Ketty La Rocca, dal linguaggio al corpo

Ancora, in Italia almeno, essere una donna e fare
il mio lavoro è di una difficoltà incredibile.
(Ketty La Rocca, lettera a Lucy Lippard, estate 1975)

Nel 1974, una trentaseienne Ketty La Rocca – già attraversata dal male oscuro che l’avrebbe consegnata a una prematura scomparsa appena due anni dopo – affidava a dei versi tanto frammentari quanto assoluti il senso più profondo della sua condizione di donna e artista nel panorama italiano del suo tempo, saldando linguaggio, abilità e corpo femminile in un’affermazione ‘negativa’ di indipendenza:

non è tempo per le donne, di dichiarazioni: hanno troppo da fare
e poi dovrebbero usare un linguaggio che non è il loro, dentro un
linguaggio che è loro estraneo quanto ostile
pertanto posso solo dire con un’inconsueta intimità, come spazio generoso
e desolato, ma libero, che, codice alla mano: per quanto mi riguarda, ho
tutti i difetti delle donne senza averne le qualità: un femminile negativo,
come altre,
espropriate di tutto escluso di quelle cose che non fanno gola a nessuno,
e sono tante, anche se un po’ da rimettere in ordine,
le mani, per esempio, troppo tardi per le abilità femminili,
troppo povere e incapaci per continuare ad accaparrare,
è preferibile ricamare con le parole e accelerare la paranoia universale,
e al primo degli imbecilli che crede di scoprire l’america “sarà per un
matrimonio andato male”, sì, infatti, è proprio per questo
non riuscirà mai a capire.[1]

Sottraendosi ad ogni metafora testuale dal sapore etimologico – per cui testo è prima di tutto tessuto – il gesto fisico del “ricamare con le parole” prende qui le distanze dalle attività tradizionalmente assegnate alle mani di donna, combinandosi a una definizione indiretta di femminilità, fondata su di una marginalità volontaria e incarnata nella rinuncia, nel residuo, soprattutto nel silenzio. Quest’ultimo, preferibile a un linguaggio percepito come nemico, si oppone ai deliranti precetti del mondo esterno, ancora fermo alla convinzione che le donne dovrebbero limitare la propria manualità al superfluo e all’ornamentale e che tutti i loro discorsi e pensieri siano dettati dall’emotività, a sua volta condensata nell’immagine stereotipata di un “matrimonio andato male”. Le mani, dal canto loro, possono aprire la porta di quella vertiginosa mise en abyme che è l’identità della donna, capitalizzando sulla sua espropriazione di tutto, su quelle cose che nessuno vuole ma che ella ha imparato ad usare per disinnescare la dolorosa dialettica tra maschile e femminile e per riguadagnare altri spazi, forse desolati ma liberi.

Sebbene la vasta produzione poetico-visuale di La Rocca sia profondamente radicata nel tema femminile, l’interesse della critica in tal senso si è dimostrato incostante. Dopo una significativa ma breve menzione, nel 1974, all’interno del volume di Lea Vergine, Il corpo come linguaggio, nel 1976 La Rocca compare tra i pochi esempi di arte femminista italiana citati da Lucy Lippard in From the Center. Feminist Essays on Women’s Art. Lippard  – in contatto epistolare con La Rocca già dall’anno precedente – associa l’estrema concretezza materiale del suo lavoro a forme di Minimalismo e Arte Concettuale, ascrivendo il libro del 1971 sulla gestualità delle mani, In principio erat, e la serie delle Craniologie a forme complesse di autobiografia astratta. All’indomani della morte, due retrospettive a più di dieci anni di distanza l’una dall’altra – la prima inserita, nel 1978, nell’ambito della XXXVIII Biennale di Venezia; la seconda curata nel 1989 da Lara Vinca Masini per la Galleria Carini di Firenze – sembrano siglare l’uguale scomparsa di La Rocca dalla memoria critica e artistica. Su di lei, prima ancora che sulle sue liaison femministe, cala cioè un assoluto silenzio, rotto solo a partire dagli anni 2000, con la pubblicazione, rispettivamente nel 2001 e nel 2005, di un Omaggio a Ketty La Rocca (un catalogo congiunto di due grandi mostre, svoltesi a Roma e a Monsummano Terme) e di una fondamentale edizione dei suoi scritti, entrambi a cura di Lucilla Saccà. Nel 2007, La Rocca viene poi inclusa in Wack! Art and the Feminist Revolution, mostra internazionale dedicata all’arte femminile allestita da Cornelia Butler al MOCA di Los Angeles; e l’anno successivo Elena Del Beccaro le dedica la monografia Intermedialità al femminile: l’opera di Ketty La Rocca. Altri contributi rilevanti arrivano infine nel 2015, quando Francesca Gallo e Raffaella Perna curano per Postmedia il volume Ketty La Rocca. Nuovi studi, attraversato da un marcato interesse per le forme del corpo esplorate dall’artista e nel quale almeno un saggio – quello a firma di Elena Di Raddo – è orientato in ottica di genere.

