La natura convalescente

14/04/2020

«Non ho mai vissuto un autunno simile, e neppure avevo mai ritenuto possibile una cosa del genere sulla terra – un Claude Lorrain prolungato all’infinito, ogni giorno di una uguale indomabile perfezione». Così scrive Friedrich Nietzsche nell’autobiografia Ecce homo. Come si diventa ciò che si è (p. 117), ultimata poco prima dell’ominosa crisi del 3 gennaio 1889 quando, col famigerato – e forse mitobiografico – abbraccio al cavallo di Piazza Carignano, raggiunse il suo destino: ossia ciò che sarà sino alla morte undici anni dopo, soffocato dall’abbraccio della sorella Elizabeth, al picco dell’estate 1900.

Il Filosofo col Martello così descriveva il suo ritorno a Torino, la città del destino appunto («il mio luogo provato», p. 116) in cui era giunto il 21 settembre 1888. Ma già la primavera precedente, dalla stessa città, aveva scritto lettere traboccanti di esaltazione (Pietro Citati le ha definite «forse le più belle pagine che siano mai state dedicate a una città moderna») per quello che gli pareva il luogo, dopo tante peregrinazioni, dove trovare sollievo all’insieme di patologie che coincideva con ciò che era – o ciò che era diventato (sempre Citati: «Friedrich Nietzsche non era una mente, ma un clima. Il barometro agiva su di lui come un destino»).

Fiumi d’inchiostro sono stati versati sulla malattia reale, nosografica, adombrata dalla Malattia suo arci-tema (nonché qualifica con la quale di volta in volta condannava – per esempio la Storia, nella Seconda inattuale – o esaltava – per esempio se stesso – enti e concetti a lui avversi o, alternativamente, graditi; e che, per ironia della sorte, gli verrà ritorta contro da tutti coloro che, come già accaduto a Leopardi – filologo-poeta-filosofo da lui, non a caso, assai ammirato –, pretenderanno di liquidare il suo pensiero mettendo mano alla sua cartella clinica). Oggi si tende a pensare (dopo molte chiacchiere sulla sifilide che avrebbe contratto, molto tempo prima, in un bordello di Colonia; ma Anacleto Verrecchia suppone che a quest’episodio si sovrapponesse, in Nietzsche, il timore del colera durante la grande infezione del 1866) che la sua mente sia rimasta vittima di un tumore cerebrale a lenta progressione (meningioma) oppure della cosiddetta sindrome CADASIL, una demenza ereditaria di matrice patrilineare. Nel primo capitolo di Ecce homo, in effetti, lo stesso Nietzsche allude alla morte di suo padre, per quello allora diagnosticato come ictus dopo un anno di «apatia cerebrale», all’età di trentasei anni (lui ne aveva quattro, e l’anno dopo dovette assistere anche alla morte di un fratellino di due): per cui, «parlando per enigmi, come mio padre io sono già morto, come mia madre vivo ancora e invecchio» (p. 25). Sin dall’inizio Nietzsche si visse, in altri termini, come postumo: la «décadence» – di cui si considerava massimo «esperto» (p. 19) e dunque, al contempo, unico possibile eversore – era per lui qualcosa di originario, intimamente connaturato alla sua essenza («io sono proprio mio padre e, in certo modo, la sua sopravvivenza dopo una morte prematura»).

