenza sempre troppo grande, senza sapere cosa succederà.

Camille Henrot & Estelle Hoy. Jus d’Orange
a cura di Chiara Nuzzi
Fondazione ICA, Milano
fino al 25 novembre 2023


[1] R. M. Rilke, La lettera del giovane lavoratore (1922), in Del Paesaggio, a cura di Giorgio Zampa, Adelphi, Milano 2020, p.163. Il testo, ricavato da un taccuino del 1922, fu pubblicato nel 1933 da Insel nel volumetto intitolato Su Dio.

[2] Chiara Nuzzi, Quotidianità e resistenza. L’aranceto rivoluzionario di Camille Henrot ed Estelle Hoy, p. 2.

[3] Ibidem.

[4] Ivi, p. 4.

[5] Ivi, p. 2.

[6] R. M. Rilke, Dal libro dei sogni (1902), in Del Paesaggio, op. cit., p. 77.

In copertina: Camille Henrot, The Three Graces, 2022, Watercolor, ink and acrylic on canvas, 60 x 80 x 4 cm. Courtesy of the artist, Mennour (Paris) and Hauser & Wirth. © ADAGP Camille Henrot

Piermario De Angelis

(Pescara, 1997) Dopo aver conseguito una laurea triennale in Arti, Design e Spettacolo presso l’università IULM, consegue il diploma accademico di secondo livello in Visual Cultures e Pratiche Curatoriali presso l’Accademia di Belle Arti di Brera. Nel 2021 co-fonda, con altri studenti e studentesse, l’associazione culturale no profit “Genealogie Del Futuro”. Scrive per ‘Kabul Magazine’, ‘Juliet Art Magazine’, ’Forme Uniche’, ‘roots§routes’ e ‘Antinomie’. La sua ricerca vuole essere un’esplorazione del potenziale critico dell’arte e delle immagini in relazione alle urgenze della contemporaneità.

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