
Ha scritto una volta Vladimir Nabokov che «i problemi di scacchi richiedono da chi li compone lo stesso livello qualitativo che caratterizza ogni altra composizione artistica: originalità, inventiva, armonia, concisione, complessità e… totale mancanza di sincerità». Si conosce la passione per gli scacchi di Nabokov (ancorché solo un romanzo abbia loro dedicato, uno dei suoi primi, La difesa di Lužin): il quale per la verità amava più i “problemi” teorici (nella cui produzione, e risoluzione, raggiunse una reputazione internazionale pari a quella dei suoi studi sulle farfalle) che il gioco vero e proprio (forse perché convinto, come lo sarà Garry Kasparov, che gli scacchi siano lo sport più violento di tutti). Anche se vuole la leggenda che si sia trovato, una volta, a sfidare Humphrey Bogart: il quale cogli scacchi, prima di Hollywood, s’era guadagnato da vivere.
Sulla mancanza di sincerità non poteva transigere colui che ha detto, col suo aforisma più famigerato, che «realtà» è l’unica parola che andrebbe scritta sempre fra virgolette. Ma la notazione acquista un senso ulteriore, certo, dal momento che si trova in Parla, ricordo: l’autobiografia che è fra i suoi assoluti capolavori e che, per statuto di “genere”, sarebbe deputata a riportare la sua «vera vita». Le cose non possono essere così pacifiche, si capisce, nell’autore della Vera vita di Sebastian Knight: formidabile sotie “biografica” uscita lo stesso anno di Citizen Kane, il 1941, e che ne condivide la struttura di quête interminabile – «labirinto senza centro» (come Borges definì l’opera prima di Orson Welles) – alla ricerca del senso ultimo, appunto, della vita d’un uomo. Dove quel «vera», nel titolo, ha lo stesso valore d’antifrasi sprezzante, allora, che nella Storia vera di Luciano di Samosata. Fatto sta che secondo un autore a lui devoto, et pour cause, quale Giorgio Manganelli, ogni testo di Nabokov è in effetti una «macchina […] complicata e inutile», proprio come una scacchiera: campo di mosse possibili in realtà finito ma, nel concreto dell’esperienza umana, dalla frustrante interminabilità. E come concatenazioni micidiali di «mosse» – gesti «futili e araldici», «nessi arbitrari e rigorosissimi» – leggeva le sue trame, o meglio “partite”: illusionistiche e perfettamente astratte.
Chiunque abbia letto Nabokov sa come questa ricetta produca in realtà, a cadenza pressoché infallibile, marchingegni letterari di affatturante, implacabile seduzione. Eppure di Cesare Pietroiusti – e in particolare delle sue azioni di arte relazionale e partecipata, a un paio delle quali avevo assistito con scostante interesse – mi ero fatto sinora un’idea che, restando in questo immaginario, aveva l’esattezza sì, ma anche la freddezza, di un teorema. Ne ammiravo la lucidità e la consequenzialità “ideologiche”, certo, ma non posso davvero dire che il suo lavoro mi scaldasse più di tanto. Ancor più mi allontanava, confesso, il fatto che in una fase assai complicata, e a me tutt’altro che gradita, della vita politica della mia città questo outsider per definizione avesse inopinatamente assunto, invece, ruoli dirigenziali di rilievo nel “sistema dell’arte” (come la presidenza del Palazzo delle Esposizioni). Neppure mi piaceva che, proprio in questo momento, fosse stata organizzata la sua prima grande antologica in un’istituzione museale: Un certo numero di cose (al MAMbo, dal 4 ottobre 2019 al 6 gennaio di quest’anno). Sicché trovandomi un giorno a Bologna, lontano per una volta dall’eccitazione dopata dei vernissage, e sperduto visitatore solitario nel freddo – letterale, per una volta – di quegli spazi così vasti, sono andato a vederla tutt’altro che ben disposto. La sorpresa un po’ arrossita, indotta da quella visita, mi ha fatto procurare il libro d’artista che, con lo stesso titolo della mostra (di cui non si può certo dire “catalogo”), è stato pubblicato con fasto grafico rimarchevole da NERO. E così, eccoci qua.
Il funzionamento della macchina libro (per proseguire la metafora manganelliana) lo spiega con la consueta lucidità lo stesso Pietroiusti, nella sua introduzione che è il primo tassello della “radice quadrata” estratta dall’insieme per Antinomie. Quello che non dice è come il sistema a sessantaquattro caselle trovi mise en abîme davvero araldica nella filiera “scacchistica”, che lo attraversa, del confronto a distanza col fantasma del padre (altro parallelo notevole, questo, con Nabokov…): dove il gioco della memoria, del risarcimento e della rivalsa «col morto», ha davvero qualcosa della violenza psichica evocata da Kasparov. È un esempio, ma solo il più ovvio, della singolare reversibilità che Un certo numero di cose, mostra e libro, opera dell’ispirazione “fredda” dell’autore: sino a toccare, all’altro estremo, vertici di coinvolgimento e denudamento che di rado si possono riscontrare fra gli artisti (e gli scrittori) di oggi.