Peraltro il nesso tra fisiologia e pensiero, cioè fra malattia e salute, non è solo una malevolenza dei suoi stroncatori postumi. È lo stesso Nietzsche, sempre in Ecce homo, a spiegare in questi termini la «rivelazione» che era stata l’incontro con Zarathustra, destinato a deviare una volta per tutte il corso del suo pensiero, e dunque della sua vita: «bisogna in primo luogo aver chiaro il suo presupposto fisiologico: che è ciò che io chiamo la grande salute» (p. 96). Karl Jaspers, in un saggio celebre, ha censito la metafora della Malattia lungo tutto il pensiero di Nietzsche, e troppo lungo sarebbe seguirne in questa sede i percorsi tortuosi; ma in ogni caso colpisce come essa si presenti, sempre, nella sua ambivalenza. Chi tale ambivalenza ha sintetizzato meglio di tutti è stato un suo commentatore più recente, Gilles Deleuze: che a sua volta in uno degli ultimi testi poi raccolti in Critica e clinica – prima del gesto col quale mise fine all’atrofia polmonare che gli rendeva la vita impossibile – sosteneva che «lo scrittore in quanto tale non è malato, ma piuttosto medico, medico di se stesso e del mondo»: è proprio in quanto «il mondo è l’insieme dei sintomi di una malattia che coincide con l’uomo» che «la letteratura appare allora come un’impresa di salute». Con la medesima ambivalenza che nel «caso Nietzsche»: «non che lo scrittore abbia necessariamente una salute vigorosa»; la sua è piuttosto «un’irresistibile salute precaria». Una condizione «il cui passaggio lo sfinisce, ma gli apre dei divenire che una buona salute dominante renderebbe impossibili» (p. 16).

È quello che sostiene lo stesso Nietzsche nel suo libro più lucido (nonché quello che è forse, letterariamente, il suo capolavoro), Aurora. L’aforisma 114 s’intitola Della conoscenza di colui che soffre, ed è la formulazione più compiuta – in termini modernamente secolarizzati – di quello che Pascal aveva definito «il buon uso delle malattie»: «la condizione di certi uomini malati che a lungo e terribilmente sono tormentati dai loro dolori, senza che per questo il loro intelletto resti offuscato, non è senza valore per la conoscenza […]. Colui che soffre profondamente vede dalla sua condizione, con una terribile freddezza, le cose al di fuori: […] egli si pone dinanzi a se stesso privo di orpelli e di colore. Ammesso che sia vissuto fino a quel momento in una qualche pericolosa fantasticheria, questo supremo disincantarsi attraverso il dolore è il mezzo per strapparlo da essa: è forse l’unico mezzo» (pp. 83-4). Tanto tempo dopo esprimerà lo stesso pensiero Carlo Emilio Gadda col suo testo più lancinante e il suo titolo più celebre, La cognizione del dolore, il cui genitivo va letto infatti tanto in senso genitivo che oggettivo: è quando ci s’interroga sulla natura e sull’origine del dolore che la conoscenza, la cognizione appunto, si produce attraverso il dolore.

 Anche per Nietzsche il dolore della sofferenza fisica rappresenta per l’uomo «una atroce chiaroveggenza sulla propria natura» (p. 84). Al punto che, dice in un altro aforisma di Aurora, «la più grande malattia degli uomini è nata dalla battaglia contro le loro malattie, e gli apparenti rimedi hanno generato a lungo andare qualcosa di peggio di quello che con essi doveva essere eliminato» (p. 42). Condizione ideale non è infatti per lui quella della salute vigorosa, come dirà Deleuze, bensì la salute precaria: quel riaccostarsi incerto alle cose del mondo che «andiamo osservando come trasmutati, dolcemente e ancor sempre stanchi. In questo stato non si può ascoltare della musica senza piangere» (p. 85).

