In tanti, in questi ultimi anni, hanno parlato delle due vite di Giulia Niccolai (scomparsa martedì all’età di 86 anni). Lo ha fatto lei stessa, in effetti, nelle diverse scritture incollocabili e inirreggimentabili nelle quali con insistenza rimarchevole, appunto nell’ultimo periodo, ha rivisitato la propria esistenza alla ricerca di quei fili sottili, di quegli incroci e quelle divaricazioni che all’esistenza di ciascuno di noi danno senso (o almeno, così ci pare). In Esoterico biliardo (Archinto 2001) riprendeva un’immagine dell’amico Giorgio Manganelli (che aveva introdotto, a suo tempo, i suoi più bei libri di poesia), quella degli «spaghi tronchi, non collegati», dei quali secondo l’Encomio del tiranno «è fatto il mondo». Sostenendo che, a differenza di lui, lei a un certo punto era giunta a «riallacciarli», quegli spaghi, sino a comporre «un continuum»: «la chiave per interpretare tutto ciò che era fino ad allora rimasto in ombra».
In genere, invece, alla nostra vita senso lo possono conferire solo gli altri: per il buon motivo che la fine della vita, a colui che la vive, non è dato viverla. Impossibile guardare a se stessi da fuori, da dopo. Diceva Pasolini nel suo saggio più geniale che è la morte a dare senso alla vita di un uomo: come fa il montaggio, nel cinema, con la vita delle immagini che fluiscono. Ma quello di Giulia è un caso particolarissimo. Chi si è avvicinata di più a spiegarlo è stata Cecilia Bello Minciacchi introducendo al suo ultimo libro, Foto & Frisbees (Oèdipus 2016). Alludendo alla cesura che interviene nella vita e nella scrittura di Niccolai con l’ictus che nell’85 – scrive in questo libro – «le tolse la parola e la costrinse a non frequentare più l’ambiente e le letture dei poeti», conducendola di lì a poco ad abbracciare il buddhismo tibetano (cinque anni dopo Giulia, in India, si fa monaca), nota Cecilia come la conseguenza più evidente sia la reintroduzione di quell’«io» che i Novissimi del ’61 avevano predicato di voler «ridurre» a tutti i costi. Ma, a differenza che nel minimalismo neocrepuscolare (o massimalismo neodannunziano) di quegli stessi anni Ottanta ideali eterni, che da allora non la smettono di combattere la loro guerra postuma contro gli anni Sessanta, l’Ego di Giulia è «purgato, ha dovuto perdere la sua arroganza e le sue aspirazioni mondane»: non è più un «io oppositivo».
Specie nella forma da Niccolai poco dopo brevettata, quella dei Frisbees – petis-riens fondati su un’osservazione minima, un calembour, più spesso un “errore” appunto di percezione o espressione –, la poesia si vota a riportare «piccoli eventi quotidiani, marginali, frammenti, lampi, guizzi di un senso subalterno» (così Milli Graffi – curatrice nel 2012 della grande silloge Poemi & Oggetti – scomparsa a sua volta giusto un anno fa). Un esempio perfetto è quello riportato nella controcopertina di Foto & Frisbees: «Io mi presentavo sempre come / “traduttrice”, se poi mi capitava / di aggiungere: sono anche poeta, / immancabilmente l’interlocutore / mi correggeva: vuoi dire poetessa? / La volta successiva, con un’altra persona, / se dicevo: sono anche poetessa, / venivo comunque corretta con un: / vuoi dire “poeta”? / Insomma, una beffa. / Ora sono monaca».
In Cos’è ‘poesia’ (Edizioni del Verri 2012) si legge della vera folgorazione, in seconda elementare, ascoltando la maestra leggere Rio Bo di Palazzeschi. Ma anche nella produzione più recente la musa di Giulia resta sempre l’ironia, come ai tempi delle prime raccolte Humpty Dumpty e Greenwich nelle quali – a parte Toti Scialoja più tardi – non conosce rivali nell’interpretare la tradizione del nonsense più acrobatico (mancando all’italiano la ridda omofonica dell’inglese, adottava in tal senso la ricca fioritura dei toponimi: sino al topico «Como è Trieste Venezia»). Ma ora l’ironia allestisce un micro-set di piccoli o grandi equivoci nei quali Giulia stessa volentieri si mette in scena. E commenta: «Da giovane invece, non sbagliavo mai». Ecco, chi ha assistito negli ultimi anni alle sue letture (spesso accompagnate dal rintocco allusivo di un microscopico gong, interpunzione scenica suggeritale dall’amica Franca Rovigatti) ha potuto notare come gli “errori” indotti dai postumi dell’ictus – inceppamenti e bradisismi verbali, crisi e crasi, improvvise fughe in avanti – facessero ormai parte indissolubile del senso, microteatrale e appunto sempre autoironico, della sua scrittura. In questo modo la tanto perseguita «chiarezza», da lei stessa contrapposta alle ellissi e agli scotomi degli anni Sessanta e Settanta (un «navigare abolendo la rotta»), non diventa mai prevedibilità monotona, risaputa litania del senso comune. C’è sempre uno scarto, una microfrattura del senso che rende i frisbees, spesso, simili a koan: quei brevissimi paradossi zen che si fanno esercizi metodici del dubbio e dell’attesa paziente dell’illuminazione, il satori.

