Come sparigliante contributo al nostro «ritratto» dedicato a Luigi Ghirri, Ermanno Cavazzoni ci ha suggerito di pubblicare questo racconto di Andrea Ruggeri. Frutto della fantasia dell’autore, si capisce, che naturalmente non vuole istruire a realizzare “falsi” effettivi: i quali in ogni caso, con questo precedente, sarebbero resi ipso facto inefficaci. Sabato 4 dicembre alle 14.30, alla Sala Nettuno della “Nuvola” dell’EUR, a Roma, verrà presentato da Stefano Chiodi e Andrea Cortellessa il volume Niente di antico sotto il sole (Quodlibet pp.354, € 22) che raccoglie «Scritti e interviste» di Ghirri.
L’ho fatto per soldi, così sgombriamo il campo da tutti quegli invadenti che ci vedono secondi e terzi fini artistici. Prendetelo come un compendio a quel libretto intitolato Lezioni di fotografia, che era una sbobinata di lezioni di Ghirri rimesse insieme da Giulio Bizzarri. Fate finta che ci sia una cassetta mai sbobinata con dentro le istruzioni del fotografo per ricostruire esattamente la sua opera più complicata: una dea pagana. Non so a chi interessi questo esercizio, non che freghi a curatori e critici, ho il dubbio a nessuno, però casomai può divertire gli Eredi Ghirri che sanno bene di cosa parlo. Ora sarò un po’ tecnicista, non si può farne a meno, non sto mica facendo della poetica. Dunque, per ottenere un risultato perfetto dovete seguirmi nei dettagli, perché sono decisivi. Prima di tutto concentrarsi sul repertorio di Ghirri e scartare tutto quello che è paesaggio, quello è infalsificabile, ci mancherebbe… rimane una sola area dove rovistare con accuratezza, quella degli oggetti che lui ha composto in piccole scenografie, si tratta perlopiù di cose che stavano in casa e cianfrusaglie comprate ai mercatini. Tutto questo repertorio fotografico è stato denominato genericamente still life, sono centinaia di foto di oggetti composti insieme su diversi piani, strati e prospettive. Tra tutti questi ve ne sono di veramente cari sul mercato dei collezionisti, un mercato ampliato grazie alle scritture critiche dei primi estimatori che si sono sentiti in dovere di fargli un tributo, tra questi ci sono anche fotografi amici di Ghirri che si sono dimenticati che erano fotografi e hanno iniziato a scrivere come biografi del loro venerato.
Nel periodo successivo alla morte di Ghirri, diciamo da tutti gli anni novanta del secolo scorso, c’è stato l’avvento dei critici e curatori fotografici di professione, una congrega che si è inventata un ruolo in mancanza di un vero mestiere, oggi più numerosa dei fotografi. Questi qua, che nell’odierno vogliono dare un senso all’epica ghirriana, sono dei colti ignoranti con la presunzione che scrivere di fotografia sia come scrivere di ornitologia per convincere gli uccelli a cambiare stile di vita. È a questi pensatori sensibili che straparlano del fotografo Ghirri, che vantano un’intimità sospetta con lui, di sapere tutto di lui… per poi parlare solo di loro, che vorrei dedicare questo falso.
Falsità per falsità…

Iniziamo: tanto per dirla chiara io non sono un colto ignorante, un curatore, un critico. Io sono un incolto istruito, non un artista, non un inventore, sono uno che rimaneggia, che sa come usare le mani e gli occhi, e rispetta il cuore e la storia della materia. Mentre tutti questi altri erano occupati a vendere la loro fine intellettualità attraverso i paesaggi di Luigi Ghirri, io mi sono concentrato sulla foto pagana che meglio rappresentava la scissione tra il prima e il dopo nell’opera del fotografo, il prima still life e il dopo paesaggiofilo. Scissione è un termine che rende bene l’idea, perché la potenza di questa foto sta nel fatto che è scissa, tagliata a metà… la prima volta la vidi appesa non incorniciata nel salone della casa di Giulio Bizzarri a Reggio Emilia, per l’esattezza non era proprio una foto ma una gigantesca Polaroid, quindi un pezzo unico non replicabile. Giulio la chiamava l’Amazzone, era uno dei 23 soggetti polaroid in formato 50×60 cm scattate da Ghirri ad Amsterdam tra il 1980 e il 1981 con una Giant Polaroid, un prototipo grande come un armadio della nonna messo a disposizione dal giovane Manfred Heiting, collezionista e manager della Polaroid Corporation. Questi due devono essersi ben divertiti, ho invidia…