Il cenno alla musica si spiega soprattutto, credo, col fatto che proprio al torbido intossicamento della musica di Wagner, retrospettivamente, Nietzsche associasse la Malattia, la «décadence» la cui sfida per lui consisteva nel superarla assumendosela: inocularsela al fine di vaccinarsene una volta per tutte. E infatti è proprio nel libro che tirava le somme del «caso Wagner», Umano, troppo umano, che qualche anno prima Nietzsche per la prima volta aveva posto la questione della Malattia con l’ambivalenza che Aurora sancirà una volta per tutte: è dall’«incurabile romanticismo di Richard Wagner» (sul quale s’era ingannato, in gioventù, illudendosi che «esso fosse un principio e non una fine») che il filosofo aveva dovuto maturare la «grande separazione» che era giunta «improvvisa, come una scossa di terremoto» (pp. 4-5). E questa separazione, che è per l’uomo la «volontà di autodeterminarsi, di porre da sé dei valori», è «in pari tempo una malattia che può distruggere l’uomo» (p. 6). Sicché «la via per giungere fino a quell’enorme, straripante sicurezza e salute […] non può fare a meno della malattia stessa, come di un mezzo e amo di conoscenza». Fra l’una e l’altra «possono venire lunghi anni di convalescenza, anni pieni di trasformazioni multicolori, doloroso-incantate, dominate e tenute a freno da una tenace volontà di salute, che spesso già osa vestirsi e travestirsi da salute» (p. 7). E insomma, concludendo in punta d’aforisma: «È saggezza, saggezza di vita, somministrarsi per lungo tempo la salute stessa solo a piccole dosi» (p. 9). 

Anche per Giorgio de Chirico quello della musica di Wagner era un morbo tanto affascinante quanto pericoloso, una malattia infantile da cui s’era per tempo vaccinato. Nelle Memorie della mia vita così rammenta i tempi dell’Accademia, a Monaco di Baviera: «In quel tempo ero molto wagneriano; non perdevo nessuna occasione di udire la musica di Wagner, tanto in teatro, quanto nei concerti. Oggi ho perso l’amore per quella musica nella quale sento un che di umidiccio e di immorale; forse anche di cattivo» (p. 94). E forse non si sbaglia a supporre che proprio il, così nicciano, desengaño nei confronti della «musica dell’avvenire» sia alla base del rifiuto della musica in quanto tale, da parte di de Chirico – il quale così prendeva pure le distanze dal fratello Andrea, il futuro Alberto Savinio, che allora riponeva nella musica tutte le sue ambizioni –, esplicito nei Manoscritti Eluard del 1913 circa («Ciò che ascolto non vale niente, c’è solo ciò che vedono i miei occhi aperti, e meglio ancora se chiusi»: Scritti 973, originale francese a p. 609).

Nietzsche è in effetti onnipresente, in questi testi aurorali che sono il big bang della “metafisica”. Proprio a Monaco era stato folgorato dal Filosofo col Martello, il giovane de Chirico: come rivela una lettera del 1910, di recente resa nota, al compagno d’Accademia Fritz Gartz (il cui fratello Kurt finirà vittima di un suicidio alquanto “wagneriano”, o “weiningeriano” piuttosto), al quale proclama che «il poeta più profondo si chiama Friedrich Nietsche» (sic; Lettere 20; ed è verosimile che il suo primo autoritratto – quello in cui imita appunto l’icona “melanconica” del filosofo – sia datato «1908», retrodatandolo dunque di almeno due anni, non per le irridenti cronologie fantastiche cui indulgerà il de Chirico tardo bensì per celebrare, in forma ideale, la data del suo incontro col pensiero che gli aveva aperto gli occhi…). Alla sua suggestione, infatti, ricollegherà nei Manoscritti Eluard la zaratustriana «rivelazione» della propria arte (cfr. Scritti, 600 e 607); ma soprattutto scriverà, all’inizio dell’altro mannello di appunti, i cosiddetti Manoscritti Paulhan (Scritti 988, originale francese a pp. 649-50):

Quando Nietzsche parla del piacere che prova nel leggere Stendhal o nell’ascoltare la Carmen, si intuisce, se si è psicologi, ciò che vuole dire con questo: non è più un libro, non è più un pezzo musicale; è una cosa che dà una sensazione; si pesa, si giudica questa sensazione, la si paragona ad altre più conosciute e la si sceglie perché la si trova più nuova.

