Edipo imbranato. Hervé Guibert e Roland Barthes

Con L’immagine fantasma di Hervé Guibert, pubblicato nel 1981 ma tradotto per la prima volta in questa occasione (da Matteo Martelli, pp. 200, € 14,90), inizia oggi le sue pubblicazioni una nuova collana di Contrasto che ha per titolo Lampi: «come bagliori che illuminano di colpo, e in modo chiaro e nitido, aspetti, personaggi, racconti ed autori per riflettere sul ruolo della fotografia e sul senso dell’immagine nel nostro tempo». Simbolico che una simile collana prenda le mosse da un testo che sin dal titolo mette a tema la sottrazione dell’immagine: così evocandola in forma di preterizione o appunto, se si preferisce, di fantasma. Ed è curioso che così lo avesse concepito chi di fotografia scriveva normalmente (su «Le Monde»), era fotografo in prima persona, e l’anno prima aveva pubblicato il «roman-photo» Suzanne et Louise. Sicché verrebbe da chiamare questo, à la Barthes, il «grado zero» dell’iconotesto (ma in fondo non aveva fatto nulla di diverso, qualche anno prima, Georges Perec – anche lui appassionato di fotografia ma altresì specialista in disparitions – col suo W.).

La prefazione di Emanuele Trevi, per la cui ripresa ringraziamo lui e l’editore, affronta precisamente questo nucleo di senso “negativo”: facendoci notare come pure La camera chiara appunto di Barthes, opera che di immagini invece è costellata e con la quale non può non dialogare quella di Guibert – che quel libro, dedicato alla morte, alla morte del suo autore aveva recensito –, sia a sua volta fondata sul «fantasma» di un’immagine sottratta. Non so Guibert, ma certo Barthes era un devoto di Lacan (che uscirà di scena, pure lui, giusto in quell’81): il quale a suo tempo aveva spiegato cosa pensare, di simili «lettere rubate». Passeranno dieci anni assai intensi prima che alla fine del ’91, dopo un’agonia straziante raccontata quasi giorno per giorno, anche Guibert si vedrà sottratto al mondo. Di anni ne aveva compiuti, da poco, trentasei.

Andrea Cortellessa

Hervé Guibert, La boule d’Yvonne, 1983

Cercando la disposizione d’animo adatta e riordinando le idee per scrivere la presentazione alla traduzione italiana di questo bellissimo libro di Hervé Guibert, non riesco a liberarmi da quella che ha tutta l’aria di una semplice coincidenza di date. L’immagine fantasma esce per le Éditions de Minuit nell’autunno del 1981. Guibert avrebbe compiuto ventisei anni a dicembre, e dal 1978 scriveva di fotografia per Le Monde. All’inizio dello stesso 1981, il 19 gennaio, Francesca Woodman si suicida a ventidue anni gettandosi da un palazzo di New York. Pochi giorni prima, era apparsa l’unica serie fotografica pubblicata in vita dalla Woodman, Some Disordered Interior Geometries.

Come molti fatti capaci di generare una specie di ingiustificato misticismo, le coincidenze sono di per sé stupide e prive di senso – soprattutto quando riguardano le date del calendario. Eppure questi due ragazzi, figli di un secolo che non immaginava la sua fine così rapida e irreversibile, mi sembrano incarnare, nel loro rapporto con l’immagine fotografica, tutta un’epoca segnata, nel campo delle arti, dall’emersione di una travolgente tensione narcisistica. Nel complesso e indecifrabile sistema di equilibri che regge il nostro mondo, se qualcosa emerge c’è qualcos’altro che sta tramontando. Ebbene, il mio sospetto è che all’ascesa di Narciso corrisponda, in modo abbastanza rigoroso, il declino di Edipo – questo nume tutelare, questo spirito-guida degli uomini moderni. Non è che la storia di Edipo perda all’improvviso tutta intera la sua credibilità. Più che di tramonto, forse bisognerebbe parlare di erosione. Nel 1966, Thomas Pynchon aveva pubblicato un romanzo, L’incanto del lotto 49, davvero profetico al riguardo: la protagonista si chiama Oedipa, e la sua avventura si svolge nell’immaginaria città californiana di San Narciso. Rimane il fatto che la potenza di Narciso è del tipo abbagliante: se vedi lui, non vedi nient’altro. Nel romanzo di Pynchon, San Narciso è più un paesaggio che una città, non ha confini stabiliti, potrebbe essere tutta l’America.

