L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin (1936) è un testo canonico del pensiero estetico del Novecento[2]. Il termine “canonico” stupirà chi considera Benjamin un eterno outsider, ma aveva ragione il suo amico Scholem quando scriveva che la prosa benjaminiana ha una “enorme idoneità alla canonizzazione”. E questo vale anche per la prosa di questo saggio. Il quale è venerato come il testo-paradigma della modernità estetica.
Ci interrogheremo quindi sul senso della ‘canonicità’ di questo testo, sul suo rapporto privilegiato con l’arte e l’estetica del Novecento. Ci chiederemo da una parte fino a che punto l’arte e l’estetica del Novecento fino a oggi si auto-interpretino in termini benjaminiani; dall’altra se questa interpretazione benjaminiana non manchi qualcosa di essenziale per capire l’estetica del Novecento stesso. Insomma, fino a che punto la teoria di Benjamin è una rappresentazione perspicua di quel che è stata l’arte moderna, al di là del modo in cui questa ha pensato se stessa? Quindi, prenderemo spunti dal saggio di Benjamin per chiederci che cosa dobbiamo considerare essenziale dell’arte detta moderna[3].
L’essenziale per Benjamin era il fatto che le nuove tecnologie di riproduzione – allora fotografia e cinema – condannassero a morte l’aura artistica. Il termine usato da Benjamian, “aura”, è latino: appartiene esso stesso, quindi, a una lingua aureolata. L’aura è ciò che avvolge le opere d’arte non riproducibili – soprattutto pitture e sculture – facendone oggetti di culto. L’opera d’arte classica, pre-industriale – che Benjamin chiama cultuale – esercita un’auctoritas particolare, di tenore sacrale, proprio in quanto è un oggetto unico, quindi autentico, uscito tal quale dalle mani del suo autore e che si offre come presenza hic et nunc. (Da notare che l’aura latina –letteralmente, il soffio d’aria – significava anche profumo, sussurro, speranza, desiderio, ma anche fama, favore popolare.)
Davvero le arti del Novecento hanno realizzato questa eliminazione dell’aura? La mia risposta sarà del tutto negativa.
Dalla lontananza alla vicinanza
Benché Benjamin sia stato profondamente influenzato dal misticismo, in questo saggio in sostanza egli esalta la fine di un’arte dominata dallo spirito religioso, e l’avvento di un’arte pervasa dallo spirito scientifico. Come nel progetto di teatro epico del suo amico Bertolt Brecht, il quale non a caso narrò la vita di Galileo: dare all’arte lo sguardo e l’etica della scienza[4].
Per Benjamin, le origini rituali e religiose dell’arte si prolungano nel culto museale del Capolavoro. L’unicità dell’opera crea una distanza reverenziale rispetto allo spettatore o ascoltatore; questa distanza che mette soggezione e assoggetta prosegue la lontananza ieratica di ogni divinità rispetto al suo veneratore. Secondo Benjamin, la possibilità invece di riprodurre in quantità industriali copie della stessa opera non solo avvicina l’opera al suo fruitore – la democratizza –, ma scioglie l’arte dalle sue origini magico-religiose per farne finalmente un momento della Politica. Mentre l’arte classica, imperniata sull’originale unico, invitava al rapimento e al raccoglimento, le opere fotografiche o cinematografiche invece vengono fruite nella diversione e nella distrazione, sono divertimenti in senso letterale, ovvero ci spingono verso ciò che è diverso e slitta via. L’arte moderna tecnicamente riproducibile riporterebbe le arti a quel che erano le epopee poetiche dell’Antichità e a quel che sempre è stata l’architettura: arti di fruizione pubblica, che annullano la distanza tra opera e spettatore-utente.

Stranamente per noi contemporanei, per Benjamin l’arte come Politica è congruente allo spirito scientifico moderno. Nel suo progetto di “teoria materialista dell’arte”[5] le due funzioni – politicità e scientificità – si sostengono a vicenda. Egli nota del resto che la politicizzazione dell’arte – che vede realizzata soprattutto dai cineasti sovietici – si oppone all’estetizzazione della politica promossa dal fascismo (probabilmente pensava a certi atteggiamenti epico-eroici di d’Annunzio o dei futuristi italiani, come alle messinscene fasciste e naziste). All’ideale della contemplazione estetica, oppone un’arte che non si separi dalla vita, che sia in continuità sia con l’agire collettivo che con l’osservare scientifico.
AGIRE (politico) et OSSERVARE (scientifico)
versus
CONTEMPLARE (estetico)
Questa visione di Benjamin – a un tempo constatazione storica, profezia e auspicio – ha affascinato le generazioni successive perché esprime una denuncia – che resterà canonica nel pensiero estetico del Novecento – del carattere feticistico dell’opera d’arte classica. Benjamin stesso usa spesso il termine feticismo come abiezione che l’arte dovrebbe superare[6]. Ora, il termine feticismo è termine della vecchia antropologia delle religioni. Charles De Brosses nel XVIII secolo etichettò come feticista il selvaggio che confonderebbe la divinità come essenza o idea o forza con l’oggetto concreto che dovrebbe rappresentarla. Il feticismo designava e designa tuttora il livello più basso e primitivo della religiosità. Ma nel pensiero anti-religioso successivo esso verrà proprio per questo considerato l’essenza e la verità di ogni religione, nel fondo sempre feticista[7].