Un’opera d’arte realmente immortale non può nascere che per rivelazione. È stato forse Schopenhauer a definire e a spiegare meglio questo momento quando dice nei suoi Parerga e Paralipomena: «Per avere delle idee originali, straordinarie, forse anche immortali, basta isolarsi assolutamente dal mondo e dalle cose per qualche istante, finché gli oggetti e gli avvenimenti più ordinari ci appaiono completamente nuovi e sconosciuti; ciò rivela la loro vera essenza». Adesso, al posto della nascita di idee originali, straordinarie, immortali, immaginate la nascita nel pensiero di un artista di un’opera d’arte, pittura o scultura, e avrete il principio della rivelazione in pittura.

A questo proposito dirò come ebbi la rivelazione di un quadro che ho esposto quest’anno al Salon d’Automne e che si intitola: L’Enigma di un pomeriggio d’autunno.

In un chiaro pomeriggio d’autunno ero seduto su un banco in mezzo a piazza Santa Croce a Firenze. Certo non era la prima volta che vedevo quella piazza. Uscivo da una lunga e dolorosa malattia intestinale e mi trovavo in uno stato di morbida sensibilità. La natura intera mi sembrava convalescente fino al marmo degli edifici e delle fontane. In mezzo alla piazza si eleva una statua che rappresenta Dante vestito di un lungo mantello che stringe la sua opera al corpo e piega verso il sole la testa pensierosa coronata di lauro. La statua è in marmo bianco; ma il tempo le ha dato una tinta grigia molto piacevole a vedersi. Il sole autunnale, tiepido e senza amore, rischiara la statua e la facciata del tempio. Allora ebbi la strana impressione di vedere tutto per la prima volta. E mi venne in mente la composizione del mio quadro; e ogni volta che lo guardo rivedo questo momento: tuttavia, il momento per me è un enigma, perché è inspiegabile. E anche l’opera che ne risulta mi piace definirla un enigma.

È un passo celebre, il più commentato probabilmente degli scritti di de Chirico. Il riferimento all’anti-wagnerismo di Nietzsche è evidente nel cenno alla Carmen (che allude a un passo celebre del Caso Wagner, appunto), e in un saggio fondamentale Maurizio Calvesi (La metafisica schiarita, pp. 17-8)ha fatto notare l’importanza della citazione dai Parerga e paralipomena di Schopenhauer (l’altro riferimento filosofico-chiave per il Pictor Optimus, che da questo libro trae anche delle versioni poetiche: La casa del poeta, 120-3), da de Chirico survoltata appunto ricorrendo al reagente-Nietzsche (anche se Calvesi non mette il passo direttamente in rapporto col tema della «grande separazione» di Umano, troppo umano; ma si vedano i fitti sviluppi, di questa linea di ricerca, negli studi recenti di Riccardo Dottori e Fabio Benzi).

La lignée Schopenhauer-Nietzsche è evidentemente in relazione al tema della «décadence»: Calvesi ricorda un quadro degli Uffizi (attribuito a Tiziano o a Sebastiano del Piombo), il Ritratto d’uomo malato, che descrive Giovanni Papini nel Tragico quotidiano –assai nicciano libro di racconti del 1906 che salerà il sangue a Borges oltre che a de Chirico – menzionando la «soffice carezza del suo guanto» (contaminando forse il dettaglio con un altro quadro di Tiziano, l’Uomo dal guanto del Louvre): e si sa quanto il motivo del guanto sarà decisivo nella filiera “onirica” che da Max Klinger porta al Breton di Nadja (e magari all’Hitchcock di Vertigo e al Cronenberg di Crash), passando appunto per de Chirico.

Ma forse non è stata sottolineata a sufficienza la matrice (auto)biografica dell’icona nicciana dell’uomo malato, che opera la sua grande separazione dal mondo degli uomini. Subito prima del passo appena citato si legge (con un pittura dell’avvenire che segnala la recidiva di qualche tossina wagneriana): «Quale sarà lo scopo della pittura dell’avvenire? Lo stesso della poesia, della musica e della filosofia. Dare delle sensazioni sconosciute fino a quel momento. Spogliare l’arte di tutto ciò che ancora contiene di routine, di regola, di tendenza a un soggetto, a una sintesi estetica; sopprimere completamente l’uomo come punto di riferimento, come mezzo per esprimere un simbolo, una sensazione o un pensiero: liberarsi una buona volta da ciò che ostacola sempre la scultura: l’antropomorfismo. Vedere tutto, anche l’uomo, come cosa. È il metodo nietzschiano. Applicato alla pittura potrebbe dare risultati straordinari. È ciò che cerco di fare con i miei quadri».