Pure – e mentre l’interesse per La Rocca è finalmente in espansione nel mondo dell’arte – ancora non del tutto approfondito risulta il decisivo nodo che esiste tra linguaggio, corpo e identità nella sua opera, di cui si predilige spesso l’interesse ora grafico, ora fotografico o gestuale: aspetti che si intrecciano tutti nella complessa matrice intermediale delle sue creazioni, ma mai davvero separati da una inesausta riflessione sulla lingua come substrato teorico di una estrema (de)materializzazione dell’io femminile, di un suo non intimistico ridefinirsi al di là delle costrizioni patriarcali favorite dalla comunicazione verbale.

È in particolare la mirata decostruzione del linguaggio ad essere al centro del lavoro di La Rocca – e della sua nutrita produzione scritta, troppo spesso tralasciata – dirigendone le più profonde interrogazioni identitarie, in un costante tentativo di autodefinizione, prima ancora che di relazione con l’altro da sé. Ciò la avvicina alle pratiche di autocoscienza portate avanti, in quegli stessi anni, da artiste e critiche d’arte quali Carla Lonzi e Annemarie Sauzeau Boetti: pratiche di autodeterminazione e autorappresentazione individuale, al di fuori delle imposizioni fallomorfiche della lingua. In tal senso, La Rocca sembra anticipare concretamente le riflessioni affidate da Adriana Cavarero al suo pionieristico saggio del 1987, Per una teoria della differenza sessuale: “La donna non è il soggetto del suo linguaggio. Il suo linguaggio non è suo. Essa perciò si dice e si rappresenta con un linguaggio non suo, ossia attraverso le categorie del linguaggio dell’altro. Si pensa in quanto pensata dall’altro”[2]. Cavarero spiega come l’io del discorso, concepito come un universale dalla speculazione filosofica dell’Occidente, sia in verità un soggetto maschile che si è elevato ad universale: affermazione confermata dal fatto che – in particolare nelle lingue fondate sulla differenza grammaticale di genere – il termine ‘uomo’ può essere anche adoperato in modo non-marcato, ad indicare tanto il maschile quanto il femminile, in una presunta indifferenza sessuale. “In questo itinerario” – continua Cavarero – “l’uomo percorre la parabola del medesimo: esso si ritrova e si riconosce come particolare della sua universalizzazione. Alla donna capita invece di trovarsi solamente come particolare, come l’altro finito compreso nel neutro-universale uomo”[3]. Ne consegue che la donna soffre una doppia alterità: ella è l’uomo astratto e universale sessuato al femminile (l’altra annientata dal linguaggio), ma pure l’Altra in quanto simbolo di una differenza sessuale che il maschio non sperimenta mai, essendo egli universalizzato come neutro, e pertanto ‘normale’. Un’Altra “che il processo di universalizzazione del maschio non ha contemplato come tale, ma che pur tuttavia è ‘materialmente’ sopravvissuta”[4], benché senza essere stata in grado di riconoscere se stessa: ella è un soggetto impensato nella sua differenza, poiché per secoli si è percepita solo in negativo, misurandosi su quello che non è rispetto allo standard maschile. Ed è proprio il sopravvivere materiale della donna che risulta essenziale nell’opera di La Rocca, concentrata nel rifiuto della sua oggettificazione e nell’intento di ridefinire il proprio soggetto sessuato in un’immagine integra d’individualità. Benché non abbia mai avuto contatti diretti con il movimento femminista italiano, tutto il suo lavoro è quindi uno straordinario esempio di materializzazione poetica di una differenza femminile inattingibile coi mezzi del linguaggio, poiché il linguaggio non è stato creato per parlare della o per la donna e ha bisogno di essere o rifiutato o piegato a tale scopo, teso fino all’estremo attraverso forme di distruzione, ironia e trasfigurazione.

