L’immagine (pittorica) alla seconda. ‘Screen Life’ di Flavio de Marco

29/04/2021

La pittura di Flavio de Marco, sviluppatasi nell’arco di oltre 20 anni per mutazioni continue, mantiene alla propria base un presupposto costante che la motiva e la vivifica rendendola per cosí dire necessaria. E quel presupposto – che si attesta sul livello di una vera e propria lettura filosofica del mondo in cui viviamo – si offre al pittore e ai suoi fruitori come motivo sufficiente a garantire la validità di un atto linguistico, confermandone la non occasionalità e la non frivolezza. Quel che ha contraddistinto per secoli la condizione di “urgenza” dell’arte è ciò che chiamiamo una motivazione autentica del­l’atto creativo artistico, che fondi una parallela e identica motivazione in chi di arte si nutre: la spinta alla contemplazione dell’opera, la ragione dell’importanza dell’esperienza estetica, contro la tendenza al soffocamento della medesima nella vita economica. Ora, sfogliando il magnifico nuovo “catalogo” dei dipinti di Flavio de Marco (Screen Life 2019-1999, autoedizione 2020) si coglie quasi a prima vista in cosa consista quel presupposto costante. E si comprende come esso sia da un lato metalinguistico – poiché implica un’indagine a tutto campo delle ragioni (anche di sopravvivenza) della pittura stessa – e dall’altro socio-an­tro­pologico, dato che mette in luce il funzionamento e il ruolo delle immagini nel pensiero (nella costruzione del pensiero) dell’uomo del XXI secolo.

Il motivo di fondo dell’idea di de Marco, quello intorno a cui la sua pittura scava, è che le immagini abbiano ormai perduto, all’altezza della nostra epoca, ogni capacità (e prima ancora ogni ambizione) di creare conoscenza veritiera del mondo. Infatti, ciò che aveva permesso di considerarle linguaggio – fin dall’epoca di Piero della Francesca, benché il termine linguaggio non sia stato a loro attribuito se non a partire dalla semiotica peirciana – è proprio la persuasione della loro capacità di darsi come contributo gnoseologico, come valido strumento in chiave di conoscenza e di indagine sulla realtà. Il concetto pierfrancescano di rappresentazione prospettica conteneva come un nocciolo prezioso (anche se magari ben protetto e dunque abbastanza nascosto) proprio quella prerogativa filosofica che secondo Foucault è alla base della modernità occidentale: l’idea che il mondo sia conoscibile per mezzo del linguaggio e che il linguaggio sia costruzione di conoscenze intorno al mondo. Si potrebbe dire che se Velázquez (sempre secondo Foucault: Les Mots et les Choses, 1966) ha tentato per primo un’analisi del metodo rappresentazionale della pittura – dunque dell’immagine tout court – ponendo in chiaro, in un’opera di pittura, il meccanismo conoscitivo della pittura stessa (Las Meninas, 1656), è tuttavia solo con l’avvento della fotografia, due secoli piú tardi, che l’utopia di una conoscenza esatta, ovvero di una rappresentazione totale, a mezzo delle immagini (anche se non piú pittoriche) sembra giungere vicino al limite della propria realizzazione. Ma la fotografia, che ha comunque sottratto alla pittura l’antica pretesa rappresentazionale, è tuttavia alle origini di quella progressiva implementazione dell’onnipresenza delle immagini, di quella loro invasività, di quella ipertrofica sovraccumulazione dei loro effetti che caratterizza la comunicazione nel nostro mondo, e che – secondo la tesi di de Marco – non solo rende l’im­magine incapace ormai di “rappresentare” qualsiasi realtà, ma finisce addirittura per allontanare dall’occhio dell’osservatore la realtà stessa rendendola pressoché invisibile.

Paesaggio, 2002, acrilico su tela, cm 140 x 100. Collezione privata

L’immagine (divenuta fotografico-elettronica e fruita sullo schermo del computer) –nella pletora terrificante delle sue manifestazioni onnipresenti e iper-pervasive, dal video-gioco alla macrosfera della pubblicità commerciale, dalla completa virtualizzazione del­l’esperienza sessuale alla mise-en-abîme della riproduzione dell’immagine dell’im­ma­gine – si è rivelata il piú potente strumento di alienazione che ci si potesse attendere da una qualsiasi forma di linguaggio (ossia di comunicazione sociale). Tale “surrealtà” (sovra-realtà) dell’immagine occupa quasi per intero l’area dell’immagi­nario collettivo e domina la nostra vita allontanandoci incessantemente dalla realtà che finge di restituirci, perché alla realtà si sostituisce con l’atto stesso con cui pretende di dominarla e di renderla disponibile.