Metodo nietzschiano è dunque, per de Chirico, quello della reificazione simbolica (vedere l’uomo come cosa) che condurrà, di lì a poco, all’invenzione decisiva del Manichino. Ma alle sue spalle c’è un cortocircuito biografico che fra i suoi critici storici, mi pare, solo Wieland Schmied ha saputo mettere in una luce adeguata. Gli autori in cui si riconosce il giovane arrivato a Monaco nel 1906 non erano teorici astratti e “accademici”: «mettevano in gioco la propria esistenza, […] soffrirono in prima persona, […] le loro vicende personali sollecitarono un coinvolgimento diretto: Schopenhauer morì profondamente amareggiato, Nietzsche con la mente ottenebrata, e Weininger, a soli 23 anni, si tolse la vita» (p. 67).

Il superstiziosissimo de Chirico non poteva non notare quello che gli doveva apparire uno spettrale passaggio di consegne (p. 72): la crisi che mette fuori gioco Nietzsche non si consuma forse nel 1888, cioè esattamente il suo anno di nascita? E non era morto dopo lunga malattia anche suo padre, l’ingegner Evaristo? Non aveva dovuto assistere, anche lui all’età di quattro anni, alla morte della sorellina Adelaide? «Il suo processo di identificazione arrivò a un punto tale», fa notare Schmied, che «ebbe a momenti gli stessi sintomi accusati da Nietzsche – una estrema sensibilità ai cambiamenti di tempo, cefalee e disturbi gastrici di origine nervosa» (p. 73). In ogni caso è così che disegna il proprio percorso simbolico, de Chirico, nel redigere il suo Ecce homo, le Memorie della mia vita (pp. 96-7):

Si arrivò a Firenze. Ero molto depresso fisicamente perché mentre stavo a Milano mi erano venuti forti disturbi intestinali; eran dolori cronici accompagnati da una grande debolezza; stentavo a salire le scale, in strada temevo sempre di essere colto da uno svenimento e pertanto camminavo rasente i muri […]. Lavoravo quindi poco; leggevo, più che non dipingessi; leggevo soprattutto libri di filosofia ed ero colto da forti crisi di nera malinconia.

A Firenze la mia salute peggiorò; dipingevo qualche volta quadri di piccole dimensioni; il periodo böckliniano era passato e avevo cominciato a dipingere soggetti ove cercavo di esprimere quel forte e misterioso sentimento che avevo scoperto nei libri di Nietzsche: la malinconia delle belle giornate d’autunno, di pomeriggio, nelle città italiane. Era il preludio alle piazze d’Italia dipinte un po’ più tardi a Parigi e poi a Milano, a Firenze e a Roma.

La vera “svolta” non può dunque che prodursi nella stessa città in cui Nietzsche intravede la salvezza, subito prima di cadere nell’abisso (è a quell’altezza, infatti, che de Chirico dipinse, con ogni probabilità, il suo araldico autoritratto nicciano; pp. 99-101):