Ha detto una volta Enrico Filippini che, a dispetto di tutta la retorica dell’astrazione e della menzogna di cui Manganelli invariabilmente faceva professione, gli pareva quello un autore «bello nudo»; e aveva proprio ragione. Non sempre certo, ma con singolare frequenza, le astrazioni intellettuali – altri direbbe “intellettualistiche” (mi piace che Pietroiusti volga al positivo, con mossa manganelliana, la qualifica di «cervellotico») – hanno la funzione di cauterizzare ferite personali che, affidate ad altre soluzioni stilistiche, darebbero nel patetismo più sguaiato. È il caso del senso d’inadeguatezza – sino alla vera e propria impostura – che, pressoché in ogni episodio, viene denunciata con perfida malignità autoironica. A più riprese Pietroiusti, proprio nel momento in cui a tutti gli effetti monumentalizza la propria opera (le «cose» della sua vita, che nei primi anni sono tranches de vie collezionate con feticismo à la Michele Mari, in seguito diventano i “lavori” – termine da lui sintomaticamente disamato – che scandiscono la sua “carriera”), non solo la commenta il più delle volte con sufficienza, ma in molti casi ne fa proprio pubblica abiura: in una sorta di spossessamento dell’opera (o dall’opera, piuttosto), di delega nevrotica che quell’opera ogni volta attribuisce all’autorità, per non dire all’autoritarismo, di coloro che via via indica quali suoi “veri” autori: come il compagno di scuola Carlo Valtorta, che disegnava tanto meglio di lui; per non parlare dei tirannici Sergio Lombardo, mentore-persecutore, e «Carolyn» (Christov-Bakargiev): talento critico (pre)potente, e super-io in outsourcing, che Pietroiusti a un certo punto ha voluto persino sposare.
Il tema del Buco nel muro – immagine di fallimento ben più dura del buco nell’acqua che a ciascuno di noi può capitare di fare: dando adito, come fa, al duchampiano cesso di un ignaro vicino – è, in termini di apologo esistenziale, di una sincerità lancinante: tanto più quanto, nel “gioco dell’autobiografia”, tutto è esatto proprio quando tutto è mentito. Ma è anche una chiave strutturale importante. Il titolo è una delle raffinatezze più prelibate: nella nostra lingua l’espressione «un certo numero» designa infatti, di norma, una quantità imprecisa di elementi; mentre in questo caso conta che il loro numero sia davvero certo. Che le caselle siano in numero di sessantaquattro era scacchisticamente vitale, s’è visto; ma in verità le «cose» hanno lo stesso numero degli anni passati in rassegna da questa struttura rigidamente annalistica, sessantatré. La sessantaquattresima casella – l’introduzione al libro, o la meta-mostra che sussume tutte le mostre, tutte le passate esibizioni di sé – è insieme una lacuna e un’eccedenza.
Commentando la Vera vita di Nabokov, diceva Manganelli che quel libro mirabile ruota «attorno a un punto vuoto, una assenza, un luogo mentale indefinibile». La vera vita è «perduta» (Proprietà perduta è il titolo – nell’83 ripreso da un libro di Franco Cordelli che celebrerà, non meno inattendibile, il Festival dei Poeti di Castelporziano: happening perpetrato con la complicità di Simone Carella, compianto spirito-guida condiviso anche da Pietroiusti – del capolavoro, ovviamente mancante, di Sebastian Knight: il “vero” scrittore, fra i due, che l’estensore della sua Vera vita, suo fratellastro, invidia con malcelata malignità) «perché nessun indizio porta al centro». Ogni autobiografia degna di questo nome, certo, è un Labirinto senza centro: Un certo numero di cose non fa eccezione perché la sua struttura fa perno proprio sulla casella vuota che sul piano si sposta a ogni lettura, così una volta di più riconfigurando la sua percorribilità. Come nel «vuoto al centro della ruota» che, nel Tao Tê Ching, «fa muovere il carro».
Un’altra opera di Pietroiusti – quella rubricata all’annata 2002 – ha per titolo Il giro della morte: espressione che designa, nel gergo dell’atletica, il “giro di pista” dei 400 metri piani, exploit estremo di velocità prolungata che, a titolo di «esercizio mentale» prima che fisico, l’artista affronta a 46 anni e mezzo con l’obiettivo, «dopo adeguato allenamento», «di migliorare il record mondiale per la sua categoria di età» (obiettivo che, con una delle lacune provvidenziali di cui è intessuta la narrazione, ignoriamo se sia stato conseguito). Ma è piuttosto un giro di vita, si capisce, quello innescato dal meccanismo del testo: che, a ogni “giro”, compie un sempre più spietato giro di vite. Ogni lettore è chiamato infatti a seguire, sulla scacchiera, i disegni che avverte più vicini alla sua sensibilità, o semplicemente alla sua storia: alle proprie frustrazioni e inadeguatezze: ai giochi coi suoi, di morti. Quel così imbarazzante buco nel muro è garanzia dell’abitabilità anche per altri, di questo castello di carte: come dice sempre il Tao, «in una casa s’aprono porte e finestre: / è sempre il vuoto / che la rende abitabile. / Le possibilità che l’essere dà / è il non essere che le rende utili».
E allora è un’altra la reversibilità vero obiettivo di Pietroiusti: non tanto quelle «fra racconto e oggetto materiale, fra autore e opera, fra scrittura e immagine» quanto, soprattutto, quella fra sé e gli altri. Fra il titolare dell’opera – che ha allestito la mostra, che ha composto il libro – e coloro che sono chiamati, da quel momento in poi, ad abitarla. È questo il muro che, per tutta una vita di “relazioni” e “partecipazioni”, ha tentato di bucare. Ora finalmente c’è riuscito.
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