In un contesto culturale come quello prodotto dalla estrema ridondanza delle immagini, in cui il mondo reale continuamente si sottrae alla propria visibilità – non banalmente percettiva ma psicologico-emotiva – scegliere la realtà come modello per opere d’arte è probabilmente un gesto impossibile da compiere. O meglio, se lo si fa, si rischia di continuo di cadere in un’illusione che tosto si riversa in una mistificazione. È in fondo ciò che avevano già ben compreso i grandi pittori dell’assenza del secolo scorso, da Matisse a Malevic, da Mondrian e Kandinskij agli astrattisti americani del dopoguerra. La Pop Art negli anni Sessanta tentò la via di rappresentare non il mondo in quanto tale ma la sua immagine prodotta dai linguaggi pubblicitari del consumismo imperante. E in Italia l’Arte Povera si ripropose, poco dopo, di inserire nell’opera natura e realtà effettive per mezzo di una abolizione fatale, ossia accantonando il sistema linguistico della rappresentazione e utilizzando frammenti di mondo “vivente” (ready-made) da aggregare all’opera o da trasformare in opera, con un atto di prelievo diretto che tuttavia finiva per abolire anche l’immagine.

Mimesi.00, 2004, acrilico su tela e su muro, cm 230 x 600 e 230 x 400. Bologna, Collezione privata

L’idea di Flavio de Marco è che non sia necessario rinunciare alla rappresentazione (e quindi all’immagine nella sua qualità di evento linguistico conoscitivo) anche dopo aver acquisito la piena consapevolezza che l’immagine non può piú rimandare in modo diretto alla realtà o a ciò che ad essa strettamente attiene. Il problema da porsi, una volta che si cerchi di ritrovare la rappresentazione – ed è esattamente il problema che si è posto de Marco fin dal principio – è quello del modello. La rappresentazione esige il modello, vale a dire qualcosa che si ponga prima dell’immagine (o davanti ad essa) come un dato visibile a cui l’immagine possa rispondere visivamente. In linea di principio il modello è pre-estetico e pre-artistico, anche se in qualche modo viene assorbito nell’opera d’arte (artializzato, secondo la brillante nozione introdotta da Alain Roger nel suo Court traité du paysage, 1997) nel momento in cui viene “scelto” quale referente dell’opera. Nella tradizione classica della pittura, il modello poteva essere anche solo mentale (un ricordo della realtà vista, una sua ricostruzione, una traduzione di descrizioni verbali come quelle delle scritture religiose o delle scritture mitologiche) ma in qualche misura il modello era sempre per cosí dire irrinunciabile. E lo è divenuto in modo ancor piú clamoroso dopo l’avvento della fotografia, nella seconda metà del XIX secolo, con l’ossessione della pittura da eseguirsi sur le motif (o, se di paesaggio, en plein air) che ha completamente stregato tutti gli artisti di quell’epoca. La soluzione adottata da de Marco è quella di cercare allora un possibile modello dove esso c’è ed è evidente. Data la sostanziale invisibilità psicologica della sfera della realtà, e dato che tale invisibilità è conseguenza dell’ipertrofia delle immagini, il modello scelto da de Marco è esattamente l’immagine stessa in quanto sustrato (e proliferazione) di immagini che costituisce il nostro panorama visivo abituale. Dipingere a partire da quel modello – nei limiti e secondo le strategie in cui è possibile farlo – significa per il nostro artista accettare una sfida estrema, che poi è anche quella di ridare alla pittura tutto il senso di una sfida, un po’ come i pittori del Rinascimento si erano posti la sfida di dipingere la verità visiva del reale e come Claude Monet si era posto la sfida di dipingere soggetti impossibili (la nebbia, il trascolorare della luce, l’acqua sopra tutto). Senza sfide, e senza l’entusiasmo che esse recano con sé, non si dà vera arte ma solo mestiere, ripetizione e routine.

