«I paesaggi possono essere ingannevoli. A volte si direbbe che un paesaggio non sia tanto lo scenario della vita dei suoi abitanti quanto un sipario dietro il quale hanno luogo le loro lotte, le loro conquiste, le loro disgrazie»[1]. Queste frasi, l’incipit di Un uomo fortunato, di John Berger e Jean Mohr (appena uscito per Il Saggiatore a cura di Maria Nadotti), appaiono stampate su una foto in bianco e nero di un paesaggio: nel lato inferiore dell’immagine, un fiume scorre placido e luminoso. A screziare la superficie dell’acqua, due uomini su una barca, uno prepara la canna da pesca, l’altro rema. L’argine si specchia nel fiume. Dietro, un campo incolto pianeggiante alla cui estremità più lontana c’è una casa. Dietro, la sagoma scura di due colline e sopra, il cielo. La luce è pura.
Un uomo fortunato è la storia di John Sassall, un medico di campagna che lavora in una piccola comunità isolata nell’ovest dell’Inghilterra. Nel 1966, John Berger, scrittore, pittore e critico d’arte, e il suo amico Jean Mohr, fotografo documentarista, seguono da vicino, per tre mesi, il lavoro di Sassall. A due autori corrispondono due modi di vedere e dunque due racconti della stessa storia: da un lato le parole di Berger, dall’altro le immagini di Mohr. I racconti procedono paralleli, l’uno mai ancillare all’altro, ciascuno autonomo. In questo caso, come in pochi altri, le parole e le immagini, coesistono pacificamente sullo stesso piano: nello sguardo del lettore, non smettono di ritrovarsi e di completarsi.

Ci si incontra solo se si condivide un modo di guardare il mondo che afferma la reciprocità.
Davanti a un’immagine bisogna prestare attenzione alla luce. Per esempio: i pochi oggetti che Giorgio Morandi dipingeva sono lì a ostacolare la luce per catturarla in un momento in cui la consistenza si mostra così fragile, così impalpabile ma così aderente da risultare poetica. Promettono che non svaniranno.
Eppure anche noi, dietro i nostri sipari, facciamo continuamente esperienza della luce e se si presta attenzione, è possibile comprendere come le sue oscillazioni seguano sempre il nostro paesaggio emotivo: la tristezza cambia la temperatura della luce e dei colori tanto che le cose che ci circondano appaiano irrilevanti. È come se la luce smettesse di essere fedele a un’ora. O la gioia quando illumina i legami tra le cose e lo sguardo salta da qui a lì. Quando il cielo invade gli occhi e li riempie. Oppure quando il cielo è una cappa e tutto appare spento e uniforme. Quando l’angoscia prende il sopravvento e lo sguardo si sposta e si rivolge verso il dentro. Quando si è angosciati «è quasi una questione di luce – o meglio di come la mente interpreta la luce. È una luce che oggettiva tutto e non conferma nulla»[2]. È un gioco di intensità, di spazi e tempi.

Berger e Mohr sono attenti alle variazioni della luce, riconoscono gli occhi e attraverso di essi decifrano ogni segno, ogni espressione. Un uomo fortunato è un libro di luce, di occhi e di sguardi. Non solo quelli fotografati da Mohr, ma anche tutti quelli attraverso cui la storia si costruisce: lo sguardo attento degli autori, lo sguardo fraterno di Sassall offerto ai suoi pazienti, i loro occhi angustiati, occhi che chiedono, che chiamano, che pregano o si rasserenano quando il medico li riconosce, gioiscono quando il peggio passa. Il primo contatto avviene attraverso gli occhi. Non è un caso che John Sassall senta la vita proprio lì: «è lì che penso di vivere, proprio sotto e dietro gli occhi»[3].
John Berger e Jean Mohr conoscono e usano così precisamente lo sguardo che sono capaci di intercettare e comprendere, in sé e negli altri, ogni sua singola, impercettibile, variazione, e intuire le direzioni e le provenienze di ogni minima emissione di segni e raccontarla.
Chiunque riesca a comprendere e a guardare il mondo con questa cura, non solo promette che le cose non svaniranno, ma crede nell’incrollabilità dell’amore e nell’affermazione della vita e del possibile.
Berger e Mohr, insieme, studiano, documentano e raccontano l’operato del medico, gli incontri con i pazienti, le emergenze, le continue visite a domicilio in una casa, poi in un’altra; riescono a tratteggiare un ritratto nitido della vita di Sassall ma anche della piccola comunità e dei suoi rapporti interni; descrivono accuratamente il fuori e il dentro: i paesaggi geografici e i corrispondenti biografici ed emotivi. John Berger, attraverso il suo sguardo e le sue parole, comprende così a fondo quest’esperienza, all’apparenza così minuta e privata, da elevarla a un vero e proprio manifesto della medicina generale. Di più: Un uomo fortunato è un libro sulla dedizione, sulla passione per la vita e il lavoro; sulla responsabilità come principio cardine di ogni azione; sul riconoscimento e la capacità di immaginarsi e inventarsi l’un l’altro; è un libro sulle crisi a cui vanno incontro tutti coloro che interpretano il vivere in modo così radicale; è un libro sulla cura.