Poi, il successo straordinario sia della critica marxiana del feticismo della merce[8] che della teoria freudiana del feticismo sessuale[9] (Freud 1927) rilancia questa critica storica del feticismo. Sia Marx che Freud sviluppano una analisi della seduzione da parte dell’oggetto artificiale, esaltando la benedetta naturalità del valore d’uso (Marx) e dei genitali femminili (Freud). Il feticcio è un Ersatz, un sostituto, del godimento dell’oggetto utile e della vagina. Su questa scia marx-freudiana – il feticcio come artefatto che maschera la verità fondamentale – l’estetica prevalente nel Novecento ha svalorizzato l’opera come oggetto, la quale in quanto oggetto non sarebbe altro che feticcio. L’aura è il marchio dell’opera come feticcio. E Benjamin è venerato come uno dei grandi critici della venerazione feticista delle opere d’arte. L’arte detta concettuale non farà altro che dare un assetto esplicito a questo progetto anti-feticistico. Come dice il nome stesso, quel che conta è il “concetto” che è all’origine dell’opera, non l’opera come oggetto materiale.
Questa consustanzialità tra aura e feticcio emerge in vari luoghi di Benjamin. Per lui l’aura non è solo un atteggiamento mentale rispetto alle opere: in certi casi ne parla come di un tratto stilistico. Parlando di ritratti fotografici dell’Ottocento, stigmatizza in essi “quella bella e significativa aureola, che a volte viene delimitata dalla forma, ormai passata di moda, dell’ovale”[10], arte tipica di una borghesia in ascesa in cui il soggetto ritratto “era avvolto da un’aura che si annidava fin dentro le pieghe della sua giacchetta o della lavallière”. Da notare: l’aura si annida nei vestiti del borghese, anzi nelle loro pieghe. La lavallière era un fiocco annodato e piegato in un certo modo, un oggetto sporgente. Insomma, l’autorità del borghese gli viene dal vestito, fa corpo col suo vestito, è feticista. L’aura è così anche una maniera di rappresentare che pare sublimare ed eternizzare il rappresentato, è il modo di connotarsi di un’opera come artistica, il suo declamarsi untuoso come “Estetica”.

Egli apprezza piuttosto un’arte che non si dichiari tale, che non si offra su un piatto d’argento come “bella” o “sublime”. Così esalta le foto di Atget, che ritrae luoghi parigini del tutto svuotati di esseri umani, e dice che queste immagini “risucchiano l’aura dalla realtà, come l’acqua pompata da una nave che affonda”[11]. (Da notare che oggi però le foto senza esseri umani sono tipiche della fotografia celebrativa delle opere architettoniche e delle città d’arte, appartengono ormai alla riproduzione d’arte più convenzionale.) L’immagine dell’affondamento della nave non ci lascia indifferenti. Indubbiamente Benjamin attribuisce all’aura un effetto malefico e catastrofico, direi titanico (dal Titanic), come se la realtà stessa rischiasse di affondare per sua colpa. Contro questo naufragio dovuto alla distanza e alla concentrazione (equivalenti estetici della religiosità e della magia), Benjamin cerca la salvezza della realtà nella vicinanza e nella diversione.
Distanza versus Vicinanza
Concentrazione versus Diversione
Allora, l’arte moderna ha davvero salvato la realtà-Titanic liberandola dell’aura come zavorra che la affonda? Davvero l’arte moderna nel suo insieme è stata anti-feticista come voleva Benjamin?
Avanguardie e Kitsch
Più di uno storico dell’arte ha contestato la “profezia” di Benjamin. Ad esempio, Daniel Arasse ha confutato la prospettiva di fondo di un “declino dell’aura” che caratterizzerebbe l’arte di oggi. L’organizzazione di musei, mostre, esposizioni, ecc., costituisce un valore di culto dell’opera d’arte contemporanea non meno che nel passato. Ad esempio, i tiraggi originali di fotografie di grandi fotografi hanno un prezzo di mercato (quindi, un valore) molto più alto delle copie successive. Per Arasse le folle che rendono difficile la visibilità delle opere in un’esposizione, i sistemi di sicurezza che creano una distanza invalicabile tra spettatore e opera esposta, ecc., tutto questo esprime l’evidenza che l’arte moderna non ha rinunciato affatto all’aura.
L’istanza culturale e politica promuove sistematicamente un culto dell’originale tale che le sue modalità organizzative, non diversamente dal rituale antico, suscitano una visibilità ancora minore rispetto al passato.[12]
Ancor più che nel passato, oggi sembra essersi costituita una religione dell’Arte – con i suoi rituali e santuari – a cui si sottomette rispettosamente anche “il laico”. Comunque le notazioni di Arasse, per quanto giuste, non colpiscono al cuore la proposta teorica di Benjamin. Le lunghe file di visitatori che aspettano di entrare in una mostra d’arte contemporanea di fatto sono élites. La stragrande maggioranza della gente, in Occidente, non va a nessuna esposizione d’arte. Ma Benjamin pensava piuttosto alle grandi masse estranee ai rituali di cui parla Arasse, a quelle che oggi consumano televisione, cinema, musica popolare, twitter, Facebook… I mass media sono la forma d’arte e spettacolo veramente specifica del mondo contemporaneo.
In effetti, Benjamin non ha visto quel che a me pare sia stata la caratteristica essenziale delle arti del Novecento: la frattura tra arte colta e arte di massa. Da una parte “l’arte contemporanea” (le avanguardie, il modernism come lo chiamano gli anglo-americani), dall’altra quella che con disprezzo le élites hanno chiamato il Kitsch di massa, le “opere commerciali”. Una frattura che invece era già stata perfettamente percepita – ed esaltata – nel 1925 da Ortega y Gasset nella Deshumanización del arte. Anzi, possiamo dire che la cosiddetta “arte contemporanea” si costituisca originariamente proprio come essenziale rottura con la cultura di massa.
Benjamin registra in verità questa frattura, ma ammette di stupirsene. Ad esempio, si chiede perché Chaplin piaccia tanto alle masse, mentre Picasso, invece, sia aborrito[13]. Eppure per lui Chaplin e Picasso andavano nella stessa direzione, quella di un’arte a vocazione politica che rompeva con l’aura. Egli stesso tenta una spiegazione di questa discrasia. Oggi sappiamo che i due filoni – l’arte delle élites e quella di massa – hanno proceduto paralleli, anche se con influenze e innesti reciproci. Quindi, provvisoriamente separeremo gli ambiti: ci interrogheremo prima sull’arte di élite, poi su quella di massa.
