In una delle sue lettere a Franz Xavier Kappus, Rainer Maria Rilke osserva che essere artisti vuol dire soprattutto saper pazientare, “saper maturare come un albero, sereno, anche nelle tempeste di primavera.” In questa attesa il tempo appare relativo, privo di qualsiasi termine, e anche dieci anni possono apparire come un nulla.
Dieci sono anche gli anni che intercorrono tra le prime fotografie realizzate da Gabriele Basilico e quello che storicamente è riconosciuto come il suo primo grande lavoro, Milano. Ritratti di fabbriche (1978-80). In questi dieci anni, che vanno dal 1969 circa al 1980, la coscienza fotografica del grande maestro, come in un romanzo di formazione, si delinea e matura, in una climax costante e regolare. È necessario però, per una comprensione reale di questo periodo di formazione, focalizzare quelli che sono gli aspetti distintivi di questa produzione, uno su tutti la presenza costante della figura umana.
Gabriele Basilico è noto come fotografo del paesaggio urbano, misuratore oggettivo dello spazio, fotografo del “vuoto come protagonista di sé stesso”. Artefice di rappresentazioni analitiche e rigorose, dove tutto ciò che è animato è pressoché assente, dove ad assumere valore sono le architetture, divenendo soggetto attraverso “l’evento rivelatore della luce”. Mai ci si aspetterebbe che la sua ricerca inizi invece volgendo lo sguardo alla persona, e che questa presenza sia significativamente protagonista delle sue fotografie durante tutti gli anni Settanta.

La sua prima mostra Glasgow. Processo di trasformazione della città è presentata alla galleria “Il diaframma” di Lanfranco Colombo nel 1971. Alla serie esposta appartengono le fotografie realizzate nella città scozzese nel 1969, tratte da un unico rullo eseguito in un solo pomeriggio di lavoro. Basilico immortala la zona periferica della città, dove tra i palazzi, molti dei quali fatiscenti, giocano i bambini, testimoni di quel processo di trasformazione della città che si scorge, inesorabile, quando la lente punta all’”infinito”.
Il viaggio è il topos che permea le prime fotografie di Gabriele Basilico, che nel 1970 in Iran e Turchia, e nel 1971 in Marocco realizza due reportage fotografici con l’idea di poterli pubblicare una volta rientrato a Milano, ma che resteranno totalmente inediti fino al 2015-16 (Gabriele Basilico, Iran 1970 e Marocco 1971, Humboldt Books).

Milano è invece il luogo in cui, a partire dai primi anni Settanta, inizia la sua attività di documentazione urbanistica e sociale. Ciò che più lo interessa è la trasformazione del territorio, i substrati che si delineano all’interno delle città. Sono gli anni dopo il Sessantotto e il mondo della fotografia, così come quello dell’arte, aveva reagito prontamente al richiamo verso le tematiche sociali. In questo contesto si inseriscono le sue prime fotografie su Milano.
La necessità di testimoniare le realtà sociali lo porta, nel 1976, a lavorare con un gruppo di amici a un progetto che affronta le tematiche sociali del momento. Basilico si muove all’interno di alcuni collettivi del Proletariato Giovanile. Prima il centro sociale in via Argelati 38 poi il parco rinominato “Canada” di Cinisello Balsamo. Si destreggia con la dinamicità del fotoreporter, socializza, domanda, si interessa, ma il suo approccio è allo stesso tempo attento al contesto urbano. Studia i luoghi, le architetture, poi le persone che le abitano.
Nell’estate del 1976 la rivista di contro-cultura Re Nudo organizza al parco Lambro il “Festival del Proletariato Giovanile”. Tre giorni di musica, cultura e dibattito politico. Assieme a Paolo Deganello, Raffaello Cecchi, Renato Ferraro, Giorgio Origlia e Giovanna Calvenzi, documenta il festival e realizza il cortometraggio Proletariato Giovanile montando le fotografie in truka (come Chris Marker in La jetée, 1962) e alternandole a delle interviste.

