Nell’ottobre del 2020 ho pubblicato il mio primo romanzo. S’intitola Uccidi l’unicorno (Il Saggiatore) e racconta la storia di un insegnante d’arte di trentasette anni, appena diventato papà. La sua vita è riassunta in una notte spesa, a causa di un imprevisto, nel realizzare la presentazione per un imminente convegno. Mentre monta una slide dopo l’altra, e ricorda alcuni episodi che hanno determinato la scelta di occuparsi d’arte contemporanea, l’insegnante dedica un pensiero speciale alla scrittura.
A un certo punto, nell’analizzare il rapporto fra potere e burocrazia, l’insegnante ammette che il problema principale di scrivere d’arte sia l’autoreferenzialità. Ripensa alle sue esperienze da studente, alle recensioni di mostre e ai saggi per i cataloghi scritti e letti, alle spiegazioni tenute davanti alla sua classe. Discorsi abbastanza astratti. Discorsi abbastanza distanti dalla realtà. Ecco, si dice, il nodo sta proprio qui: il linguaggio astratto serve a rendere universale un concetto, a comunicare il numero maggiore di informazioni nel minor tempo e spazio possibili, ma di fatto questo linguaggio genera distanza, nasconde il significato, impone uno standard al pubblico. Anzi, il pubblico lo esclude del tutto. Nel non farsi comprendere e nell’escludere gli altri, chi si esprime con un linguaggio astratto preserva l’autorevolezza, la supremazia del proprio ruolo all’interno del sistema. Di conseguenza la scrittura d’arte che abbonda di astrazione, che si chiude e si nega, diventa un codice, il cosiddetto “critichese”, e cioè una sottile forma di potere. Allora l’insegnante, mentre compila le varie slide, decide di resettare questo squilibrio: da un lato con un registro più concreto e accessibile, che permetta di visualizzare i contenuti, di figurarli nella mente; dall’altro facendo in modo che l’opera d’arte non sia per forza la destinazione del discorso, bensì la sua origine. Un luogo privilegiato da cui partire per esplorare il mondo ed esplorare se stessi. Al fine di chiarire questo approccio letterario, che ho impiegato più volte all’interno di Uccidi l’unicorno, farò un breve esempio.
L’8 ottobre del 1972, in occasione dell’ultimo giorno di Documenta V, Joseph Beuys organizza un incontro di boxe per sostenere la democrazia diretta. Boxkampf für die direkte Demokratie è conservata al Museum für Moderne Kunst di Francoforte. Della perfomance rimangono le fotografie (scattate da Hans Albrecht Lusznat), alcune stampe e una teca con quattro guantoni, un caschetto e le corde del ring. È difficile scorgerla nei manuali di storia dell’arte e nelle monografie dedicate a Beuys – credo perché meno eclatante di azioni come 7000 querce (1982) o I Like America and America Likes Me (1974) – eppure Boxkampf può aiutarci a capire qualcosa in più del suo autore e delle possibilità offerte da una scrittura concreta, aperta all’esterno e all’esperienza. Una scrittura che ambisca a informare, descrivere e valutare ma – al contempo – si conceda la libertà di colmare i buchi lasciati dai documenti e dalla storia ufficiale, e che quindi possa prendere il largo.
Dicevo. Boxkampf. Al contrario di parte della produzione artistica e curatoriale di oggi, che spesso si serve della politica come pretesto, questa performance evidenzia quanto sia necessario trasformare l’arte in qualcosa di pratico, di vissuto, in qualcosa che inviti a maturare una personale visione delle cose: siete favorevoli o meno alla democrazia? Beuys spinge ogni intenzione, ogni gesto, ogni oggetto artistico verso l’impegno politico. Infatti nel 1967 istituisce il Partito studentesco tedesco, nel 1971 fonda l’Organizzazione per la democrazia diretta e nel 1973 la Free International University, e infine nel 1979 si candida con i Verdi alle elezioni per il Parlamento Europeo. E quindi credo che anche Boxkampf, pur essendo un episodio minore, rientri appieno nel noto concetto di “scultura sociale”. Tuttavia non sono lo sforzo organizzativo o l’originalità dell’evento a stupirmi; piuttosto, data la situazione geopolitica dell’epoca, che da lì a poco sfocia in una crisi energetica mondiale, mi interessa capire perché Beuys metta in scena un combattimento per promuovere la democrazia diretta – lui che la guerra la subisce davvero e nel 1943 si salva da un incidente aereo per miracolo. E dunque: perché proprio la boxe?