Passione per la prassi
Sull’arte delle élites Benjamin sembra aver visto giusto: il valore non è più nel prodotto finale, non nell’opera unica esposta al culto laico dell’Arte. Ma allora, che cosa ha valore nell’arte moderna?
Per Alain Badiou la specificità del Novecento è stata la sua “passione del Reale”[14]. Badiou pensa al Reale nel senso di Lacan, ma afferma qualcosa che anche il senso comune può cogliere: il Novecento, attraverso le varie rivoluzioni – politiche, artistiche, etiche, filosofiche, del costume, ecc. – ha voluto realizzare quel che prima era stato proposto come progetto, Utopia, profezia. La condanna benjaminiana dell’aura può essere letta come un aspetto di questa passione del Reale: l’aura nasce dall’isolamento dell’opera rispetto al contesto sociale, mentre nella modernità novecentesca l’opera è attiva, diventa protesi o molla politica della vita stessa. In effetti l’arte d’élite del Novecento ha rinunciato alla “buona rappresentazione” del mondo proprio per confrontare il pubblico a qualcosa di Reale. Ma in che cosa consiste questo Reale?
Secondo me, il Reale che contava per le élites artistiche del Novecento era la práxis.
Hannah Arendt ha riportato alla ribalta una differenza importante nella cultura greca antica: la differenza tra prassi (práxis) e produzione (póiesis)[15]. “La prassi non è produzione e la produzione non è prassi” (Aristotele, Eth. Nic., 1140a, 6-7). La prassi è l’azione in quanto non ha un fine fuori di sé, se non quello dell’agire bene (eupraxía), e solo il cittadino libero è veramente capace di prassi. L’attività politica del cittadino maschio e la ricerca filosofica della verità sono figure eminenti della práxis, in quanto sono attività che non vanno valutate per ciò che realizzano. La prassi tende al suo fine specifico che è in sé stessa, e che produce piacere e gloria. Il piacere di agire liberamente, la gloria dell’azione eticamente nobile.
La produzione, póiesis, invece, ha come scopo un certo risultato, vale a dire un prodotto distinto dall’attività che lo ha generato. Anche uno schiavo o una macchina possono produrre; quindi, chi produce, come l’artista o l’artigiano, svolge un’attività inferiore alla prassi. Non a caso il termine greco téchne come quello latino ars indicavano sia l’arte che la tecnica e l’artigianato, insomma attività produttive. Per gli Antichi, che si producessero statue, cibi, tragedie o macchine, sempre di “tecnica” si trattava. E non a caso Aristotele al suo libro sulla tragedia ha dato il titolo Poietiké, tradotto come Poetica; ma viene da póiesis, e andrebbe tradotto con Producibilità.
Col Rinascimento i termini “tecnica” e “arte” si separano definitivamente, perché allora la nozione di produzione viene valorizzata, e l’arte assume una dignità che non aveva per gli Antichi. Ora, mi sembra che gran parte dell’arte del Novecento modernista segni un ritorno alla dignità della práxis contro il feticismo “commerciale” della póiesis.
Nell’arte classica – che Duchamp chiamava “retinica” – il progetto di un’opera si dispiegava chiaramente nell’opera stessa per ogni spettatore che avesse un minimo di perspicacia e di cultura: tutto è esposto nel prodotto, tutto si vede sulla retina. Invece, per capire molti artisti moderni, è essenziale sapere come hanno operato. Per apprezzare le opere di Jackson Pollock, per esempio, è fondamentale sapere come egli le abbia prodotte; che, per esempio, egli metteva le tele per terra, che quindi il suo rapporto alla tela era simile a quello del giardiniere che innaffia il giardino, da qui gli sgocciolamenti, ecc. Il prodotto artistico sempre più è stato visto dalle avanguardie moderne come semplice traccia – in quanto tale inessenziale – della prassi dell’artista. Nella modernità conta la práxis in quanto essa esprime la vita unica dell’artista, di cui l’opera è solo traccia.
Da qui la forte vocazione iconoclasta del Novecento, sfociata poi nell’arte concettuale: l’importante non è la cosa prodotta dall’artista, ma è il processo mentale e creativo o il concetto che motiva l’artista e che (secondariamente) porta alla produzione dell’oggetto. L’oggetto – anche se è sublime – viene svalorizzato rispetto alle esigenze e al progetto che hanno portato a produrlo.
Gesta
“La poesia e la fogna, due problemi / mai disgiunti.”
Eugenio Montale, Dopo una fuga VI (Satura)
Per Aristotele sia la póiesis che la práxis hanno uno scopo (télos), solo che mentre la produzione ha un fine relativo, la prassi ha un fine assoluto. Il fine assoluto della prassi è agire bene. Ora, nell’arte contemporanea – ma, vedremo, anche nelle arti di massa – quel che dà valore all’evento artistico (non più opera) è una eupraxía, un agire bene. Per illustrarlo, evocherò due casi estremi.
Nel 1960 Piero Manzoni mise in vendita 90 scatole, di 30 grammi ciascuna, ermeticamente sigillate con l’etichetta “Merda d’artista”. La cosa creò scandalo nell’Italietta dell’epoca. Questo gesto ricorda l’altro gesto, più lontano, di Duchamp, quando nel 1917 espose un orinatoio. Non è un caso che proprio queste due provocazioni – di Duchamp e di Manzoni – siano restate paradigmatiche del modernism. È stata una costante, nell’arte contemporanea, l’esaltazione di oggetti umilissimi – come la scopa di Rauschenberg o gli stracci con statua di Venere di Pistoletto – ma le gesta di Duchamp e Manzoni restano esemplari perché fanno riferimento esplicito agli escrementi. Queste performances declamano esplicitamente “l’opera, in quanto oggetto, è merda”.