Si decise di partire per Parigi. Si liquidò la casa di Firenze e si prese il treno per Torino. Io mi sentivo molto male; era una torrida estate dell’anno 1911; era luglio; a Torino ci fermammo un paio di giorni per visitare l’esposizione che si era inaugurata allora. Ma col caldo e la fatica del viaggio il mio stato peggiorò. Si partì da Torino che stavo molto male e avevo forti dolori intestinali […] il cameriere entrando nella camera e vedendomi sul letto disse: «C’est la chaleur qui fait ça!» Aveva ragione; nella mia vita ho osservato che il caldo e i Paesi caldi sono pessimi per le persone che soffrono di debolezza intestinale […] era la notte del 14 luglio e Parigi era in festa; la gente ballava sui marciapiedi, davanti ai caffè ove organetti e orchestrine suonavano senza posa. […] Quando, finita la cura, tornai a Parigi mi ero completamente rimesso. Era parecchio tempo che non toccavo più un pennello e nemmeno una matita. Mi rimisi al lavoro e ripresi il filo delle mie ispirazioni di origine nietzschiana.

È a Parigi, dunque, che il Pictor esce dalla crisi, al Salon d’Automne dove si rivelerà al mondo esponendo, fra gli altri, proprio l’immagine battesimale della sua rivelazione: l’Enigma di un pomeriggio d’autunno. Ma se il luogo qui raffigurato è quello dove fisicamente la rivelazione si era prodotta, Firenze (una Santa Croce trasfigurata, col monumento a Dante enigmaticamente decapitato), il tempo è invece quello ideale, metafisico. Il tempo di Nietzsche, cioè, come de Chirico lo codifica nelle Memorie (p. 88):

Tale novità è una strana e profonda poesia, infinitamente misteriosa e solitaria, che si basa sulla Stimmung (uso questa parola tedesca molto efficace che si potrebbe in italiano tradurre con la parola: atmosfera nel senso morale) si basa, dico, sulla Stimmung del pomeriggio d’autunno, quando il cielo è chiaro e le ombre sono più lunghe che d’estate, poiché il sole comincia a essere più basso. Questa sensazione straordinaria si può provare (ma bisogna naturalmente aver la fortuna di possedere le eccezionali facoltà che possiedo io) si può provare, dico, nelle città italiane e in qualche città mediterranea, come Genova o Nizza; ma la città italiana per eccellenza ove appare questo straordinario fenomeno è Torino.

Torino, certo: la città in cui anche Nietzsche aveva ricevuto il balsamo di un autunno sovrannaturale, davvero metafisico, che in Ecce homo aveva codificato – come si ricorderà – in termini enigmaticamente pittorici: «un Claude Lorrain prolungato all’infinito». Con ogni probabilità Nietzsche ricorda qui un passo dei celebrati Colloqui con Goethe di Eckermann, in cui dei quadri del Lorenese si dice che «possiedono il massimo grado di verità, senza avere tuttavia alcun briciolo di realtà». Sono parole che cita Michael Jakob per sottolinearne «l’effetto di sintesi», l’«assemblaggio di loci» (come una Firenze vista nella luce di Torino…). Di qui verrà in effetti l’allusiva teatralità, l’artificialità trascendentale del de Chirico ferrarese (dove davvero «il mondo è un teatro di marionette»: Schmied, p. 75). Ma la centralità di Lorrain nella tradizione paesaggistica deriva soprattutto dal suo abbandono del «modello basato sulla centralità della figura umana» (Il paesaggio, p. 58).