Nell’Archivio Ketty La Rocca – oggi diretto dal figlio Michelangelo Vasta – giace un documento in versi senza data ma collocabile negli anni Settanta, che risulta fondamentale a chiarire un simile atteggiamento, contestualizzandolo altresì nell’ambito della dittatura comunicativa della società di massa. Cominciamo dalla prima metà del testo (LRS, p. 58):

la metafora si è esaurita?
come se non bastasse, se non fosse sufficiente,
evidenziare gli aspetti metaforici di un’immagine ancora che li assuma:
impossibile prima
esasperare la metafora, anche la tautologia ancora una volta ha perso la sfida
il linguaggio assume il ruolo di linguaggio globale attraverso la dimensione
metalinguistica
il linguaggio non esiste, tutto è metalinguaggio

Il linguaggio come mezzo di comunicazione tradizionale tra soggetto e oggetti – fondato sulla metafora, o persino sulla tautologia – sembra aver esaurito la sua abilità di significare il mondo, aprendo la strada alla sola esistenza di un metalinguaggio inteso come una sterile riflessione del linguaggio su stesso, del tutto privo di una controparte reale cui relazionarsi cognitivamente (proprio come le immagini visive diffuse, allora come oggi, dai mass media). “La realtà, qui e ora, è solo fotovissuta e parlata / e se io fotovivo allora ho gli occhi sporchi, le mani sporche, il cervello / se io parlo ho la lingua sporca e la vita” (LRS, p. 92) – scrive Ketty in un altro testo poetico, stampato sull’invito della sua personale del marzo 1973 alla Galleria Christian Stein di Torino. Il titolo di questo testo mima un sillogismo errato, emblema di una logica linguistica (e maschile) che ha espunto i concetti di diversità e contraddizione dai suoi ripetitivi discorsi di conformità: I cervi sono veloci, gli indiani sono veloci, gli indiani sono cervi. La Rocca manifesta dunque un giudizio critico contro la globalità dei mezzi visuali e linguistici del suo tempo, che non implicano alcuna affermazione o trasferimento di significati, ma predicati egotici e superficiali, irrilevanti per qualsiasi definizione di soggettività, men che meno femminile. A questa impasse, l’artista reagisce con una doppia azione, diretta verso il linguaggio come verso le immagini e così formulata, nel seguito della poesia senza data citata prima (LRS, p. 58):

il linguaggio articolato trasferito da luogo delegato delle linee parallele,
ridotto a segno di un’immagine, è posto nella sua autentica e inalienabile
dimensione di eterno riduttore
il tentativo di esaurimento-esautoramento del linguaggio rende
concreta una situazione reale
un discorso, il paradosso del metalinguaggio, segna le immagini, un pretenzioso
discorso globale trasportato a gesto, gesto della mano sul foglio che scrive.

Nel 1970, La Rocca punta a liberare il linguaggio dalle sue gabbie stereotipiche (allegorizzate dallo spazio espressivo costretto nelle “linee parallele”) e a ridurlo a “segno di un’immagine”: e questo è quello che farà ad esempio nelle Riduzioni, trasfigurando i contorni di riproduzioni fotografiche – il cui valore documentale è conforme alle regole standardizzate dell’informazione – in una calligrafica scriptio continua, in modo da rielaborare parole e immagini attraverso un personale discorso gestuale. Concretizzando – in senso letterale: ovvero rendendola concreta per la sua sensibilità – una reale situazione linguistica o visuale, la maggior parte dei suoi lavori esprime dunque l’urgenza di riformulare l’identità per mezzo di una esternalizzazione (calli)grafica del suo soggetto. Ciò comporta, tuttavia, dei costi. Sempre in I cervi sono veloci, gli indiani sono veloci, gli indiani sono cervi, La Rocca scrive (LRS, p. 92):

se continuo ad accaparrare, appropriarmi, diversificare poi, anche attraverso
grandangolari estremi, mi affatico inutilmente, mi annoio continuamente,
mi ripeto inevitabilmente e sto male
dichiaro di essere il cronista di me stesso e degli altri con
qualche variante nevrotica in più e sono a posto?

