Mi raccontava mio padre di una jam session improvvisata con Philly Joe Jones, in una notte imprecisata degli anni Settanta al Music Inn, dopo un numero altrettanto imprecisato di bicchieri di vino; mi raccontava di come Philly, che aveva sempre l’aria di uno che non sapeva mai esattamente dove fosse né come ci fosse arrivato, in un eccesso di eccesso durante l’assolo, avesse avvicinato la bocca al tamburo e iniziato a gorgheggiarci sopra come si fa con un bicchiere sull’orlo dello straripamento. Sulla scia dello stesso esubero, mio padre riduce in frantumi uno strumento; Philly ne prende un pezzo, lo avvicina alla bocca e lo morde. Alla fine della serata (che era forse già un altro giorno), per avere una traccia permanente di quell’istante appena consumato, papà chiede a Philly di autografare il frammento morso e lui, con un pennarello non indelebile, scrive: «tutto quello che posso dirti è che ti amo». Tornato a casa, nel tentativo di fissare per sempre la scritta e il ricordo, mio padre vi stende sopra strati e strati di colla vinilica, con così tanta cura da cancellare completamente la frase e restituirla così alla permanenza effimera della memoria.
Mi raccontava anche di come avesse capito la genialità di Elvin (Jones) vedendolo scendere le scale, di come i suoi arti fossero animati ciascuno da un moto proprio, come se il tronco fosse lì solo per tenere insieme quei frammenti ed evitarne la dispersione. L’immagine-racconto di quel corpo disarticolato, e di tutti gli altri ricordi, si mischiava e si confondeva con l’odore africano delle pelli di tamburo lasciate ad ammorbidire per giorni nella vasca di casa, con i suoni artificiali provenienti dalle casse dello stereo e quelli degli strumenti “vivi” che tuonavano sotto le sue mani sovrapponendosi, infine, alle immagini delle fotografie appese sulle pareti dello studio dove, mischiate ai “ritratti di famiglia”, si affacciava un poster di Monk, di quel “volteggiatore” che si fermava solo davanti allo strumento come qualcuno che finalmente avesse trovato quello che cercava. C’era poi la fotografia che ritraeva mio padre con Dizzy Gillespie: istante dilatato di un tempo sfinito dove i due, separati da un tavolino soffocato da un groviglio di bicchieri svuotati come reduci di una battaglia appena conclusa, suonano divertiti, totalmente ignari dello sguardo altrui, in una perfetta adesione all’istante e alla vita.
Questa danza sinestetica dove suoni, odori, immagini e ricordi – più o meno alterati dalla tendenza proiettiva ed estetizzante della memoria permutata in racconto – si confondono l’uno con l’altro in un perpetuo e inafferrabile travaso sensoriale, trova una sorprendente coincidenza con le “storie di jazz” raccontate da Geoff Dyer in Natura morta con custodia di sax (But Beautiful. A Book About Jazz, 1991). Recentemente ripubblicato dal Saggiatore con una nuova prefazione dell’autore (dopo una prima memorabile edizione italiana, pubblicata da Instar libri nel ’93, e già ripresa da Stile Libero nel 2013), il libro nasce dal desiderio di costruire una «narrazione finzionale» sulla vita di alcuni tra i più grandi jazzisti del secolo scorso (Lester Young, Thelonious Monk, Ben Webster, Mingus, Chet Baker, Art Blakey, intervallate dal racconto on the road su Duke Ellington), aderendo alla stessa logica del linguaggio jazzistico, dove si alternano improvvisazione e citazione (queste ultime mai “dichiarate” ma camuffate nel testo come un ricordo vago che solletica la memoria del lettore), il vero viene dissolto nel falso e il documento dissimulato nell’immaginazione.

Trasferitosi in America per scrivere il libro, nella prefazione Dyer racconta di quando «passeggiava nel quartiere dove viveva Thelonious Monk con la sua musica in testa – un’esperienza che induce una sorta di sinestesia, dove il sentire si fa vedere e viceversa». C’erano poi le fotografie di jazz: «le migliori», dice il “discepolo” di John Berger, «sono cariche di una loro sonorità» e lasciano trapelare «il brusio di sottofondo del locale e il tintinnio dei bicchieri». Straripamento del suono dai bordi del linguaggio visivo, a cui si aggiunge quello della dimensione spazio-temporale «perché, nonostante colga un attimo infinitesimale della realtà, la durata percettiva di quell’immagine si estende per parecchi secondi» inglobando in sé «quel che è appena successo e ciò che sta per succedere»: un esondamento che dilania e dilata l’istante creando quella perturbante fuoriuscita dalla fissità del tempo fotografico estendendo l’immagine fuori da se stessa.
Questa eccedenza incontenibile (che corrisponde pure a quella delle vite dilaniate, sfinite ed eccedenti dei protagonisti) percorre anche la sostanza linguistica del testo definito dallo stesso autore come «troppo scritto» e pervaso da un «lirismo copioso», dove l’aggettivo volteggia attorno al sostantivo – come Monk fa con il suo pianoforte – e metafore, similitudini e analogie affollano le pagine di tutti quei “come se” che tradiscono l’insufficienza della parola attraverso il suo eccesso. Allegorismo che estende ogni cosa al di fuori dalla propria immanenza dove scrittura, immagine, suono ed esistenze non coincidono mai del tutto con se stesse ma, come entità debordanti e fluttuanti, mettono ogni cosa in movimento, in un perpetuo transito che tutto rende inafferrabile e incollocabile.
Impermanenza e transito sono d’altronde consustanziali sia al linguaggio del jazz che alle vite dei suoi protagonisti: i complessi jazz sono «organismi mobili dalla vita temporanea» – si legge nella postfazione – e le vite convulse e accelerate dei musicisti non conoscono sosta, consumandosi (e consumandoli) nell’infinito istante della vita vissuta che non ha tempo di pensarsi. Esemplare in tal senso l’“interludio” dedicato a Ellington: un interminabile viaggio in macchina con il suo autista all’inseguimento delle tappe dei vari tour, dove capitava spesso che, «quando entrambi avevano erroneamente dato per scontato che l’altro conoscesse il luogo del concerto»,si trovassero a chiedere ad altri «dove suonasse Duke Ellington quella sera». Talmente assenti a sé nella perfetta adesione al “reale” – meccanismo che ricorda pure quella Zona tarkovskiana amata dall’autore (si veda Zona. Un libro su un film su un viaggio verso una stanza, 2006, il Saggiatore 2018), quella zona che «non simboleggia niente» perché coincide con se stessa e con la vita – che devono delegare ad altri l’invenzione e la locazione dell’Io: «Dove suono? Dove sono?», domandano queste “vere presenze” alienate, lasciando così quel vuoto di inesattezza e indeterminazione che permette l’infiltrarsi della “narrazione finzionale” in cui proiettiamo il nostro desidero di far convergere suono, immagine, vita e racconto in quelle icone dislocate e diffuse che non si appartengono mai del tutto. D’altronde, ci dice Berger, «le teorie circa l’ispirazione dell’artista sono tutte proiezioni a lui riportate dell’effetto che la sua opera ha su di noi. La sola ispirazione che esiste è l’intuizione delle nostre potenzialità». Quelle che certo non mancano al suo caro amico Dyer.
Geoff Dyer
Natura morta con custodia di sax
traduzione di Riccardo Brazzale e Chiara Carraro
il Saggiatore 2019, pp. 238, € 20
In copertina: Geoff Dyer (ph. Matt Stuart)