Anche de Chirico infatti (che negli anni Venti prenderà dimora, a Parigi, in Avenue Lorrain…), vi si riferirà spesso nei suoi scritti, nei quali Lorrain è pregiato soprattutto per il senso “architettonico”. Ma nel secondo “romanzo”, Il signor Dudron (che nella sua versione italiana è anche un compendio delle sue idee dell’arte, come verranno più polemicamente esposte nella Commedia dell’arte moderna), mette in bocca a «Isabella Far» questa vera e propria genealogia della rivelazione (parola che sappiamo ormai riconoscere nella sua matrice nicciana): «la rivelazione espressa da certe opere d’arte, è un fenomeno puramente moderno che non si trova nei quadri dei pittori antichi, tranne in maniera frammentaria nell’opera di Dürer. In qualche quadro di Poussin e forse anche di Claude Lorrain, si può vedere un fenomeno che si avvicina a quello della rivelazione» (Scritti, p. 226). E il senso di questa lezione era stato esplicitato in un testo del 1919 (raccolto a sua volta nella Commedia dell’arte moderna del ’45), Sull’arte metafisica, che rivendica alla «nuova pittura metafisica italiana» una «seconda solitudine», quella «dei segni, o metafisica», la quale ha il suo presupposto però nella «prima», la «solitudine plastica»: «vi sono quadri di Böcklin, di Claude Lorrain, di Poussin abitati da umane figure, i quali malgrado ciò sono in stretta correlazione con il paesaggio dell’epoca terziaria. Assenza umana nell’uomo». L’epoca terziaria è quella della preistoria (de Chirico ha appena raccontato «la strana e profonda impressione» che da bambino gli avevano fatto le illustrazioni, di Édouard Riou, nella Terra prima del diluvio di Louis Figuière): il tempo di un’assenza umana nell’uomo, appunto.

Se nella terra primordiale tale assenza è umana, cioè naturale, non altrettanto si può dire della terra di oggi, nei paesaggi urbani spopolati di un Claude Lorrain prolungato all’infinito, come si era espresso Nietzsche. Per dare una spiegazione a tale senso di metafisica assenza si deve immaginare un qualche cataclisma («come una scossa di terremoto», si ricorderà, in Umano, troppo umano; e nelle Memorie di de Chirico viene ricordata ai tempi dell’infanzia, p. 31, «una serie di terremoti che principiavano regolarmente ogni sera dopo il tramonto»: allorché tutti gli abitanti del quartiere «portavano fuori materassi, valigie e persino alcuni mobili»: origine remota ma precisa del cortocircuito interno-esterno che sarà fra i cavalli di battaglia, infatti, del Pictor). Un cataclisma come quello che de Chirico ritrae in un suo poco noto componimento poetico del 1918, L’ora inquietante (il cui titolo reca lo stesso aggettivo dato l’anno prima al quadro destinato a restare il suo più celebre, Le muse inquietanti; La casa del poeta, p. 148):

Tutte le case sono vuote
risucchiate dal cielo aspiratore.
Tutte le piazze deserte.
Tutti i piedistalli vedovi.
Le statue – emigrate in lunghe
carovane di pietra
verso porti lontani.
Strane iscrizioni sorgono a ogni quadrivio.
Avvertimenti funebri di non andar più oltre.

“Pericolo di morte”
Ma anche l’immortalità è morta
in quest’ora senza nome sui quadranti
del tempo umano.
Che sia rimasto io solo con
un resto di tepore vitale sulla
sommità del cranio?

Che sia rimasto io solo con un palpito
superstite nel cuore che non tace?
Torna beatitudine stanca dei miei anni andati!
Ciò che ho perduto non lo riavrò più mai.
Ma nella tua bella mano, o donna, tu tieni
il pegno sacro d’una eterna giovinezza.

L’immagine finale, di mitico ricongiungimento con una Beatrice dell’ideale, tornerà nel finale simbolico del “romanzo” del ’29, Hebdòmeros; ma più conta notare, stavolta, come il misterioso fenomeno del cielo aspiratore produca uno scenario molto simile a quello dell’Enigma di un pomeriggio d’autunno (le piazze deserte, i piedistalli vedovi), nel quale resta traccia, pure, del malessere “torinese” («C’est la chaleur qui fait ça!»): in quel resto di tepore vitale sulla sommità del cranio, in quel palpito superstite. La beatitudine stanca di cui parla de Chirico è precisamente il sentirsi trasmutati, dolcemente e ancor sempre stanchi di cui diceva il Nietzsche di Aurora. Solo questa è la condizione metafisica – aurorale davvero – che non si può più dire malattia, ma salute ancora non è: quella in cui la natura intera sembra convalescente.