Forse nessuna arte ha testimoniato questo dilagare più della fotografia e della scrittura sulla fotografia. Se consideriamo attentamente l’opera di Francesca Woodman da questo punto di vista, ci troveremo a fare scorrere lo sguardo sulle immagini come se ci trovassimo davanti alla superficie di uno specchio che invariabilmente ha conservato un frammento di autoritratto. Quando poi Francesca scatta un autoritratto vero e proprio, ci rendiamo conto che ben poco è cambiato, tanto i suoi spazi sono saturi di identità e deformati dalle proiezioni. Quello che la separa anche dai maestri che più ammira è un difetto, una debolezza dell’estroversione, della libido intesa non in senso strettamente sessuale, ma di interesse per il mondo. Se il mondo è uno specchio, lo è anche se non sei al centro dell’immagine, perché quell’immagine è comunque la manifestazione della tua assenza.

Nei sessantaquattro frammenti che compongono L’immagine fantasma Hervé Guibert procede con una radicalità non diversa da quella dell’artista americana. Si sarebbe tentati di dire che, se negli articoli sulla fotografia per Le Monde c’è un mobile ed efficace equilibrio dell’informazione e della confessione, in questo libro la posta in gioco è di quelle irresistibili per uno scrittore ad alto tasso di percezione emotiva come lui: bruciare un determinato “argomento” (la fotografia) al fuoco di una soggettività deliberatamente privata di freni teorici. Il “fantasma” è il risultato di questa combustione così come l’immagine sviluppata è il risultato del suo bagno chimico.

Hervé Guibert, Autoportrait, 1989 © Collection Maison Européenne de la Photographie, Paris

Nemmeno a inventarlo di sana pianta in un romanzo il legame tra due opere, apparse a pochi mesi l’una dall’altra, potrebbe essere così emblematico di un passaggio d’epoca come quello che intrattengono L’immagine fantasma e il grande libro sulla fotografia di Roland Barthes, La camera chiara, pubblicato da Seuil nel 1980. Guibert e Barthes si erano conosciuti qualche anno prima: ne nacque un rapporto non privo di qualche amarezza e contrasto di carattere, ma fondato su una sincera stima reciproca. Rispetto al libro di Barthes, L’immagine fantasma ha il comportamento del parassita, che trae dalla sua vittima la linfa vitale finendo per svuotarla. Considerati da questo punto di vista i due libri, che pure possono essere letti ognuno di per sé, formano un blocco di senso unico, compatto.

In questa vicenda che possiede una sua evidente coloritura drammatica va considerata – come ha fatto molto bene Anne-Cécile Guilbard – anche la recensione alla Camera chiara pubblicata da Guibert su Le Monde del 28 febbraio 1980 – Barthes non la lesse mai: era stato coinvolto tre giorni prima nell’incidente stradale a causa del quale morì il 26 marzo. Questa recensione è un capolavoro di ambivalenza, come se ne scrivono a volte quando si è giovani ed è proprio il peso di ciò che ammiriamo che si desidera scrollarsi di dosso. Sintetizzando al massimo, possiamo dire che la distanza del venticinquenne Guibert da Barthes (che ha esattamente quarant’anni più di lui) è quella che intercorre tra un’espressione della soggettività filtrata da un’immensa cultura e una naturale eleganza, e quello stile più diretto, di immediata evidenza emotiva, quasi perverso proprio nella sua mancanza di calcolo, che ha fatto di Guibert, fino all’ultimo respiro, un maestro del racconto in prima persona della propria vita. Si ha un bel dire che entrambe queste strade, per essere efficaci, vanno percorse con sapienza, e che sia la prosa colta e quasi signorile di Barthes che la sincerità di Guibert (come quella di un Radiguet mezzo secolo prima o di un Genet più recentemente) sono degli effetti d’arte: la differenza, nel risultato, balza agli occhi. L’Io che Guibert percepisce negli ultimi libri di Barthes, a partire dall’“innamorato” dei Frammenti di un discorso amoroso, gli suona irrimediabilmente falso: non perché sia ipocrita, ma perché il sapere ne fa una specie di terza persona mascherata da prima. Per citare il concetto più celebre della Camera chiara, che è quello del punctum dell’immagine fotografica nel suo rapporto con l’osservatore, a Guibert sembra dar fastidio… che la parola scelta sia in latino! Ma questi fastidi, come si sa, spesso sono indizi visibili di questioni più profonde.