Fino a poco tempo fa, online era disponibile il filmato integrale dell’incontro. Purtroppo non l’ho scaricato e ora, per descriverlo, vado a memoria e mi appoggio alle fotografie. I riflettori si accendono. Attorno al ring le persone applaudono, si divertono. L’arbitro è al centro e agli angoli i due pugili sistemano i guantoni. A questo punto nella sala espositiva dovrebbe salire la tensione, quella tensione invisibile e silenziosa che precede ogni match sportivo. Lo so che si tratta di una performance, o meglio di una dimostrazione, siamo pur sempre dentro a un museo, e infatti Beuys ogni tanto sorride, scherza con il pubblico, ma a guardare bene alcune fotografie i suoi occhi dicono altro, la rigidità del suo corpo dice altro. Beuys è impreparato. Sa di aver perso ancora prima di combattere: in un mondo diviso dal Muro, non c’è posto per l’alternativa.
All’improvviso suona la campanella. Il primo round con Abraham David Christian (l’allievo che impersona un immaginario membro del governo) Beuys lo combatte con la guardia bassa e i jab indecisi. Spesso a entrambi viene da ridere perché i colpi sono accompagnati. E a me, per contrasto, torna in mente la prima volta che ho preso un pugno. È un lunedì del 2012 quando esordisco in un corso di boxe thailandese. Fate sparring, dice il coach. Un ragazzo molto più giovane, molto più agile di me fa breccia al primo tentativo. Piena faccia. Mi scuoto ma il naso pulsa, cambia forma, reagisce a ogni inalazione come per l’odore della trementina. Gli occhi lacrimano. Eppure non è questo a sconvolgermi, bensì la sensazione incontrovertibile che mi fa avvertire il pericolo. Pericolo fisico, intendo. Neanche il tempo di pensare e arrivano un secondo, un terzo pugno. Volto e costato. Ormai è chiaro: la barriera che mi permette di sgobbare e trascorrere una vita sicura al di fuori del ring, fra casa e ufficio, svanisce al minimo contatto coi guantoni. Mi accascio. Il mio giovane avversario abbassa la guardia, come a chiedere se va tutto bene, e la cosa mi ferisce ancor di più. Niente sembra in grado di farmi reagire; tanto meno di salvarmi. Per fortuna ci pensa il coach, che dice stop, tutti nello spogliatoio.
Suona ancora la campanella. Ritorno al video. Nel secondo round le cose fra Beuys e il suo allievo proseguono identiche. Lo stile è penoso. Gli attacchi vanno a vuoto. Ciononostante il tifo è tutto per il campione della democrazia diretta, mentre l’allievo continua a interpretare la parte della spalla o meglio del pungiball. Come dicevo poco fa, è vero che si tratta di una performance, di una partitura il cui esito è già scritto, però mi domando che cosa farei io in quella situazione. Vale a dire: se io fossi Christian, l’allievo di Beuys, continuerei a incassare colpi perché è previsto così? Che cosa implica il rapporto con un maestro?
Dal punto di vista etimologico, “allievo” è colui che viene allevato o ammaestrato; che vive una gerarchia precisa e insindacabile. Sicché questo basta a evidenziare che qualcosa funziona poco già alla base. Passo in rassegna le facce di maestri e professionisti incontrati lungo gli anni di scuola, e mi stupisce la quantità di sensazioni negative che si affollano nei ricordi. In effetti alla maggior parte di loro io ho sempre rotto il cazzo, forse perché avvertivo un reciproco disinteresse, centinaia di lezioni fatte per onore di firma, proprio come un obbligo, e addirittura alcuni, i peggiori, mi davano l’impressione di essere talmente frustrati da fare a gara con noi allievi. Ora, che a mia volta insegno in un’accademia, ho il sospetto di aver sbagliato per primo. Di aver frainteso molte cose. Purtroppo però è tardi per recriminare, per fare il punto della situazione, perché di nuovo suona la campanella. Terzo round. Anziché Beuys mi trovo davanti proprio loro, i miei maestri di scuola, uomini e donne coi guantoni che mi chiedono conto di quanto ho combinato o meno nella vita. Tante, troppe domande che mi fanno arretrare, mi spingono indietro, finché tocco l’angolo con la schiena. La folla incita e io capisco che è il momento di reagire, di liberare tutto ciò che sento dentro, questo gran rivoltone di sentimenti in un unico pugno, un jab destro perfetto. Stringo i denti. Tutto avviene in un secondo. Dopo l’attacco so di avere un’espressione sorpresa, quella che si ha di fronte alla verità: ho mancato il bersaglio. Il mio jab così pieno di desiderio è affondato nel vuoto. Neanche il tempo di chiudere la guardia che una mitragliata di pelle imbottita mi fa andare al tappeto. Perdo il fiato e i riflettori mi si spengono negli occhi.
Ps: Durante la sua vita Beuys si definisce per prima cosa un insegnante. Nel 1961 ottiene la cattedra di Scultura all’Accademia di Düsseldorf. Lì apre le sue lezioni a tutti, persino agli animali, finché nel 1972 viene licenziato per aver occupato la segreteria e contestato il Ministero delle Finanze.