La grande separazione dal mondo dei vivi – l’isolarsi assolutamente dal mondo e dalle cose di cui parlava Schopenhauer –rappresenta il passaggio ineludibile di una linea d’ombra fatale: il picco dell’estate come il momento critico, il bivio d’Ercole che divide la strada della guarigione da quella della catastrofe. L’avatar Nietzsche, lui, non era riuscito a guadagnarsi la via della salvezza. Ma con l’infinita convalescenza delle sue Piazze d’Italia de Chirico ci dice che, dalla crudeltà senza nome di questo cielo aspiratore, è possibile anche salvarsi. E allora, quando quel momento alla fine verrà, davvero non si potrà ascoltare della musica senza piangere.

In copertina: Giorgio de Chirico, Presente e passato, 1936 (particolare)

I testi di de Chirico sono citati dalle seguenti edizioni:
Scritti/1. Romanzi e Scritti critici e teorici, edizione diretta da Achille Bonito Oliva, a cura di Andrea Cortellessa, Milano, Bompiani, 2008;
Lettere 1909-1929, a cura di Elena Pontiggia, Cinisello Balsamo, Silvana, 2018;
La casa del poeta. Tutte le poesie in versi e in prosa, in francese e in italiano, tradotte dall’autore e da Valerio Magrelli, a cura di Andrea Cortellessa, Milano, La nave di Teseo, 2019;
Memorie della mia vita [1962], con scritti di Paolo Picozza, Franco Cordelli ed Elisabetta Sgarbi, Milano, La nave di Teseo, 2019.

Altri testi citati:
Friedrich Nietzsche, Umano, troppo umano [1878], traduzione di Sossio Giametta, introduzione di Mazzino Montinari, Milano, Adelphi, 1965;
Id., Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali [1881], traduzione di Ferruccio Masini, introduzione di Giorgio Colli, Milano, Adelphi, 1964;
Id., Ecce homo. Come si diventa ciò che si è [1888], a cura di Roberto Calasso, Milano, Adelphi, 1969;
Id., Lettere da Torino, a cura di Giuliano Campioni, traduzione di Vivetta Vivarelli, Milano, Adelphi, 2008 (cfr. Id., Epistolario, volume V, 1885-1889, testo critico di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, traduzione di Vivetta Vivarelli, Milano, Adelphi, 2011);
Id., Intorno a Leopardi, a cura di Cesare Galimberti, Genova, il melangolo, 1992;
Karl Jaspers, Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare [1936], a cura di Luigi Rustichelli, Milano, Mursia, 1996;
Anacleto Verrecchia, La catastrofe di Nietzsche a Torino, Torino, Einaudi, 1978;
Maurizio Calvesi, La metafisica schiarita. Da de Chirico a Carrà, da Morandi a Savinio, Milano, Feltrinelli, 1982;
Wieland Schmied, L’arte metafisica di Giorgio de Chirico nel suo rapporto con la filosofia tedesca: Schopenhauer, Nietzsche, Weininger [1982], traduzione di Donata Maria Carbone, in De Chirico nel centenario della nascita, Catalogo della mostra, Venezia, Museo Correr, 1 ottobre 1988-15 gennaio 1989, Milano, Mondadori-Roma, De Luca, 1988, pp. 65-78;
Gilles Deleuze, Critica e clinica [1993], traduzione di Alberto Panaro, Milano, Cortina, 1996;
Leonard Sax, What Was the Cause of Nietzsche’s Dementia?, «Journal of Medical Biography» 11, 2003, pp. 47-54;
Michael Jakob, Il paesaggio, traduzione di Adriana Ghersi e dell’autore, Bologna, il Mulino, 2009;
Pietro Citati, Nietzsche, viaggio fatale oltre il confine della follia, «Corriere della Sera», 30 novembre 2011;
Riccardo Dottori, Giorgio de Chirico. Immagini metafisiche, Milano, La nave di Teseo, 2018;
Fabio Benzi, Giorgio de Chirico. La vita e l’opera, Milano, La nave di Teseo, 2019.

Andrea Cortellessa

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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