Hervé Guibert, Isabelle, 1980 © Collection Maison Européenne de la Photographie, Paris

E con questo torniamo al punto di partenza, perché Barthes, nutrito così profondamente di Proust e Gide, è un vero uomo moderno, ovvero un uomo edipico se mai ce ne furono. E L’immagine fantasma può essere letto come un’esplicita aggressione, che inizia nelle prime pagine e affonda i suoi colpi in molti punti decisivi del libro. Com’è noto, l’ultima stagione creativa di Barthes inizia con l’impossibile elaborazione del lutto per la morte della madre, Henriette Binger, il 25 ottobre 1977 (è un “lutto immobile”, annoterà, “non sottomesso a un processo”). Oggi che possiamo leggere molti documenti rimasti a lungo inediti, primo fra tutti un Diario del lutto tenuto fino al settembre del 1979, conosciamo si può dire passo dopo passo la strada che porta Barthes a concepire e scrivere La camera chiara, la cui pietra di volta è una foto di Henriette da bambina. È la celebre foto del giardino d’inverno di Chennevières: celebre soprattutto perché Barthes non la mostra ai lettori. Nella Camera chiara non mancano le illustrazioni: opere di maestri della storia della fotografia che accompagnano il testo dialogando con le interpretazioni di Barthes. Ma la foto del “giardino d’inverno” non può essere mostrata. È un’immagine “santificata”, che ha senso solo nella religione privata di quel singolo orfano. A lui basta un’occhiata “per venire investito da, immerso in, invaso, inondato dalla sua bontà”.

La scelta di occultare questa fotografia che è il centro dell’opera è vincente, e forse è il collante invisibile della sua bellezza, ma non ci si può accontentare di una spiegazione puramente psicologica come il pudore. L’occultamento fa parte di un testo letterario destinato per sua natura a essere completato dal lettore, producendo immaginazione. Dunque quella fotografia “santificata” è più potente di tutte le altre immagini (peraltro splendide) presenti nella Camera chiara. Tendenzialmente, ogni lettore del libro risponde alla scrittura di Barthes costruendo mentalmente la sua fotografia del giardino d’inverno, nutrendola della sua esperienza personale di ciò che riconosce come “bontà”. E non c’è un’esperienza capace di farci toccare con mano più di questa le prerogative e il potere della letteratura.

Hervé Guibert, Vincent, 1983 © Collection Maison Européenne de la Photographie, Paris

Su questo punto così importante Guibert, che elimina qualunque immagine dal suo libro (non ne prevedono nemmeno in copertina le Éditions de Minuit!) concorda perfettamente con Barthes: per un motivo che sembra più artigianale che ideologico o filosofico. È vero che, a partire dal grande archetipo rappresentato da Nadja di André Breton (1928), l’immagine fotografica ha arricchito la letteratura del Novecento con sorprendenti contaminazioni; ma è altrettanto vero che l’immagine indebolisce fatalmente la parola letteraria, boicottando il suo potere più importante, che è quello di produrre immaginazione, suscitare nel lettore fantasmi non meno individuali di quelli dello scrittore. Guibert aggredisce il problema alla radice, con una specie di spavalderia: per quello che davvero conta in una scrittura sulla fotografia, che la fotografia di cui parla sia vera o inesistente è esattamente la stessa cosa. L’unica fotografia che conta è quella che prende forma nella camera oscura della mente di chi legge.