Delle 23 Polaroid sicuramente l’Amazzone è il soggetto più enigmatico, misterioso, complesso.
È composta da quattro pezzi: una dea, una carta millimetrata, un curvilinee, una puntina. Nella prefazione del libro Polaroid Quintavalle ne descrive 7 soggetti su 23, ma non questa, (tutte le pola sono senza titolo, vengono solo nominate come still life Amsterdam). Diciamo che fare un falso dell’Amazzone è stata una pop ispirazione, il mio personale tributo a quella che considero l’immagine più potente di Ghirri (che altri non siano d’accordo non me ne frega niente).

Ricerca (tecnica e filologia): quattro pezzi di non facile reperimento.
Primo pezzo: L’Amazzone. Di statue di amazzoni del periodo greco-romano ce n’è una fotta in tutti i musei del mondo da Roma a Berlino a Parigi, ma la stampa giusta usata da Ghirri è quella di una guerriera pagana: Ippolita capa delle Amazzoni. La copia romana di Fidia del II secolo A.C. si può ammirare a Città del Vaticano, museo Clementino. È detta Amazzone Mattei, arco spezzato, piede rostrato. Trovare la stampa è stata una tipica impresa da incolto istruito: scannare il web di tutti i musei e le collezioni finché è apparsa in alta risoluzione nell’archivio digitale dell’università di Ghent. Una gentile richiesta dall’Alma Mater di Bologna, una gentile risposta: file digitalizzato alla perfezione, 450 mb (più che sufficienti). La riproduzione a stampa del 1781 è opera di Piranesi e del suo illustratore Tommaso Piroli. “Amazone vestita di finissima veste succinta legata sotto il petto, armata d’arco e faretra e col legame dello sprone al sinistro piede… alla santità di nostro signore Pio Sesto…”.

Poi sono andato al Museo dell’Archiginnasio di Bologna con un pass universitario, ho chiesto di consultare un libro di stampe d’epoca di Piranesi, ho controllato la carta, la consistenza, e mi sono fregato un pezzettino piccolissimo come campione dalla penultima pagina bianca (chiedo scusa, tanto non se ne accorge nessuno). La riproduzione su carta del file è stata brigosa non tanto per la resa cromatica ma perché bisogna stampare con una carta moderna che sia quasi gemella dell’originale. Dopo quattro tentativi andati a buca, il mio stampatore scova tre metri dimenticati di carta cotone da 308 gr Photo Rag Hahnemuhle, una carta opaca materica, irregolare, usata negli standard museali che il plotter mastica a fatica come un polpettone, però dopo un tot di tentativi è andata da dio. E voilà il primo pezzo.