Paesaggio con veduta (Roma I), 2010, acrilico e stampa digitale su tela. cm 180 x 289. Reggio Emilia, Collezione Maramotti

Il libro da cui trae occasione questo mio scritto mostra l’intera “evoluzione del modello” nella pittura di Flavio de Marco. È evidente che l’artista, per poter dipingere, ha bisogno di sapere cosa dipingere, e ciò proprio nel senso classico – e apparentemente oggi ingenuo – per cui un pittore del Seicento poteva scegliere di dipingere interni borghesi, o ritratti oppure paesaggi, o nature morte o qualsiasi altro soggetto. In sostanza, secondo la logica fatta propria da de Marco fin dai primissimi anni del nuovo secolo, la pittura (in quanto immagine) chiede un soggetto da mostrare. All’inizio (ossia alla fine del libro, visto che esso procede a ritroso nel tempo) il modello appare l’ossatura del monitor del computer, cosí come essa si articola in base all’interfaccia chiamata Windows. In quelle opere – inizialmente piú semplici e bidimensionali, poi rese piú complesse da scarti in aggetto e giochi tra quadro e muro – domina la geometria ortogonale di una nuova manifestazione dell’antica finestra albertiana (“window” viene infatti dichiarato il monitor dell’elabo­ratore elettronico) la quale tuttavia non si apre piú sul mondo – come appunto nella teoria del De pictura (1435) – bensí su uno spazio virtuale che del mondo si fa riproduzione virtuale, fantasma o feticcio. E nei dipinti di questa prima fase, fino al 2005-2006, l’immagine è immagine del monitor stesso, smontata e rimontata secondo una logica che coniuga la fantasia delle potenziali figure dell’interfaccia grafica con la grammatica e la sintassi pittoriche dell’astrattismo novecentesco.

Souvenir Schifanoia (maggio e marzo), 2007, acrilici e stampe digitali su tela. cm 152 x 106 cad.
USA, Cress Collection e Oslo, Collezione privata

Scorriamo le pagine del libro, sempre a ritroso, ed ecco che da un certo momento in poi, accanto alle metafore scheletriche dei quadri-finestra, ricompaiono immagini che alludono ad altre immagini, che rielaborano altre immagini. Nel ciclo Souvenir Schifanoia (2007) le arcaiche e quasi sacrali (anche se non religiose) pitture di Francesco del Cossa e dei suoi allievi (1469-70) – già per loro conto infinestrate nei riquadri-varchi del ferrarese Salone dei Mesi – fungono da modello per i dipinti ugualmente murali di de Marco. Essi le rielaborano secondo scelte formali che le riducono a frammenti e lacerti di una memoria visiva correlata a un altro mondo, a un mondo perduto e lontano, nel quale l’imma­gine era ancora qualcosa che oggi non può piú essere. E la dialettica stretta in cui entrano quei frammenti ed allusioni (quelle evocazioni parziali e lacerate) con i persistenti richiami a elementi che rimandano ai monitor e alle immagini elettroniche, virtualizza ogni pretesa rappresentazionale classica ribadendo che si può rappresentare solo la rappresentazione.

Tutto il lavoro pittorico di Flavio de Marco è posto all’insegna del “paesaggio”, come recitano, del resto, in modo pressoché ossessivo i titoli delle sue opere. Ma i suoi paesaggi rimandano sempre e soltanto all’unica dimensione paesistica che ci è data di vivere, che è quella di un mondo fatto di immagini. I paesaggi urbani del 2009-10 (rimodellati su visioni di ascendenza pubblicitaria, e fortemente straniati in direzione tecnologica, delle città in cui l’artista aveva fino a quel momento vissuto) preannunciano, insieme alla frequentazione sempre piú assidua di dipinti del passato, la vasta impresa affrontata con il ciclo Stella, che fu esposto in tre memorabili mostre (tra il 2013 e il 2014) a Berlino (Künstlerhaus Bethanien), Amsterdam (Frankendael Foundation) e Roma (Galleria Nazionale d’Arte Moderna). In sostanza i paesaggi che De Marco pone al centro dei suoi dipinti sono il risultato di un ripensamento in chiave pittorica delle edulcorate immagini di paesaggio che il delirio tecnocratico iper-visivo offre all’uomo di massa odierno, dove il filtro falsificante che produce tali immagini è sottoposto alla prova di un filtro ulteriore, quello delle ambizioni antiche della pittura, le quali implicano tutta una virulenza materico-espressiva contrastante con l’inconsistenza e l’immaterialità dell’immagine elettronica.