L’attenzione per il sociale e l’interesse per l’essere umano crescono ancora durante l’anno successivo quando Thomas Maldonado lo incarica di documentare, per Casabella, il nuovo villaggio Matteotti di Terni, progettato da Giancarlo De Carlo. Il progetto di De Carlo si fondava sui canoni dell’architettura partecipata, che attraverso la collaborazione con gli abitanti degli spazi, promuoveva una nuova idea di architettura. Basilico restituisce dapprima un quadro generale del contesto architettonico, poi sceglie di concentrarsi sugli interni, che vengono presentati in netto contrasto con le architetture, nel modo in cui gli inquilini, nonostante gli accordi con De Carlo, avevano scelto di arredare la casa. Così gli inquilini vengono ritratti in posa, davanti a quegli arredi che nel tentativo di ammorbidire il rigore architettonico, lo snaturano e lo rendono obsoleto, testimoniando l’esito ambiguo di un progetto che era nato con intenti democratici e innovativi. L’idea era nata probabilmente sulla scia di Suburbia (1973) di Bill Owens, ed elaborata poi con Gianni Berengo Gardin, che in quegli anni stava lavorando assieme a Luciano D’Alessandro alla realizzazione di Dentro le case (1977): ritratti ambientati che diventavano un’attenta indagine sociale.

Nel 1978 viene incaricato da Alessandro Mendini e Franco Raggi, allora rispettivamente direttore e caporedattore di Modo, di realizzare un rilievo fotografico delle discoteche e delle sale da ballo in Emilia-Romagna. Quella di quegli anni è la Romagna dei romanzi di Pier Vittorio Tondelli, in cui il turismo impazza e la riviera durante la stagione estiva si trasforma in un enorme parco dei divertimenti fatto di feste, droghe, sesso e desiderio di libertà. Attorno a questo contesto si collocano le fotografie di Gabriele Basilico, che dopo una restituzione analitica delle diverse strutture architettoniche dei dancing, si concentra sulla vite che li popolano. Il flash che scava nel buio cattura i movimenti, i sorrisi, i gesti, le posizioni, le presenze. Scene di ballo, di scambi emotivi, di movimenti concitati e frenetici. Una restituzione antropologica delle frequentazioni di quei non-lieux dove diverse generazioni convivono nell’alternarsi delle note del tradizionale liscio e della nuova dance.

Nello stesso periodo inizia, con la giornalista Tamara Molinari, che collabora abitualmente con Abitare, un progetto sotto alcuni aspetti complementare. Sul finire degli anni Settanta i grandi locali di avanspettacolo e di strip tease di Milano, come il Teatrino, il Colibrì, l’Hermes, lo Smeraldo, stavano oramai spegnendosi. Per circa due anni frequenta i night club milanesi, conosce gli artisti e le artiste che ci lavorano, fa amicizia, viene accolto dietro le quinte, nei camerini. Racconta l’ambiente e le persone che lo frequentano e lo fa in maniera oggettiva, restituendo una realtà priva di giudizio. Il clima che permea le fotografie è sereno, a volte malinconico, ma mai triste o squallido, sempre privo di ogni tipo di erotismo o sensualità. Non importa quale sia il loro mestiere, ritrae uomini e donne durante il turno di lavoro. Gli interessano le persone, il loro modo di vivere, i loro costumi, l’ambiente, la comunità, lo spettacolo.

Questi dieci anni si concludono a Milano, dove tutto ha inizio e dove Basilico sempre fa ritorno. Lo studio perentorio della città e l’interesse per l’urbanistica lo portano nella primavera del Settantotto a iniziare un lavoro sistematico sulle strutture di produzione della periferia milanese. Il progetto iniziato con il tentativo di una restituzione d’insieme si chiude gradualmente sul particolare. L’edificio industriale è privato del contesto ambiente, viene isolato e ritratto. Antropomorfizzato. Ne coglie i lineamenti, i tratti più o meno delicati. Le geometrie e le imperfezioni diventano protagoniste del racconto, la fabbrica diventa una metonimia della città, degli operai e dei suoi abitanti.
Matura questa scelta in dieci anni di sperimentazione, nei quali la figura umana è stata protagonista della sua fotografia, fino alla consapevolezza che nella restituzione del contemporaneo con le sue sfaccettature e contraddizioni la presenza umana non sia necessaria, a discapito dell’architettura, che è invece rappresentazione, nella sua complessità e stratificazione, del contemporaneo. In questo modo la persona esce dal suo racconto, e non tornerà più a farne parte, ne esce perché superflua, di troppo, non necessaria.

In copertina: Gabriele Basilico, Dancing in Emilia, 1978