Merda e cesso sono il paradigma di quello che non ha alcun valore. I gesti retorici ed edificanti di Duchamp e Manzoni, in quanto offrono come ammirevole (ironicamente) ciò che per noi non ha alcun valore, ci dicono obliquamente quanto ciò che ammiriamo – l’opera nella sua unicità – sia di fatto privo di valore. Concetto che il pensiero estetico moderno ha espresso in molte forme.
Benjamin parla di feticismo, non di escremento. Ma il feticismo, come abbiamo visto, è dare valore mistico a ciò che non ne ha, è confondere l’oggetto – al limite, l’escremento, objet abject – con ciò che è al di là di esso e che gli dà valore, con qualcosa di cui l’oggetto è solo traccia. Sarebbe come confondere la traccia del piede sulla sabbia col piede reale stesso. A un polo abbiamo il prodotto fisico (che al limite è solo cacca e pipì), all’altro polo il vero valore che non produce nulla perché è pura práxis. Ora, quel che ha reso celebri i gesti di Duchamp e Manzoni evidentemente non sono gli oggetti esposti (anche se venduti oggi a peso d’oro) ma il gesto di osare di presentare pisciatoi o feci come opere d’arte. Gesto qui non come gestus, gesto del corpo, ma nel senso di res gestae, gesta, ovvero imprese, azioni.
Non meno celebre è una res gestae di Duchamp che è un po’ l’inverso dell’esposizione dell’orinatoio: mettere i baffi alla Gioconda. Nel primo caso l’artista innalza l’oggetto-di-nessun-valore al livello di feticcio artistico, nel secondo invece l’artista abbassa il culmine del feticismo artistico (quante opere al mondo hanno più aura della Gioconda?) al livello di un oggetto-di-nessun-valore che si può vandalicamente deturpare. Sublimando l’escrementizio o escrementizzando il sublime, Duchamp mette in atto la stessa práxis: è l’irrilevanza dell’oggetto “retinico” che viene denunciata. E quel che darà a Duchamp la gloria – come massimo inventore dell’arte contemporanea – sarà l’aver osato identificare sublime ed escremento.

È indubbio perciò che queste gesta hanno un’aura. “L’opera d’arte [dei dadaisti] era chiamata principalmente a soddisfare un’esigenza: quella di suscitare la pubblica indignazione”[16] scrive Benjamin nell’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Ma l’altra faccia dell’indignazione è l’ammirazione – che perdura oggi – per questa eupraxía anti-feticista. L’aura in questo caso non è dell’oggetto ma delle gesta, dell’evento costituito dal fatto che, a un certo punto della storia, qualcuno mette in atto quella esibizione. E si tratta ogni volta di un gesto unico che si può fare una volta sola. Forse solo in quell’anno e in quel contesto. Questo ribalta la tesi di Benjamin, secondo la quale l’arte cultuale si basava sull’hic et nunc: in realtà, l’arte classica si pretendeva fuori-contesto, atemporale, anacronistica. È la modernità piuttosto a esaltare l’hic et nunc – il kaíros, l’opportuna tempestività – in modo ben più radicale.
In quasi tutta l’arte contemporanea vediamo all’opera questo disprezzo profondo per l’opera come oggetto. Più di recente, il successo degli artisti graffitisti non risiede tanto nelle opere finite – spesso effimere – che costoro producono, ma nella loro práxis specifica: la sfida di dipingere su muri proibiti, la tenacia nel trasgredire certi divieti amministrativi. Certo ci sono graffiti più o meno riusciti, ma la loro “bellezza” è inscindibile dall’eupraxía che il graffitista mette in opera. Così, nell’arte contemporanea non si contempla più un oggetto: si partecipa a un evento.
Di solito, questo disdegno anti-feticistico assume la forma di un rigetto del “bell’oggetto”, ma non per sostituirvi un oggetto brutto o sublime, quanto per contrapporvi un non-oggetto, un non-feticcio. Da qui la vocazione distruttiva di molto modernismo, che evoca i riti amerindi del potlach. Marinetti voleva distruggere Venezia proprio perché bell’oggetto. Spesso degli artisti contemporanei vantano il voler distruggere tutte le loro opere. Jean Tinguely produsse delle macchine che si auto-distruggevano; ne distrusse una enorme, fallica, di fronte al Duomo di Milano.
La modernità tende a praticare due strategie che Badiou chiama distruttiva e sottrattiva. Entrambe sono procedure che chiamerei svanitive. Un vertice della strategia svanitiva fu raggiunto da Malevič, quando nel 1918 dipinse Quadrato bianco su fondo bianco (oggi al MOMA di New York). In musica è radicale l’opera di Anton Webern (“essa propone al silenzio ornamenti sublimi quanto impalpabili”, Badiou). Un altro salto nel vuoto fu compiuto da 4’33”, dai 4 minuti e 33 secondi di silenzio, di John Cage. Si può smaterializzare l’opera-feticcio distruggendo tutto ciò che è arte precedente o arte tout court, o anche sottraendo, affinando – questo porta all’assenza d’opera, al vuoto, al nulla. Ma c’è ancora un’altra strategia: confondere l’opera col reale. Rendere indistinguibile l’opera dagli oggetti bruti – come abbiamo visto con l’orinatoio di Duchamp. Per esempio, il collettivo Judson Dance Theatre eseguiva movimenti di danza indistinguibili da normali azioni quotidiane.
Ripeto, nel Novecento quel che conta non è più l’oggetto ma l’evento. Questo agire-bene ha come télos assoluto la smisurata libertà dell’artista moderno che egli getta in faccia al mondo. Questa libertà, che si esprime nel suo piacere per una prassi trasgressiva, può dargli la gloria.