Paesaggio (Isola di Stella), 2012, acrilico e pittura a spray su tela, cm 63 x 90. Collezione privata

Quasi alla ricerca di un’ineffabile relazione tra la pennellata di Tiziano o di Courbet o di Seurat e la patina incantatrice delle fotografie da agenzia pubblicitaria in versione internet, Flavio ha comunque deciso che in Stella il modello poteva (forse doveva) essere virtualizzato ulteriormente. A suo tempo Claude Monet, instancabile esploratore di paesaggi d’acqua implicanti una visibilità impervia, aveva risolto di creare lui stesso il proprio modello (artialisation estrema, per cosí dire) e aveva fatto deviare il corso di un ruscello per ottenere, nel proprio giardino privato, uno stagno da coltivare e far pullulare di vegetazione e di infiorescenze: il laghetto delle ninfee e di salici piangenti di Giverny. Quel gesto, rimasto unico (che io sappia) nella storia della pittura, rimarcava esattamente il germoglio di un’idea: se il quadro non è piú in grado di reggere il rapporto con il mondo, e se dunque il modello si fa irreperibile nella dimensione di realtà che pre-esiste all’immagine, il pittore potrà (o dovrà) creare egli stesso il proprio mondo da dipingere. E de Marco ha fatto, in un certo senso, la stessa cosa: si è “inventato” il mondo da rappresentare, immaginandolo e dandogli vita per mezzo di un libro che egli stesso ha scritto, quindi descrivendolo a parole per poterlo poi dipingere. Stella è in un sol tempo un romanzo di fantascienza e un ciclo di dipinti di paesaggio che illustrano il libro e di cui il libro è un vademecum.

Paesaggio (Isola di Stella), 2012, acrilico, grafite, pennarello, pastello e pittura a spray su tela, cm 200 x 300. Reggio Emilia, Collezione Maramotti

 Il libro è in verità concepito come una guida turistica, che reclamizza e descrive nel dettaglio un luogo immaginario ma pensato come esistente (almeno a livello potenziale) ossia un’isola artificiale a forma di stella – probabilmente la versione tecnologica e consumistica delle isole utopiche di Francis Bacon e di Thomas Moore – in cui un’agenzia di viaggi internazionale ha condensato, come altrettante attrazioni ludiche, le “maggiori bellezze” dei cinque angoli della terra. Ma per farlo ha utilizzato un potentissimo sistema di computer, che proiettano una realtà artificiale interamente composta di immagini elettroniche. Il nostro pittore, creandosi questo modello inesistente ma ben definito in ogni suo particolare, ha potuto così passare dalle visioni dello schermo del computer a quelle del tutto irreali di un intero mondo completamente digitale. E, poiché quel mondo, per essere creato, deve gioco forza tener conto della pittura quale repertorio storico di stili, di soggetti e di scelte linguistiche, ecco che Flavio si è felicemente trovato a dover inglobare nel proprio discorso pittorico sulle immagini un gioco di confronto continuo con quei pittori del passato che piú ha vissuto come fonti di ispirazione e di stimolo.

In definitiva – e lo confermano anche le opere successive, riprodotte all’inizio di Screen Life 2019-1999 – lo schermo, schermo del computer ma anche schermo continuo che la realtà virtuale, in cui siamo immersi, infrappone tra la nostra coscienza e il mondo, schermo che filtra e falsifica il mondo mentre lo assorbe su di sé, percorre tutta la vicenda artistica di de Marco: giocando sul bisticcio verbale con still life (che in inglese indica ciò che in italiano è la natura morta pittorica) egli stesso l’ha definita appunto una Screen Life, una vita nello schermo (o sullo schermo). Tale è del resto la vita che vivono tutti gli esseri umani del XXI secolo, e lo sarà sempre di piú, come dimostra l’odierno salto di qualità del nostro allucinante tempo di pandemia. E tale non può che essere, alla fine, la vita di cui l’arte si accinge a farsi rappresentazione: laddove essa voglia tentare, ancora una volta, di rispondere alla propria ragione costitutiva e dunque creare conoscenza.   

Immagine di copertina: Flavio de Marco, Paesaggio (Isola di Stella), 2011, acrilico su tela, 30 x 40. Collezione privata (tutte le immagini riprodotte nell’articolo sono opere di Flavio de Marco)

Sandro Sproccati

(Ferrara, 1954) è autore di diversi volumi di saggistica: “Prose per l’arte odierna”, Essegi, 1989; “Monet. La vita e l’opera”, Mondadori, 1992; “La concreta utopia. Arte d’avanguardia in Russia 1905-1930”, Pendragon, 1994; “Per una logica della pittura”, B.U.P., 2006; “Critica della rappresentazione. Poetiche pittoriche della prima avanguardia”, Zona Editrice, 2009; “Futuri Maestri” (con Flavio de Marco), Editrice Salentina, Lecce 2017. Ha inoltre pubblicato alcuni libretti di poesia e prosa, e testi critico-teorici su varie riviste di arte, di letteratura e di cinema («Il Verri», «Rivista di Estetica», «Testuale», «Altri Termini», «Corposcritto», «Hortus Musicus», «Carte di Cinema», «Rifrazioni»). Vive a Parigi.

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