Un uomo fortunato viene pubblicato nel 1967. In italiano nel novembre 2022. Leggerlo oggi, stravolti da ciò che è accaduto nel frattempo, dona consistenza a livelli di riflessione ulteriori, già presenti come sintomi nel libro, al tempo stesso concatenati e, oggi, cancellati. Tutti i personaggi che leggiamo e vediamo ritratti sembrano stare dall’altra parte della storia, quella dei vinti. Difatti, sembra impensabile oggi intendere così non solo la medicina e il rapporto tra medico e paziente, non solo il diritto a essere curati con umanità e civiltà, ma sembra recisa anche la possibilità di pensarsi insieme, responsabili, solidali. Eppure lo stesso Berger ci ricorda che è sempre possibile scegliere da che parte stare: «il concetto di resistenza è fondamentalmente assai più importante della felicità»[4]. Berger e Mohr hanno scelto e l’umanità densa di cui ci regalano uno spaccato ci ricorda che la scelta, malgrado tutto, è ancora un’opzione, che il possibile è un rimedio all’asfissia. L’umanità di questo libro ci promette che non svanirà.

Ma resistere ha un costo. Chi resiste è sempre in disequilibrio.
John Sassall è un uomo che ha scelto di spendere la vita per gli altri, per il suo lavoro, per la ricerca, per il bisogno mai esausto di conoscenza; che è stato a contatto con la malattia e la sofferenza. Sa cos’è la morte, cos’è la guarigione, «diventa ogni paziente […] e lo “migliora” curandolo o quantomeno alleviando la sua sofferenza»[5]. Dal rapporto con la comunità a cui apparteneva emergono un rispetto e una tenerezza radicali, un’idea di servizio pura per il semplice motivo che «coloro che vivevano semplicemente, coloro che dipendevano da lui, possedevano qualità e il segreto di vivere che a lui mancavano. Perciò, pur avendo autorità su di loro, sentiva di essere a loro servizio»[6].
John Sassall sente il peso della responsabilità, verso gli altri, verso se stesso. «La sua fame di esperienza tiene il passo della sua immaginazione che non è stata repressa. Nella nostra società è la consapevolezza dell’impossibilità di soddisfare un siffatto appetito di nuove esperienze a uccidere l’immaginazione nella maggior parte delle persone che hanno superato i trent’anni»[7]. Berger lo paragona a un capitano di una nave: Sassall è continuamente in mare aperto. La nave è ciò che lo salva dall’inimmaginabile, è la piega in cui respira. Resistere è creare spazio in cui respirare e ogni nave, seppur impercettibilmente, ogni volta piega il mare. John Sassall è stato un uomo fortunato.
John Berger, Jean Mohr
Un uomo fortunato. Storia di un medico di campagna
A cura di Maria Nadotti
Il Saggiatore, 2022
pp. 208, € 22
[1] J. Berger, J. Mohr, Un uomo fortunato (1967), a cura di M. Nadotti, Il Saggiatore, Milano, 2022, p. 25;
[2] Ivi, pp. 148-149;
[3] Ivi, p. 68;
[4] Ivi, p. 162;
[5] Ivi, p. 96;
[6] Ivi, p. 72;
[7] Ivi, p. 97.