Ora, Benjamin aveva capito questa specificità praxica dell’arte modernista che proprio alla sua epoca raggiungeva il suo apice? Non direi. In effetti, il primato della práxis rispetto alla póiesis non significa affatto la fine dell’aura, al contrario: ora l’aura emana dalla vita stessa dell’artista, che si esprime nelle gesta artistiche che lo vedono protagonista. Insomma, nelle arti contemporanee l’aura si sposta dal prodotto all’atto, dal risultato di una póiesis a una práxis vivente. La modernità non ha distrutto l’aura, l’ha spostata dagli oggetti alla vita artiste. Non è più, come nel dandysmo, vivere la propria vita come fosse un’opera d’arte, ma fare della propria vita – qualunque essa sia – opera d’arte.
L’aura del divo
Anche Benjamin sapeva bene che la venerazione feticista da parte del pubblico di massa si era spostata dall’oggetto – quadro, scultura, concerto – alle star del cinema. Ovvero, da opere inanimate a esseri viventi produttori o interpreti delle opere. Non a caso chiamiamo questi viventi o ex-viventi divi, hanno cioè una connotazione religiosa. Benjamin temeva che questo spostamento dell’aura in qualche modo confutasse la sua tesi su un’arte finalmente sottratta all’aura religiosa e divenuta strumento politico di massa. Così, da marxista qual vuole essere, risponde denunciando una strategia capitalista delle case di produzione cinematografiche:
Il cinema risponde al declino dell’aura costruendo artificiosamente la personality fuori dagli studi: il culto del divo, promosso dal capitale cinematografico, cerca di conservare quella magia della personalità che da tempo è ridotta alla magia fasulla propria del suo carattere di merce.[17]
Benjamin insomma fa ricorso a una ben nota teoria cospiratoria della Storia: il divismo sarebbe un colpo di coda di un capitalismo che vuol salvare il carattere magico e religioso dell’arte (e perché mai dovrebbe?) costruendo artificiosamente delle divinità da vendere nel mercato. Religione e capitalismo vengono considerati complici, come nella tesi marxiana del feticismo della merce: un’illusione religiosa sarebbe al fondo del capitalismo. Qui Benjamin non vede però che è stato proprio il capitalismo – moltiplicando industrialmente le riproduzioni di qualsiasi oggetto – a dissacrare l’unicità “teologica” del prodotto artistico.

Di fatto, lo sappiamo bene oggi, la riproducibilità tecnica non ha portato affatto alla politicizzazione dell’arte: ha portato piuttosto alla sua mercantilizzazione. Ad esempio, Pullega si chiede perché Benjamin, malgrado il suo interesse per le arti popolari (ad esempio, per la letteratura per bambini), non si riferisca mai alle opere pubblicitarie. E risponde giustamente che la pubblicità è arte dell’esponibilità per eccellenza e arte per le masse per eccellenza, ma la cui politicità implicita è difficilmente riferibile a un intrinseco carattere progressivo, ed ancor meno a un orientamento per il comunismo.[18]
Insomma, Benjamin non ha voluto vedere il destino mercantile dei nuovi media, pur avendo davanti a sé tutti gli elementi per vederlo. Evidentemente i suoi presupposti marxisti gli impedivano di vederlo.
Non la Politica, ma l’Economia – che è per essenza capitalista – è diventata il registro dominante della produzione estetica. Il capitalismo ha trionfato anche nell’arte, facendone industria della Comunicazione. Benjamin in verità paventava questa possibilità.
Comunque, l’adorazione dei divi non mi sembra effetto di una congiura capitalista: piuttosto l’industria dello spettacolo mercantilizza un bisogno collettivo di adorazione. Da sempre si tende a innalzare l’artista e l’attore a oggetti di culto. Già l’imperatore Carlo V si curvava per terra per raccogliere il pennello caduto dalle mani di Tiziano. Prima del cinema, attori del XVIII e XIX secolo come David Garrick o Frédérick Lemaître erano già delle star, per non parlare di cantanti – come il castrato Farinelli – nelle corti settecentesche, o compositori come Beethoven e Verdi. Certo all’epoca il culto era più ristretto perché l’accesso alle opere era più difficile, ma i culti divistici sono esistiti sempre, anche se in forme diverse da quelle di oggi.
Catastrofi ripetibili
Quanto all’arte delle élites, anch’essa illustra come sia proprio la riproducibilità a sostenere e promuovere il divismo con tutta la sua aura. L’opera cessa di essere esemplare unico, ma unico è il divo che produce i riproducibili.
Si pensi all’opus di Andy Warhol, figura paradigmatica dell’arte contemporanea. Questi lavorava con serigrafie, faceva centinaia di copie della stessa opera; ammirava de Chirico perché – diceva – aveva trascorso gran parte della vita a ripetere, con variazioni, gli stessi quadri metafisici, dato che si vendevano bene. Del resto, se da una parte Warhol tendeva a riprodurre iterativamente alcuni capolavori unici – di Raffaello, Leonardo, Paolo Uccello, ecc. – altre sue opere, all’inverso, danno un’aura di unicità a prodotti tipicamente seriali, come le scatole Campbell Soup, e ad altre immagini riprodotte a milioni di copie – le foto di Lenin, di Marilyn Monroe, ecc. Quando i divi chiedevano al divo Warhol un ritratto, lui ritraeva le loro foto tessera: trasformava in “opera” preziosa foto riproducibili a volontà. Da una parte il prodotto di massa a milioni di esemplari assurge via pop art alla dignità divina dell’Unicum; dall’altra l’opera firmata, irripetibile, del Grande Artista si risolve in una pletora di copie. Queste due strategie inverse hanno lo stesso senso.