Secondo pezzo: il curvilinee. È un aggeggio fantastico da figurinista utilizzato nel mondo preistorico della moda illustrata degli anni ’60, rappresenta una sinuosa figura femminile.
Nel gergo dei templates che si disegnavano in punta di matita era conosciuta come French Girl Curve. Roba sexy, una pin up obsoleta predigitale. Scovare il template è stato come trovare il pennello giusto per falsificare un Vermeer. Dunque c’è un tizio hippie californiano che ha ridisegnato il gioco del Monopoli e faceva l’art director per National Lampoon, poi ha aperto un museo di meravigliose cianfrusaglie analogiche che una volta servivano per disegnare, colorare, illustrare. Centinaia di attrezzi che prevedono una manina d’oro per usarli mandati in pensione dai software digitali e tra questi, nel suo sito The Museum of Forgotten Art Supplies.com, lo scovo nel settore Drawing Templates Archive: proprio il curvilinee usato da Ghirri color rosso-arancio. Mando all’hippie una mail di due righe, risposta celere: quello che cerco non è più in commercio da decenni, era fabbricato dalla Martin Universal Design di Detroit con il codice 20-FC118, l’azienda è fallita. Sarà pure fallita ma io sono nato nella terra della meccanica di alta precisione, che per caso Lou mi manderesti le misure e lo spessore e anche la tacca colore Pantone approssimativa?
34.5x16x3mm/Pantone 2347 C.
Come Ghirri se lo sia procurato boh, probabilmente il solito mercatino, che poi chissenefrega, ma importante è trovare chi me lo replichi alla perfezione, mando l’immagine a un paio di aziende che fanno ancora curvilinee, tutti affascinati mi spiegano che è impossibile, bisogna fare uno stampo apposta, costi vertiginosi. Non mi rimane che l’artigianato spinto, mando la French Girl a un tizio che fa il profilatore di sagome in un’azienda metalmeccanica di Bologna, fanno prototipi. Il tipo la mette così: noi abbiamo una scorta di fogli di plexiglass di tutti colori e gli spessori, li usiamo per fare modellini semitrasparenti in scala che mostrano ai clienti come certe macchine per il packaging sono composte e assemblate, se ne occupa l’officina prototipi dove tu non puoi entrare perché è secretata, però dammi questo pezzo di carta con le quote che ci penso io.
Quanto vuoi?
Quante copie?
Una
Ma scusa a cosa ti serve?
Un’opera d’arte
Allora non voglio niente, sei un artista come noi, te la faccio a gratis
Esiste una fresa CN Pratix SCM con controllo numerico a 5 assi che taglia un Plexiglas Rohm GS arancio con una precisione al micron, quando l’affare entra in pista può tracciare un verso di Dante in un centimetro quadro ed è perfettamente nitido anche se lo ingrandisci cento volte, per fare la French Girl Curve ci mette 15 secondi, bordi perfettamente smussati e inclinati (serve per riflettere sotto la luce lo spessore).