Il luogo privilegiato di tale operazione pare essere, per La Rocca, la poesia, o meglio il ‘discorso poetico’, concepito come spazio di intersezione di codici provenienti da ambiti diversi, in grado di vivificare il linguaggio straripando al di là delle sue costrizioni comunicative. In un articolo intitolato Crisi dell’arte e poetica nostrana – apparso in un numero doppio (82-83, luglio-ottobre) di «Letteratura»nel 1966 – aveva infatti già scritto (LRS, p. 117):

…siamo in presenza di un discorso poetico ogni volta che è stata intensificata la funzione idealizzante (ovvero significante) assolta dai segni nel linguaggio ordinario. Potremmo così lecitamente definire poetiche il prodotto di tutte le operazioni (ossia di determinate costruzioni-linguaggio) le quali, caricando i consueti segni verbali, o deragliando dal tradizionale binario del segno verbale nel campo dei segni derivati, o scavalcando addirittura ogni segno di primo livello e offrendo in sua vece il denotato, assolvono alla funzione di realizzare una comunicazione “più comunicazione”.

La Rocca definisce dunque la poesia come una comunicazione intensificata, ottenuta attraverso un sovraccarico di significanti (verbali o meno) in grado di amplificare il significato, oltre qualsiasi soffocante monoglossia. Se la comunicazione è tutto, per La Rocca, lo è anche la necessità di combinare profondamente scrittura e immagine, violando ambedue nel segno di una rielaborazione autonoma, iconica e materica. Questo è, in effetti, il motivo principale del suo distacco dal Gruppo 70, dedito a una più netta separazione delle sfere verbali e figurative, unite sì ma mai completamente integrate nello stile collagistico della poesia visiva. È pure il limitato orizzonte della contestazione ideologica che La Rocca inizia a soffrire alla fine degli anni Sessanta: la necessità di affrontare una dialettica più complessa, non più circoscritta alla sovversione di cliché culturali, ma rivolta all’esplorazione dell’sé e delle questioni intersoggettive, la spinge ad espandere e moltiplicare le sue tecniche, includendovi la creazione plastica, la manipolazione fotografica e il video, la rappresentazione teatrale e l’iscrizione poetica.

Fig.1

Un primo punto di svolta nella sua carriera è rappresentato dalle cosiddette “segnaletiche”, opere (de)costruite con il linguaggio dei segnali stradali. L’idea le viene dalla manifestazione collettiva Approdo, organizzata nel 1967 ancora con il gruppo di Pignotti: un happening che consisteva nel chiudere l’uscita dell’autostrada A1 per Firenze Nord per quindici minuti, sostituendo i cartelli stradali con opere d’arte. In risultati come Noi 2 (fig. 1), La Rocca rompe il legame culturale tra immagini e scrittura, per rendere vulnerabili i rispettivi codici, per superarne i segni, mostrandone una manipolazione tale da scatenare idee non trasferibili in forme di comunicazione consuete. Basta, perché ciò sia evidente, confrontare Noi 2 – realizzato in smalto su faesite – con un collage del 1965, intitolato Sana come il pane quotidiano (fig. 2): un esempio di critica al processo di mercificazione femminile, che mette in discussione la dottrina cattolica della subordinazione della donna, facendo eco alla preghiera del Padre Nostro e fondendone provocatoriamente il senso con il problema della fame nel mondo. Sebbene molto distanti tra loro, per temi e tecniche esplicite, entrambi i lavori affrontano il motivo della femminilità, del controllo e dell’autodeterminazione. Tuttavia, mentre il collage denuncia gli effetti del dominio maschile sul corpo e sulla sessualità femminile, lasciando intatta la corrispondenza di significanti e significati all’interno degli ambiti verbali e figurativi sovrapposti, l’insolito accostamento del segnale stradale circolare che indica due diverse direzioni di viaggio con l’iscrizione alfanumerica finisce per aprire e invertire la qualità di entrambi, suggerendo un messaggio esistenziale altrimenti elusivo. L’etichetta Noi 2, unita alla biforcazione delle frecce, fa infatti pensare alla separazione di due traiettorie di vita, spostando l’attenzione da un simbolo iconico ben consolidato a una riflessione sulla conflittualità (e l’inevitabile divergenza) della relazione duale. L’aumento dell’astrazione e della profondità concettuale è, inoltre, legato all’aumento della concretezza fisica: è la realtà del significante (del vero cartello stradale) che è stata qui modificata, con un conseguente nuovo valore.