Con Warhol tocchiamo vividamente una tensione massima, irrisolta, tra riproduzione illimitata e unicità irripetibile. Ma, a differenza di quel che pensava Benjamin, questa práxis non è né politica né scientifica: ripetibilità e irripetibilità, evento reale e riproduzione tipografica, fatto non-rappresentabile e iterazione rappresentativa, si scambiano le parti, senza risolversi in una direzione precisa. Da una parte Warhol fa trionfare la transustanziazione artistica sull’evento o sull’oggetto di consumo, dall’altra dissolve la nobiltà inimitabile dell’arte in oggetti moltiplicabili. Le res gestae di Warhol godono tutt’oggi di grande aura perché lui più di molti altri ci rende drammaticamente sensibile l’intersezione di due strade tra le quali l’arte moderna non si decide: da una parte quella della produzione industriale e del consumo di massa, dall’altra quella dell’opera che, trasfigurando l’oggetto ripetibile, si pone come evento glorioso e assoluto.
Insomma, l’unicità da una parte, e la riproduzione moltiplicativa dall’altra, nell’arte di oggi lungi dall’escludersi si coniugano. È questo quel che Benjamin aveva a suo modo pronosticato, o è proprio ciò che lui non aveva pronosticato?
Auctoritas
Ma che cosa rende così tempestiva, seducente, questa intersecazione tra unicità e replicatività in Warhol, per esempio? La risposta è: l’aura di Andy Warhol, dell’artista in quanto tale. Un’aura che si afferma come firma e logo e si risolve in molto aurum. Certo Warhol aveva talento, ma, in fondo, ci impressionano le sue opere perché sono illuminate dall’aura del loro autore: è ormai l’essere-nel-mondo praxico dell’artista quel che consumiamo. La vita dell’artista ci attrae perché egli vive in modo ostentatamente diverso, la sua práxis è inimitabile. L’aura emana dal godimento impareggiabile dell’artista e dalla gloria della sua prassi. I prodotti della sua póiesis possono essere riproducibili, essi sono comunque traccia di una práxis unica, dato che la vita singola non è riproducibile.
Nella modernità, insomma, il rapporto tra opera e artista tende a invertirsi. Prima (e anche oggi nel mondo della produzione artistica di massa), fama e prestigio dell’artista erano conseguenza dei suoi prodotti molto ammirati; oggi, sempre più, ammirare opere è un trascinamento della fama e del prestigio dell’artista. I dadaisti l’avevano del resto programmato: “Tutto ciò che fa l’artista è arte”. Ovvero non è più l’opera a dare valore all’artista, ma l’artista all’opera. E che cosa autorizza l’artista a porsi come tale e quindi a proporre come arte tutto ciò che fa, anche le proprie feci? La propria auctoritas che deriva dalla sua práxis, dalla sua vita d’artista.
Ed è su questo punto che le storie parallele delle arti del Novecento – da una parte le avanguardie, dall’altra il Kitsch di massa – in qualche modo confluiscono. Anche nelle arti di massa prevale un mondo di stars fatte di pura aura – come gli eroi dei reality shows. L’aura non si fonda tanto sull’opera quanto sulla popolarità stessa. È come se il divismo congiungesse finalmente le res gestae raffinate delle avanguardie e il Kitsch delle masse, costituendo quindi omogeneamente la nostra modernità nel suo insieme come epoca di culto delle vite godenti.
L’arte non è solo interpretazione simbolica, trasfigurazione immaginaria, “linguaggio”, ma evoca e mobilita il corpo vivente, rimanda all’esistenza biologica degli umani e delle cose. L’arte, insomma, tende al Reale, soprattutto al Reale della vita come zoé. Allora, quell’aura che Benjamin voleva eliminare va vista invece come la traccia del fatto che l’opera d’arte non si chiude mai completamente in sé stessa e nel suo consumo, ma ci mette in relazione con corpi viventi, con passioni extra-artistiche, con la vita e con la morte, con le nostre pulsioni sessuali, con grandi uomini e donne, ecc. L’arte tende a portarci fuori dai nostri sensi e dalla nostra mente, ci getta verso la vita e magari ci cambia la vita.
Nella sua personale al Guggenheim Museum di New York, Joseph Beuys espose una montagna di grasso nell’atrio. Inoltre c’erano vari suoi lavori che impiegavano il feltro. Beuys in questo caso si dette la briga di spiegarci perché: quando durante la Seconda Guerra Mondiale ebbe un incidente d’aereo in Crimea, venne tratto in salvo e curato da abitanti del luogo con impiastri di grasso animale, e quindi avvolto in coperte di feltro. Si tratta di materiali quindi che hanno un senso, privatissimo, solo per Beuys. Dopo tutto, l’artista poteva anche non dirci cosa significassero per lui quel grasso e quel feltro. Ma quelle opere sarebbero state ammirate lo stesso perché erano certo firmate da Beuys, ma soprattutto perché esse ci appaiono del tutto opache: rimandano all’irripetibilità di una vita, al senso unico che ogni essere umano ha per sé stesso. È come se l’arte svanitiva ci desse questo messaggio universale: che ogni vita non è un messaggio per nessuno.
E questo vale anche per la saggistica. In effetti, il saggio di Benjamin che condanna l’aura artistica è un saggio che da molto tempo gode di un’aura particolare. Ma appunto, aura dovuta al contenuto del saggio o a Benjamin stesso? Ritroviamo nella recezione di questo saggio – e dell’opera di Benjamin in generale – processi simili a quelli costitutivi della fortuna di Warhol, per esempio. Questo lo aveva già intuito Adorno, quando insisteva sulla “persona” di Benjamin come “veicolo della sua opera”:
Dietro molti scritti benjaminiani si celano esperienze personali, anzi personalissime, che proiettandosi sugli oggetti dei suoi lavori sono scomparse, oppure ne sono state completamente cifrate…[19]
In realtà, la “personalità” di Benjamin non solo si manifesta negli scritti, ma dà una specifica auctoritas alle sue opere. Questa auctoritas non deriva tanto dal contenuto dei suoi scritti – di cui spesso è inevitabile, oggi, vedere i limiti – quanto da un suo certo stile, dalle frasi brucianti, dalla sua “illeggibilità”[20], da un suo certo personalissimo clinamen dell’argomentazione – tutte cose insomma che fanno una scrittura Benjamin – qualcosa di unico, di non riproducibile. Al limite, non è importante che Benjamin dica delle verità, importa che scriva in modo benjaminiano.