Da questo punto di vista, tutti gli impedimenti che ostacolano lo scatto di una foto sono i benvenuti, perché aprono lo spazio narrativo che Guibert è interessato percorrere. Al lettore di oggi, soprattutto se giovane, converrà tenere a mente che questi impedimenti – a partire dalla situazione in cui lo scrittore vede nella realtà il soggetto di una foto che gli piacerebbe scattare, ma non ha la macchina con sé – sono tipici dell’età pre-digitale, quando non bastava tirare fuori il telefonino dalla tasca dei pantaloni per ritagliare un’immagine dal continuum della realtà senza nemmeno farci caso. Così, nel quarto frammento narrativo del libro, significativamente intitolato L’immagine perfetta, ci racconta di avere a lungo contemplato, senza la possibilità materiale di fotografarli, dei ragazzi che un giorno di mare grosso facevano il bagno all’isola d’Elba. Più che un fantasma, quella foto è un rimpianto (un “rimorso fotografico”), ma la sua impossibilità gli suggerisce una notevole riflessione sui rapporti tra parola e immagine. “Mi sembra ora”, dichiara Guibert dopo aver descritto minutamente con le parole ciò che avrebbe fotografato, se se ne fosse data l’occasione, “che il lavoro di scrittura abbia oltrepassato e arricchito la trascrizione fotografica immediata e che, se domani tentassi di ritrovare la visione reale per fotografarla, mi sembrerebbe più povera”. Magari si sarebbe trattato di una buona foto, qualcosa di cui l’autore sarebbe entrato in possesso. “Ma l’atto fotografico avrebbe così annullato ogni ricordo dell’emozione, perché la fotografia è una pratica inglobante e smemorata, mentre la scrittura, che essa non può che bloccare, è una pratica malinconica”.

La malinconia, dunque, garantisce all’immagine mentale, all’immagine che non si è potuto materialmente realizzare, una persistenza del fantasma nello spazio psichico che trova necessariamente nella scrittura il suo veicolo ideale. Barthes potrebbe essere d’accordo, ma il caso della foto del giardino d’inverno è ben diverso da quello delle foto non realizzate da Guibert. Lo scrittore più giovane punta tutto sulle circostanze che precedono o seguono la foto in sé o il tentativo fallito di realizzarne una.

Paradossalmente, Guibert è molto più “proustiano” di Barthes su questo punto decisivo. Voglio dire che è sempre metonimico nel suo rapporto con l’opera d’arte – portata o meno a termine. Dove Barthes “santifica”, lui profana, rendendo tutto impuro, rifiutandosi all’idea che ci sia qualcosa nel mondo che rappresenti un vero salto ontologico, ovvero una pienezza assoluta di significato. Così, sfidando apertamente il maestro, anche lui ci racconta di una foto di sua madre che non si potrà mai vedere: non per una scelta solenne, ma per un motivo meccanico molto più prosaico, non essendosi il rullino incastrato a dovere nel congegno della macchina. Hervé pensa di aver scattato delle foto e poi si rende conto che non esistono, che il rullino è rimasto intatto e ripiegato nella sua custodia. Edipo imbranato è un bel racconto, ma non è più Edipo, perché gli è sottratta la sua atmosfera di fatalità. Un incidente può verificarsi come può benissimo non verificarsi, e questa indifferenza appartiene semmai alla commedia, non al mito e alla tragedia. Ciò significa che l’immagine, qualunque sia il suo statuto, non può più essere davvero interpretata, cosa a cui si prestano solo le metafore, ma solo immersa nel flusso incontrollabile delle contingenze.

