Flavio Favelli, la linea del sangue (Nulla dies sine imago # 1)

Inizia con Bologna la Rossa di Flavio Favelli, pubblicato lo scorso autunno da Corraini, una nuova serie di estratti da “libri d’artista” che alle immagini, come da tradizione ormai più che centenaria di questo glorioso “genere” editoriale, associno uno o più testi. Ma caratteristica sempre più frequente, da ultimo, è quella per cui l’artista stesso scrive le parole che accompagnano le sue immagini: anziché affidarsi – come, per lo più, in precedenza – a uno scrittore o a un critico, ovvero – così, il più delle volte, alle origini del format ideato da Ambroise Vollard agli albori del Novecento – alle parole di un classico della letteratura. Evidente il passaggio di statuto di siffatti organismi editoriali che prevedono, così, una sinergia molto più stretta e puntuale: tale da farli accedere, insomma, a un regime schiettamente iconotestuale. È evidente che, come nel caso di Favelli (il quale da un pezzo accompagna la sua attività d’artista con interventi di carattere saggistico, spesso polemici, pubblicati con regolarità da diverse testate), gli artisti che sperimentano questo tipo di composizione abbiano altresì una spiccata passione letteraria. Ma in questo caso specifico – come vedremo – quello della scrittura non è solo un “pallino” a parte subjecti, tanto meno un desultorio violon d’Ingres: ma inerisce, la materia documentaria, anche a parte objecti.    

In questi casi comunque, come in quello di Bologna la Rossa, quasi sempre il testo vira in direzione autobiografica; ovvero (come vedremo in una delle prossime uscite) in quella del “diario di bordo”: dove il viaggio è quello che le immagini testimoniano ma anche, certo, quello rappresentato dall’opera stessa. E di frequente il ritmo verbovisivo rispetta in effetti un andamento “diaristico”: dove il principio antico del nulla dies sine linea viene rispettato quasi alla lettera; solo aggiungendo appunto, alla linea verbale, l’imago che ne è il contraltare dialettico. In questo modo, fra l’altro, evitando le secche di un più o meno tradizionale, e più o meno bellettristico, compiacimento letterario: in questi casi infatti la scrittura si fa traccia organica, secrezione biologica delle immagini: come nell’archetipo del Libro mio del Pontormo.

Più che un diario comunque, lo si diceva, Bologna la Rossa è un’autobiografia. Distesa però – il che non può non essere decisivo, in un artista politico quale è sempre il suo autore – nella forma annalistica: dove la memoria dell’individuo, dunque, filogenetica ricapitola quella della collettività di cui egli, non senza risentimento, fa parte. E infatti il “rosso” della copertina, nonché dell’attributo tradizionale della città che lo ha visto crescere (ma da transappenninico meteco: e questo senso di costitutiva estraneità non sarà stato ininfluente, nel concrescere delle sue ambivalenti ossessioni “di luogo”), traduce allusivo la serie di episodi cruenti che hanno segnato infanzia, adolescenza e prima giovinezza dell’artista. Imagines agentes: etimologiche “rubriche” che, come da antica tradizione mnemotecnica, scandiscono il dantesco “libro della memoria”. Linee del sangue che, letteralmente, gli hanno aperto gli occhi («le immagini sono quasi più nitide con le tragedie e in fondo mi hanno fatto vedere meglio»).  

A innescare il cortocircuito che lo ha portato a questo libro non è stato però un evento “collettivo”, come quelli delle traumatiche foto d’epoca con sovrimpresse a posteriori le insegne “commerciali” che di Favelli sono ormai un vero e proprio marchio di fabbrica (ma, si badi, riprodotte a mano, con tentativa e sofferta grafia manuale: come nel primo Warhol che, si ricorderà, a sua volta ricalcava notizie traumatiche da icastiche prime pagine di giornali): bensì la questione privata dell’estinzione di un padre farnetico-poetante da sempre rinchiuso, come un paio di predecessori illustri, nella torre di famiglia di Via Guerrazzi. Padre che della mitobiografia di Flavio è da sempre l’attante primo: sempre meno segreto e finalmente, oggi, venuto in piena luce. È anche questa, si capisce, la linea del sangue che all’erede, volente o nolente, tocca proseguire.

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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