Fig. 2

Nelle opere costruite a partire dai segnali stradali, intanto, i pronomi io e te vengono pur brevemente introdotti: indirettamente, come in Noi 2, o direttamente, come in Io tu e le rose. Entrambi sono però destinati ad essere sostituiti negli anni seguenti, poiché troppo legati al discorso maschile. Per quanto riguarda l’io, esso inizia ad assumere forme più concrete e originali entro il 1969, quando La Rocca comincia a produrre giganti poliedri in forma di j, prima lettera del pronome soggetto francese je, in pvc nero lucido. Si tratta di un tentativo estremo di modellare il linguaggio a propria immagine: la lettera minuscola j – che richiama la figura femminile affusolata: testa e corpo – esternalizza l’incompletezza esistenziale del sé femminile, favorendo un atto di riconoscimento e relazione con il mondo esterno. Le presenze alfabetiche, ove La Rocca presenta la sua j insieme a varie altre lettere-scultura e ai segni diacritici di punto e virgola, vengono infatti organizzate in installazioni interattive – come quella ambientata nei giardini pubblici di Modena nel 1970 – per stabilire una comunicazione materiale tra il pubblico e l’essere palpabile dell’artista: grafema del suo corpo nascosto sotto linguaggio, ridotto a un bit tipografico che evoca quanto è indicibile con i soliti mezzi del discorso verbale.

La j tridimensionale ha quindi il valore di una forma archetipica di identità femminile, inconcepibile nell’ambito regolamentato della grammatica e destinata a parlare a partire da una scoria materiale: l’io appena abbozzato – e trasferito in un altro idioma, per sottolineare la distanza della donna da quella lingua madre che non è affatto un’eredità femminile – incarna il ‘residuo’ che, ancora una volta secondo Adriana Cavarero, è la vera rappresentazione dell’Alterità della donna:   

È allora forse qui che si cela la straordinaria fascinazione che la parola residuo provoca su di noi: il residuo non è tanto un cantuccio incontaminato del nostro essere sottrattosi, caparbiamente o per divina sorte, al linguaggio maschile, ma l’ineliminabile presenza di una intierezza costretta ad autorappresentarsi nella sua mutilazione.[5]

Lungi dall’essere una semplice celebrazione dell’oralità della parola, j è la più vera materializzazione dell’estraniamento della donna: riflesso della sua separazione in se stessa, della sua doppia ma non riconosciuta essenza d’Altra all’interno dell’altro, essa suggerisce e abbraccia la mutilazione, mentre la sua tridimensionalità accenna alla differenza sopravvissuta e sepolta sotto quella presenza fisica e franta. Tale presenza, che non può mai prescindere dalle circostanze storiche della sua esistenza, è incarnata nell’inquietante fotografia di La Rocca sdraiata a letto insieme alla sua gigantesca j, inevitabile compagna avvolta nelle lenzuola come dopo un incontro erotico, osservata con apprensione quale inestricabile parte di se stessa (fig. 3). Lo straniante minimalismo della foto, in altre parole, indica l’impossibilità del soggetto-donna a ricomporre se stesso, a sottrarsi a un’inevitabile alterità. Quest’ultima, prima ancora di relazionarsi con il genere maschile, è per La Rocca forzatamente inscritta nella donna: e con tale alterità ella imparerà a vivere, materializzando la sua alienazione perché sia toccata, letta ed esperita.

Fig. 3

E questo La Rocca continuerà a fare negli anni successivi, segnati dall’inquietudine della malattia, scoperta nel 1970 e combattuta come un’imposizione fisica ed esistenziale. Dal 1971, intanto, j si trasforma in you: pronome ossessivo – sempre in una lingua doppiamente straniera – che perseguiterà le sue opere fino alla fine e che segna il suo passaggio definitivo al gesto calligrafico. Insistere su you non rappresenta solo un gesto di offerta dell’io agli altri, o più concretamente un appello al fruitore dell’opera. You è certo l’altro, ma più dentro che fuori la donna: chiamato a confermare l’esistenza del suo io, innesca uno sforzo relazionale destinato a rimanere irrisolto. You è l’evocazione ripetitiva senza una possibile conclusione, è l’alterità sempre desiderata come un equilibrio esterno alla propria integrità, che non sarà mai realmente raggiunto. Dire you equivale pertanto a denunciare la separazione cui la lingua obbliga le donne e a parlare di se stessa come tale separazione. La Rocca lo conferma in un testo poetico esposto alla sua personale alla Galleria Seconda Scala a Roma nel febbraio 1973 (LRS, p. 90):