Ma quante sono state, davvero, le vite di Giulia? Uno dei suoi libri più belli e inclassificabili s’intitola Le due sponde (Archinto 2006) ed è un’ennesima autobiografia che passa però per la lettura di una serie di quadri esemplari (da Antonello a Van Eyck, da Hopper a Hokusai, da de Chirico a Duchamp). Il sottotitolo recita «Spazio/Tempo-Oriente/Occidente», ed è facile pensare all’incontro (comune anche al sodale Corrado Costa, ai tempi mitici del Mulino di Bazzano) fra spregiudicatezza occidentale e saggezza orientale, o a quello fra raffinatezza europea e vitalità yankee (di madre americana, Giulia ha passato oltreoceano diverse delle sue esperienze-chiave). E forse in effetti ha ragione Cecilia Bello: a contare è soprattutto l’«&» al centro del titolo ultimo, il supplemento spiazzante che disassa ogni dialettica (poetessa o traduttrice? poetessa o poeta? monaca).
Eppure proprio quest’ultimo titolo menziona le due anime che Giulia non ha mai voluto confondere fra loro, scegliendo con risolutezza di far seguire l’una all’altra: «Foto & Frisbee». Queste le due sponde: la sua prima vita è dominata dall’immagine, la seconda dalla scrittura (a far da cerniera, l’unico suo romanzo – quello davvero senza rotta del ’66 che, suggeritole da Giosetta Fioroni, reca il titolo Il grande angolo – racconta, se così si può dire, appunto il passaggio dall’una all’altra). Non sono mancati esperimenti di “poesia visiva” (come l’elegantissimo Poema & Oggetto del ’74, riproposto a cura di Milli Graffi dalle Edizioni del Verri nel 2014), ma se la generazione di Giulia è stata quella che con più decisione ha intrapreso la strada di una Expanded Poetry, nel suo caso specifico la poesia è consistita piuttosto in una “contrazione” che l’immagine evoca senza, per lo più, farla propria. La sua è piuttosto un’immagine interdetta, il calco di un’assenza.
Negli anni Cinquanta la giovane Giulia era stata infatti una fotogiornalista di successo: collaboratrice assidua dei primi rotocalchi che nel dopoguerra, sui modelli appunto dall’altra sponda dell’Atlantico (da ragazza, in tempo di guerra, vedeva il mondo sui fascicoli di «Life» tesaurizzata dalla madre), mettevano la fotografia al centro della comunicazione. Dalla Milano bohemienne del Bar Jamaica, dove di lì a poco prenderà a impazzare sulfureo Piero Manzoni, Niccolai viene spedita a ritrarre protagonisti della politica, dello spettacolo e dello sport. A metterla in crisi è un incidente di percorso, in apparenza banale ma eloquente: nel ’60, all’indomani dei suoi trionfi sulle piste dell’Olimpico, Giulia viene spedita in America a trovare Wilma Rudolph, la fulgida Gazzella Nera; ma trova una ragazza depressa, annichilita dal successo e dalla fama. Una volta mandato il reportage, però, si sorprende a leggere sulla «Settimana Incom» che «tutto il lavoro era stato purgato e stravolto, e Wilma Rudolph appariva come un’eroina da favola, felice e vincente». La Gazzella morirà cinquantenne, alcolizzata; ma intanto Giulia decide che è venuto il momento di cambiare strada.
Tranne poche eccezioni (un paio riportate nella «storia del fotogiornalismo in Italia» di Uliano Lucas e Tatiana Agliani, La realtà e lo sguardo), sino a poco tempo fa le foto della prima Giulia, per una storia complicata di gelosie e smarrimenti, si credevano perdute per sempre. E invece la giovane Silvia Mazzucchelli, testarda, non ha smesso di cercarle e infine le ha ritrovate; le ha portate a casa di Giulia e, sedute a un tavolo, insieme le hanno ripercorse (mi dice Marco Belpoliti che ne era già prevista un’edizione). In un ricordo, apparso ieri su «doppiozero», Mazzucchelli ne riporta tre o quattro, di miracolosa freschezza (vi si vedono fra gli altri un Fellini distratto, a Via Veneto, e un Kubrick inquieto mentre lavora alla sceneggiatura di Lolita).
Posso solo immaginare cosa abbia potuto provare, nel rivedere quelle immagini, chi le aveva scattate sessant’anni fa. Le due sponde misteriosamente riavvicinate, gli spaghi della vita all’improvviso riallacciati, il continuum ricomposto. Così era forse inevitabile che il circolo si chiudesse e il viaggio avesse termine. Ma proprio perché sono state più di una, davvero non è stata una brutta vita la tua, Giulia.
Una versione più breve di questo articolo esce oggi, 24 giugno 2021, sul «manifesto»
In copertina: Giulia Niccolai con Nanni Balestrini (si intravedono anche Luigi Ballerini e Alfredo Giuliani). Foto di Antonio Ria, si ringrazia Anna Ruchat