Hervé Guibert, Sienne, 1979 © Collection Maison Européenne de la Photographie, Paris

In Proust solo il sacro, come ha osservato Jacqueline Risset, si sottrae a questa pratica eversiva della metonimia, a questa fondamentale impurità dell’esperienza estetica. In Guibert, ovviamente, non esiste più nemmeno un equivalente credibile della facciata della chiesa di Combray. Il mondo rimane profano, nella sua opera, fino agli ultimi scheletrici appunti presi in ospedale. La stessa energia del narcisismo, in lui, non si fissa su nulla, semmai produce un’infinità di specchi. È un Narciso degradato non meno di Edipo – è questo il prezzo dello slittamento dal mito al romanzo, dalla metafora alla metonimia. E se l’affermazione della propria identità, soprattutto quando si è giovani, passa per un agone all’ultimo sangue con un’identità più forte che ci precede, ebbene il caso dell’Immagine fantasma è veramente da manuale. La demolizione del maestro giunge verso la fine del libro a un massimo inaudito di sfrontatezza e provocazione. Come se tentasse di irrompere direttamente nel delicato congegno psicologico della Camera chiara, Guibert ci racconta che in realtà una fotografia della madre di Barthes avrebbe dovuto scattarla lui, nell’autunno del 1977. A questo scopo aveva anche scritto una lettera a Barthes, forse arrivata lo stesso giorno in cui Henriette Binger era morta. Ancora una volta, è il racconto di una fotografia non realizzata a causa di circostanze imprevedibili a sostituire la fissità dell’immagine concreta (non importa se occultata o mostrata) e il suo potere implicito: si potrebbe dire che la periferia prevale sul centro, finendo per renderlo inessenziale.

Cosa ne avrebbe pensato Barthes di tutto questo non ci è dato saperlo. A noi rimangono due libri splendidi come La camera chiara e L’immagine fantasma, e la possibilità di leggerli insieme cercando proprio nel loro dissidio il germe di una verità ulteriore.

La ricostruzione dei rapporti tra Guibert e la fotografia è un fil rouge della biografia di François Buot, Hervé Guibert. Le jeune comme et la mort, Grasset & Fasquelle, Paris, 1999. Sul rapporto tra Barthes e Guibert, ho trovato molte idee condivisibili in Anne-Cécile Guilbard, Guibert après Barthes: “un refus de tout temps”, in Rue Descartes n. 34, 2001/4. Il libro di Barthes uscì tempestivamente anche in Italia, nella traduzione di Renzo Guidieri: La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino, 1980. Anche il Journal de deuil (ottobre 1977-settembre 1979) è stato tradotto in italiano, da Valerio Magrelli: Roland Barthes, Dove lei non è, Einaudi, Torino, 2010. Per maggiori precisazioni sul rapporto tra il diario, La camera chiara e gli ultimi corsi di Barthes al Collège de France mi permetto di rimandare a un mio articolo, Malinconico Barthes, il manifesto, 26 marzo 2010. Sulla metonimia è da leggere Jacqueline Risset, Une certaine joie. Essai sur Proust, Editions Hermann, Paris, 2009.

In copertina: Hervé Guibert, Autoportrait, New York, 1981 © Christine Guibert

(Roma, 1964) Critico e scrittore, collabora al «Corriere della Sera» e al «manifesto» e fa parte del comitato di redazione di «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato libri di critica (“Istruzioni per l’uso del lupo”, 1994; “Musica distante”, 1997; “Il viaggio iniziatico”, 2014), romanzi (“I cani del nulla”, 2003; “Il libro della gioia perpetua”, 2010; “Il popolo di legno”, 2015), memorie (“Senza verso”, 2004; “Qualcosa di scritto”, 2012; “Sogni e favole”, 2019), libri di viaggio (“L’onda del porto”, 2005; “Ontani a Bali”, 2015). Il suo prossimo libro, “Due vite”, uscirà da Neri Pozza a fine maggio.

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