“you, you” tenta di inceppare il processo mentale rendere subito chiara l’asintote
dell’alienazione “you” significa che “io”, io non ho alternative, mi salvo
nella mia stessa isteria
nel rendere microscopico il vivere l’altro da me
nell’essermi esempio di alienazione
ma non di perversione

Sempre intitolato I cervi sono veloci, gli indiani sono veloci, gli indiani sono cervi, questo testo spiega l’equivalenza io – you, accennando a una pratica poetica volta a fermare il comune processo mentale, il quale divide immediatamente i pronomi soggetto, minimizzando così l’alienazione femminile. Quest’ultima è assimilata al concetto geometrico di asintoto (di cui La Rocca propone una variante arcaica femminile, asintote), adoperato per designare una linea a cui una determinata funzione si avvicina indefinitamente senza mai raggiungerla: suggerendo così l’impossibile reintegrazione dell’identità femminile. I versi segnalano altresì l’imporsi di un diverso mantra (you you) da quello sillogistico, da sovrapporsi calligraficamente alla realtà fotografica su cui ella si concentra negli anni Settanta, per decostruirla, cancellando il dato originale e dando spazio al proprio gesto fisico e alla propria soggettività. La catena you you viene così tracciata in modo discontinuo a mano sui contorni delle Craniologie, in cui La Rocca utilizza le radiografie del suo cervello malato. Esternalizzando l’esistenza reificata della malattia e la sua brutale, asettica esibizione medica – poiché “la radiografia del cranio è la maschera dell’uomo di ora / una maschera che porta addosso / e che assimila ogni uomo ad ogni uomo” (LRS, p. 35) – ella si riappropria di pezzi di realtà per mezzo del solo vero atto autonomo, a metà tra linguaggio e silenzio: la calligrafia, espressione materiale di individualismo assoluto. E dato che la calligrafia dipende dalla mano che pone in atto la scrittura, le mani assumono una grande importanza nelle opere di La Rocca degli ultimi anni, scatenando una forma estrema di concretezza poetica. Estensione fisica del grido di alienazione che inverte e confonde l’interferenza emotiva io-you, le mani sono fotograficamente sovrapposte al suo cranio nelle stesse Craniologie in pregnanti gesti di disagio e incongruenza (come il pugno chiuso), quasi che il potere radicato nelle mani delle donne non potesse contenersi nel limitato spazio del mortificante mondo maschile – al quale pure, come mostrano i penetranti effetti della radiografia, esse sembrano non potersi sottrarre (fig. 4).