La Salvezza tecnologica
Certo anche il contenuto di questo saggio sull’opera d’arte gli ha dato aura. Una delle ragioni della sua fortuna è la sua essenziale fiducia sul potenziale democratico dei nuovi media. Secondo Benjamin le nuove tecnologie avrebbero fatto cadere la barriera tra autore e pubblico, chiunque avrebbe potuto far parte di un film o fare un film, come del resto già in letteratura, “il lettore è sempre pronto a diventare autore”[21]. Oggi questo pare realizzarsi in modo radicale – chiunque ormai fotografa, filma, pubblica su internet, crea propri siti, contribuisce a Wikipedia, ecc. Ma Benjamin sarebbe stato contento di tutto ciò?
Dal futurismo in poi, ogni nuova invenzione tecnica ha portato a entusiastici Annunci della Buona Novella libertaria. Così fu negli anni Settanta quando vennero liberalizzate le onde radio-televisive in Italia, e dopo che esplose l’uso di massa di internet. Ciclicamente, dal saggio di Benjamin in poi, si inneggia alla Rivoluzione promossa dalla più recente tecnologia, che renderebbe finalmente possibile alla massa il poter produrre opere.
Eppure puntualmente accade che, ben presto, pochi operatori assumono il controllo della produzione di massa. Oggi, forse, oltre il 90% degli spettatori o ascoltatori o lettori vede o legge meno dell’1% di quello che si produce in ogni campo. Tutti ormai nel mondo vediamo, ascoltiamo e leggiamo poche cose – per lo più anglo-americane – prodotte da un oligopolio produttivo. Questo accade perché oggi l’attenzione delle masse è polarizzata da poche grandi imprese, e in particolare da alcune vite gloriose.
Questo, del resto, avrebbe dovuto esser chiaro da quando la stampa realizzò già la riproducibilità tecnica della scrittura. Siamo convinti che l’invenzione della stampa abbia radicalmente trasformato il modo di fare letteratura. Eppure, non riusciamo veramente mai a determinare come e in qual misura una nuova tecnologia abbia trasformato un genere. Ad esempio, le differenze che esistono tra Petrarca o Boccaccio da una parte (prima di Gutenberg) e Torquato Tasso o Shakespeare dall’altra (dopo Gutenberg), sono dovute all’invenzione della stampa? Può darsi, ma in quale modo?
In realtà, i rapporti storici di causa ed effetto non sono mai lineari e determinabili. Quindi, nemmeno gli effetti delle tecnologie. Non siamo in grado di dire se una certa innovazione estetica è prodotto diretto di un’innovazione tecnologica, o se molti altri fattori l’hanno prodotta.
Quando si propaga un’invenzione tecnica allo stesso tempo, nel mondo, accadono tante altre cose importanti. Oltre all’invenzione della stampa, tra XV e XVI secolo sono avvenute altre cose fondamentali: la scoperta dell’America e le colonizzazioni da parte dei nuovi imperi marinari, la Riforma e la Controriforma, la crisi dell’aristotelismo e il neo-platonismo, l’affermarsi dell’Umanesimo, ecc. Come e in qual misura tutte queste innovazioni, oltre la stampa, hanno influito sull’arte e la letteratura in quell’epoca?
Oggi, in verità, i benjaminiani tendono a dare una lettura pessimista e non più ottimista delle tecnologie. Una valanga di articoli e saggi ripete questo: la televisione, lungi dal rappresentare fedelmente il mondo che ci circonda, ci dà piuttosto un’”immagine televisiva” del mondo, manipola e produce in funzione televisiva i fatti. Anche se questa tesi sul dominio della Visione Televisiva del Mondo assume toni molto critici, essa comunque si basa sull’assunto benjaminiano secondo cui la televisione in sé, come strumento tecnico, conterrebbe una Weltanschauung, una visione del mondo. Penso invece che le cose siano di gran lunga più complicate.
In realtà, le televisioni sono puntelli formidabili di visioni e regimi del tutto diversi: del comunismo, del liberalismo, dell’Islam, del nazionalismo, ecc. Abbiamo visto che l’ISIS usava in modo raffinato le tecnologie audio-visive più moderne per promuovere, e con successo, una visione assolutamente retrograda della religione e della storia. Chi fa un colpo di stato, la prima cosa che occupa sono gli studi televisivi del paese. Non credo che la televisione imponga alle masse una Sua pretesa visione delle cose: sono certe visioni delle cose ad affermarsi in modo capillare grazie all’intrusività televisiva. In questo la televisione non differisce radicalmente da mosaici, affreschi e sculture delle cattedrali medievali, grandiose promotrici della visione cristiana del mondo all’epoca. La differenza sta nel fatto che allora le plebi dovevano andare in chiesa per essere ammaestrate, mentre oggi la televisione ammaestrante entra direttamente nelle case di ciascuno, l’impatto della visione del mondo dominante è insomma molto più capillare. Ma possiamo dire che le tecniche del mosaico, dell’affresco e della scultura portassero intrinsecamente alla visione cristiana medievale del mondo? Sarebbe alquanto assurdo sostenerlo.
Gli antichi greci sapevano perfettamente utilizzare la forza motrice del vapore; ma all’epoca se ne servirono per costruire bellissime fontane e giochetti stupefacenti. Mentre quando la forza del vapore fu riscoperta nel Settecento, in tutt’altro contesto, ha portato al suo uso industriale, al treno, ecc.