Fig. 4

Le mani sono dunque la chiave per una nuova forma di poesia concreta, in grado di superare la limitazione del linguaggio e tradurre l’indefinita ricerca dell’alterità femminile. Nel tentativo di trovare un codice archetipico immune alle trappole del discorso verbale e alle leggi culturalmente indotte che regolano il pensiero, La Rocca mescola mani, parole e scrittura, dando vita a un idioletto privato eppure universale in cui la presa, il contatto, il gesto mirano ad attivare processi mentali incontaminati. In principio non erat verbum: questo è ciò che La Rocca intende affermare polemicamente, sovvertendo l’incipit del Vangelo di Giovanni (simbolo di una cultura cattolica e patriarcale), già a partire dal suo libro In principio erat, pubblicato per il fiorentino Centro Di nel 1971 (fig. 5). Presentato subito a Firenze, alla Galleria Flori, e poi alla XXXVI Biennale di Venezia nel 1972 – all’interno della sezione Il libro come spazio di ricerca, a cura di Renato Barilli e Daniela Palazzoli – questo volume di fotografie in bianco e nero è articolato in tre parti, fondate sulla ricerca di una koinè gestuale per antonomasia, più forte del linguaggio e delle sue ambiguità semantiche. Nella prima, le mani, quasi sempre di La Rocca stessa, vengono immortalate mentre eseguono semplici gesti di immediato significato, mentre il profilo dell’artista è confusamente percepibile sullo sfondo; nella seconda, mani diverse, legate tra loro in molteplici modi, favoriscono una varietà di contatti umani; nel terzo, le mani, ora divenute più numerose, sembrano bramose le une delle altre, in un giocoso combinarsi di disposizioni spaziali. Tutte le immagini sono accompagnate da frasi senza senso, prima riportate in italiano e poi sommariamente tradotte in inglese o, come nell’ultima sezione, da ninne nanne e rime infantili la cui traslitterazione equivoca sottolinea le incertezze dell’espressione linguistica rispetto all’immediato potere delle mani, appendici sensibili del cervello in grado di favorire nuove forme di pensiero astratto. Principale canale del tatto – il più concreto dei nostri sensi, sempre censurato, nella società occidentale, per le sue connessioni con una fisicità assoluta, primitiva e sessuale – le mani forniscono anche l’unica esperienza personale intraducibile, per via della loro immanenza all’interno del corpo, nei prodotti culturali rivolti alla società di massa. In una prospettiva simile, In principio erat promuove una relazione armoniosa tra mani maschili e femminili, che nella seconda e terza sezione del libro riconoscono ed integrano le rispettive identità attraverso la materia corporea.

Fig. 5

Tale armonia è destinata a perdersi nell’opera centrale di La Rocca, il video muto e in bianco e nero Appendice per una supplica, pure presentato alla Biennale di Venezia nel 1972, nella sezione Performance e Videotape a cura di Gerry Schum. Qui, l’immagine si distacca completamente dal linguaggio verbale, al fine di fornire un codice del tutto autonomo, un’azione estetica sempre più distante da qualsiasi tipo di rappresentazione, improvvisamente riaperta alla lotta tra principio maschile e femminile. Nessun contatto, tuttavia, si verifica: la pianificazione estetica qui coinvolta trascende la funzionalità (erotica, cognitiva) dell’incontro tra i sessi visto nel libro e si concentra sulla sola mano femminile come traccia di alterità, liberata dal tempo e dalle sue limitazioni storico-esistenziali. Anche il video è diviso in tre parti: nella prima, La Rocca mostra il palmo e il dorso delle sue mani, intrecciando le dita, collocando l’indice della mano sinistra tra le dita aperte della mano destra e tracciandone i contorni, come a volerle disegnare su un’invisibile superficie cartacea; poi due mani maschili arrivano a circoscrivere lo spazio e solo la mano sinistra della donna rimane sullo sfondo, ora chiusa ora aperta (fig. 6); nella terza sezione, infine, ella gioca a contare le dita della sua mano e il numero corrispondente appare di volta in volta sullo schermo, seguito da un’immagine che ripropone il fotogramma precedente, cancellando tuttavia il dito indicato prima. Sovvertendo il tempo immobile dell’immagine, la mano della donna è diventata centrale: nella fissità della macchina fotografica, l’icona bianca e luminosa che lotta, su di uno sfondo astratto e nero, tra le sue controparti maschili esprime la precarietà transitoria del corpo femminile, che si è però finalmente trasformato in un soggetto indipendente. Al residuo gradiente narrativo ancora in gioco in In principio erat si è sostituita, oltretutto, una comunicazione assoluta e concreta, che ha rimpiazzato una volta per tutte il sistema della metafora con quello della metonimia: materializzando la differenza femminile per mezzo di un’iconografia perturbante quanto necessaria.

La mano, intanto, è stata ormai colonizzata dal mantra you you, scatenando un’ossessione poetica che unisce le mani e la calligrafia quale unica forma di autoaffermazione nel mondo. Ciò è evidente in una serie di polittici fotografici – per la più parte intitolati Le mie parole, e tu? – realizzati tra il 1971 e il 1972 come corollarî del video, nei quali la dinamica tra uomo e donna offre una particolare declinazione della conta (e cancellazione) delle dita. In essi, il claustrofobico sovrapporsi della mano maschile su quella femminile limita più esplicitamente il raggio d’azione della donna, la quale reagisce contornando ambedue le appendici di sottilissime linee d’inchiostro e inscrivendovi un pulviscolo di parole tra cui emerge, sia sul palmo della mano della donna (quando visibile) che sul dorso della mano dell’uomo, il consueto binomio you you (fig. 7).   

Il gesto come atto polemico di disalienazione sembra dunque poter sopravvivere solo se combinato a una scrittura capace di iscriversi anche sulla mano dell’altro: enfatizzando quella soglia drammatica tra l’interno e l’esterno dell’essere femminile, alla ricerca costante del suo punto di vista. You è, ancora una volta, il paradosso illegittimo dell’identità muliebre, inaccessibile, insoddisfatta, sempre prossima all’inesistente, eppure sempre impegnata a farsi materia e a sopravvivere, poeticissima scoria residuale sulla superficie del mondo. You non più comprensibile del messaggio nascosto nelle linee delle sue mani, fuori dal suo controllo e dalla sua volontà: la ricerca dell’alterità – del sé, dell’altro – viene lasciata irrisolta, immersa in quella frattura originale tra essere femminile e mondo maschile, con la loro lingua e il loro ethos. You sono le stimmate di un’esistenza liminale, testimonianza del dolore fisico di un corpo vissuto come mezzo di sacrificio, poesia e relazione, che incarna l’origine più vera della differenza femminile, segno forte e fragile che si scontra con le strutture ereditate dal patriarcato.

È così che le mani di La Rocca, da cui questo pezzo ha preso le mosse, abbracciano e modificano profondamente il suo contesto sociale, rafforzando il legame – sublimato per mezzo di una scrittura asemantica – tra la mente e il corpo femminile: un corpo fenomenologico e performativo, distaccato da qualsiasi forma di reificazione; un corpo vissuto, capace di affermare la soggettività dell’artista per mezzo di un’estrema, sofferta, davvero insuperata forma di concretezza poetica.


Note:

[1] K. La Rocca, I suoi scritti, a cura di L. Saccà, Martano Editore, Torino 2005, p. 96. Nel seguito del testo, le citazioni da questo volume si indicheranno per mezzo della sigla LRS.

[2] A. Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale, in Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987, p. 49.

[3] Ivi, p. 44.

[4] Ivi, p. 62.

[5] A. Cavarero, Per una teoria della differenza sessuale, cit., p. 63.

Immagini:

Fig. 2. Sana come il pane quotidiano. Collage su carta. 44,5 x 29 cm (1965). Archivio Ketty La Rocca, di Michelangelo Vasta

Fig. 3. Con inquietudine. Foto e scrittura a mano. 12,6 x 17,4 cm (1970). Archivio Ketty La Rocca, di Michelangelo Vasta

Fig. 4. Craniologia n.2. Radiografia e scrittura a mano. 70 x 50 cm (1973). Archivio Ketty La Rocca, di Michelangelo Vasta

Fig. 5. Copertina del libro In principio erat. Centro Di, Firenze (1971)

Fig. 6. (1 e 2) Fotogrammi dal video Appendice per una supplica, b/n (1972). Archivio Ketty La Rocca, di Michelangelo Vasta

Fig. 7 (1-2-3-4) Le mie parole, e tu? Disegno su foto. Sequenza di 4 elementi. 50 x 60 cm ciascuno (1971). Archivio Ketty La Rocca, di Michelangelo Vasta

(Campobasso, 1987) è ricercatrice María Zambrano presso l’Università di Siviglia. Dottorata in Discipline Filologiche e Linguistiche Moderne alla Scuola Normale Superiore di Pisa e in Romance Languages and Literatures ad Harvard, dove è stata anche Lauro De Bosis Post-Doctoral Fellow (2019-2020), si occupa di studi moderni e contemporanei, con speciale interesse per i fenomeni di intermedialità. Ha lavorato molto in passato sulle relazioni prosa-poesia nei grandi narratori del Novecento, in particolare Goffredo Parise e Carlo Emilio Gadda. Le sue ricerche attuali vertono sull’intermedialità visuale (dal segno grafico e tipografico alla fotografia, dal cinema alla musica alla performance) nella poesia italiana ed europea dal Futurismo alle Neo-Avanguardie. È autrice di vari saggi critici e, nel 2018, ha co-organizzato il simposio internazionale “Embodied Words. Concrete and Visual Poetry in Italy and Belgium in the 60s and 70s” (Istituto Italiano di Cultura di Bruxelles).

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