Questa credenza negli effetti lineari della tecnica nasce da un presupposto in senso lato marxista, secondo cui anche in arte la struttura determina la sovrastruttura, e in arte la struttura materiale sarebbero le tecniche di produzione e riproduzione. Credo invece che le sovrastrutture artistiche siano non meno determinanti delle strutture.
All’epoca delle cattedrali la sovrastruttura-chiave era la visione religiosa. Oggi, l’idea-chiave che predomina nei media e nelle opere che magnetizzano le masse è il culto planetario delle Vite immerse nel piacere e nella gloria. Queste Vite sono gloriose perché illustrano delle praxes speciali.
Il paradosso quindi è che l’amplificazione immensa della riproducibilità tecnica, lungi dal distruggere il culto dell’unicum, ha fatto trionfare il culto per un altro unicum, quello della vita gloriosa. Siamo passati dal culto feticistico delle opere al culto delle personalità. Al posto di Hitler e Stalin, oggi ci sono Lady Gaga e Justin Bieber.
Certo le nuove tecnologie propongono strade nuove, ma è la storia, in fin dei conti, che dispone. Non credo che una tecnologia porti in sé, necessariamente, a una determinata poetica, e certamente non vi porta in modo lineare. Le nuove tecnologie aprono delle possibilità tra cui poi le società opereranno le loro scelte. Anche scelte che alle élites colte non piaceranno affatto.
[1] Il testo qui presentato è stato pubblicato in francese, col titolo Le réel à l’époque de la reproductibilité technique. Notes en marge de Walter Benjamin, in «Ligeia», juillet-décembre 2010, 101-104, pp. 35-44.
[2] Prima pubblicazione in “Zeitschrift für Sozialforschung”, edita a Parigi da Adorno, Horkheimer, Marcuse e Benjamin stesso. Più tardi, questa versione è stata attaccata violentemente come “censoria” da Rosemarie Heise per alcune manipolazioni del testo da parte di Horkheimer, in particolare per l’eliminazione della “Premessa” al saggio (cfr. “Carte segrete”, 9, gennaio-marzo 1969, pp. 23-37). Il saggio ha avuto cinque stesure, che sono state tutte tradotte a cura di Fabrizio Desideri e Marina Montanelli in: WB, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Roma, Donzelli, 2019. Mi riferirò alla quinta stesura del saggio di Benjamin nelle mie citazioni, che indicherò con: Desideri-Montanelli, Quinta stesura.
[3] Proseguo qui una ricerca sviluppata in Réfléxions de la modernité, in «Ligeia», 3‑4, octobre 1988‑mars 1989, pp. 89‑105. Vedi anche La modernità e il reale.
[4] In Italia Cesare Cases, nella prefazione all’antologia italiana intitolata L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Torino, Einaudi, 1966)presentò questo saggio e altri di Benjamin sull’arte come più brechtiani che marxisti.
[5] Come nella lettera ad Horkheimer dell’ottobre 1935, in Walter Benjamin, Lettere 1913-1940, Torino, Einaudi, 1978, p. 311.
[6] Ho analizzato il concetto di feticismo in arte, attraverso Barthes, in Estetica e feticismo. Barthes e l’immagine, in “Agalma”, 16, settembre 2008, pp. 18-33.
[7] Cfr. Mario Perniola, Il sex appeal dell’inorganico, Torino, Einaudi, 1994, pp. 67-81.
[8] Il capitale, l. I, sezione 1a, cap. 1, IV, “Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano”.
[9] Cfr. Sigmund Freud, Feticismo, in Id., Opere, vol. 10, pp. 491-497 (Fetischismus, GW, 14, pp. 309-317). Per Freud il feticista è attratto dal feticcio (ad esempio, dalla scarpa femminile) perché questo rappresenta per lui un pene della donna. Il feticista vive una scissione (Spaltung): da una parte sa che le donne sono prive di pene, dall’altra per desiderare le donne esige che costoro abbiano un pene. Non si contano i saggi che mettono in relazione questa tesi di Freud con la teoria marxiana del feticismo della merce, la relazione è ormai quasi un luogo comune del pensiero marx-freudiano moderno. Il Novecento – a cominciare da Benjamin – ha scommesso sulla convergenza essenziale tra Marx e Freud. Cfr. Paul-Laurent Assoun, Le fétichisme, Paris, Presses Universitaires de France, 20063.
[10] Walter Benjamin, Kleine Geschichte der Photographie, in „Die literarische Welt“, 1931; poi in Id., Gesammelte Schriften, Band II-1, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 1972, pp. 368-385; Piccola storia della fotografia, in Id., L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1966, pp. 57-78: 68.
[11] Ivi, p. 70.
[12] Daniel Arasse, L’ange spectateur. La Madone Sixtine et Walter Benjamin, in Id., Les visions de Raphaël, Paris, Levi, 2003, p. 127.
[13] Desideri-Montanelli, Quinta stesura, p. 164.
[14] Cfr. Alain Badiou, Il secolo [2005], Milano, Feltrinelli, 2006.
[15] Cfr. Hannah Arendt, The Human Condition, Chicago, University of Chicago Press, 1958; Vita activa, Milano, Bompiani, 1964.
[16] Desideri-Montanelli, Quinta stesura, p. 170.
[17] Desideri-Montanelli, Quinta stesura, p. 160.
[18] Paolo Pullega, Nota 1991, in Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproduciblità tecnica, Torino, Einaudi, 1991, p. 178.
[19] Gershom Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, Milano, Adelphi, 1978, p. 15.
[20] Bruno Tackels, Petite introduction à Walter Benjamin, Paris, L’Harmattan, 2001.
[21] Desideri-Montanelli, Quinta stesura, p. 161.