Terzo e quarto pezzo: una carta millimetrata, una puntina. Facile ma non facilissimo. Esistono perlomeno 20 tipi di carta millimetrata di diversi produttori, quella usata da Ghirri va interpretata perché la Polaroid altera il croma, dall’osservazione dell’originale di Giulio Bizzarri doveva essere con un punto di arancione basso, tendente al grigio, la Canson le produce in rullo 0.75 x 10 mt e dopo un tot di tentativi quella verosimile è la C200012112. Poi la puntina americana, cioè a testa piatta tornita di alluminio che non corrisponde a nessuna attualmente in commercio, quindi anche questa volta il sagomatore ha fatto tornire a gratis la testa secondo una proiezione attendibile, ha forato la base e io ci ho incollato con il metacrilato uno spillo.
Prima di passare alla composizione vorrei mettere in chiaro che non appartengo a quelli occupati a vendersi attraverso le foto di Ghirri, con tutti quegli espedienti merdosetti e così fini… io vendo solo bella merda ben fatta, è un modo come un altro per far soldi e poi mi diverto anche, non so loro… e poi l’ho già detto e lo ripeto per i distratti: sono totalmente disinteressato alla paesaggiofilia ghirriana, che mandò in oblìo gli still life… un vero omicidio quello… e me lo ricordo bene come iniziò quel disinteresse per amazzoni e affini, fu con l’avvento dello scrittore Celati, che era un naturalista con le migliori intenzioni e senza secondi fini… fatto sta che lui si sentiva arido… e la sua sete aveva trovato però sangue fresco nel fotografo… a quel tempo lo scrittore Celati era un presuntuoso dall’aria mite, uno scorbutico ma con del genio, e anche uno studioso. Si rimproverava ancora a distanza di anni di essersi compromesso con certi giovanilismi nel 1977, di essere caduto in una facile certezza sullo stato delle cose e del mondo, lo si poteva capire. All’inizio degli anni ’80 si era come svuotato, pare che non gli andasse più di scrivere, ma aveva un’autentica passione per l’insegnare e per i suoi discepoli, alla scuola del dubbio…per me questa sua svuotaggine ha inquinato l’ispirazione di Ghirri, la sua purezza… oppure è una falsità… Ghirri si è fatto riempire di storie fascinose da Celati e sono diventati pappa e ciccia… ma io insisto, per me l’Amazzone è come l’ultima immagine di una geometria euclidea poi ingoiata da uno scrittore geomante… dopo, tutte quelle tantissime foto celebratissime nelle campagne e nelle città… sono solo una distrazione… anche belle per carità… ma era iniziato uno strabismo nell’occhio di Ghirri…
Bando alle chiacchiere, si inizia la composizione, operazione delicata da fare con le mani di fata: prima si strappa l’Amazzone Ippolita all’altezza della cintola, taglio sfrangiato e irregolare con un dente scavato quasi al centro (meglio usare un bisturi Swann-Morton a lama flessibile). Poi così scissa dalle gambe la si pone sulla parte superiore di un cartone rigido coperto di carta millimetrata, non deve essere incollata ma solo fissata ai bordi perché sotto va infilato il curvilinee French Girl da cui spunteranno solo due gambe bioniche che finiscono con una scarpa col tacco. Così si crea un effetto di rilievo tra la stampa strappata e il curvilinee infilato sotto. L’ombra è creata dalla luce che viene dall’alto. Attenzione, luce naturale. Infine la puntina a testa piatta in alluminio, questa serve per fissare la French Girl affinché non cada a terra quando la maquette viene appesa alla parete per essere fotografata. Ma c’è una funzione anche di registro: se fai varianti di posizione del curvilinee rispetto al busto la puntina serve a fissarle di volta in volta. La luce radente verticale è decisiva: cattura i tre millimetri di spessore della French Girl e lo spazio di strappo della stampa, un rilievo su tre piani di un esoscheletro alieno ficcato in un corpo antico, una scarnificazione, un’ingegneria metà classicista metà pop. Tutte seghe che ci facciamo io e Ghirri, che dall’aldilà sta a guardare quel che faccio qua.
Che si diverta anche lui? Può darsi. Solo uno scherzo perfettissimo per stupire il collezionista Heiting che lo aveva invitato a provare la Giant Polaroid. L’Amazzone è il giocattolo più complesso mai inventato da questo fotografo, un giocattolo euclideo… un’intuizione da greco anarchico… una invenzione da geometra modenese. Può darsi che le cose che sto dicendo adesso stiano bene in bocca ai critici, ma questo dimostra che io falsifico anche i critici…
Ok passiamo allo shooting, dovete sorbirvi un po’ di pedanteria tecnica, sennò non si capisce una fava di come sono arrivato a un risultato ineccepibile (non siamo a un festival di fotografia ma nel covo di un mago). Si parte: costruire la maquette originale 35x25cm che sarà fotografata in pellicola Kodachrome con una camera Mamya in formato 6×7 – obiettivo 85 mm (forse 1/4 di secondo diaframma 5.6).
Si riparte: rifotografare la stessa maquette in Polacolor 25 asa con la Giant Polaroid 50×60, una bestia da un quintale 60x105x150 cm. (mi sono informato da Bizzarri: Ghirri si porta tutti i materiali necessari in valigia e se ne va ad Amsterdam in auto).
Con la Giant l’armamentario cambia: è tutto più gigantesco e lento, l’obiettivo è un Fujinon-A 600 mm f 90, il tempo di esposizione è di 70 sec con diaframma f64. Se prima tutto era snello come in una gara di galoppo adesso tutto si fa lento come in groppa ad un elefante.
Ora Ghirri fa più scatti lenti e lunghi dell’Amazzone, prova e riprova, niente viene bene al primo colpo, corregge luce, tempi e diaframmi, una volta indovinata l’esposizione inizia a fare variazioni nella maquette, piccoli aggiustamenti nello spostare di pochi millimetri la French Girl rispetto al busto dell’Amazzone Ippolita, riposizionando la puntina ogni volta. Alla fine della fiera nessuna delle Polaroid è uguale all’ altra, come se avesse già in mente che ogni cliente voglia la sua Amazzone personale. Ho seguito esattamente questa replicazione variabile, una in formato 6×7 in negativo colore, l’altro in formato 50×60 in positivo Polacolor.
Scusate se mi sono comportato allo stesso modo, orsù chi vi dice che io abbia fatto solo un falso?

Ecco, ho finito, casomai ci sta una digressione per quei quattro/cinque collezionisti che hanno tra le mura una Polaroid di Amazzone mai una uguale all’altra. Sapete soci a me piace un sacco un film di Bryan Singer che s’intitola I soliti sospetti… nel finale si vede una bacheca alle spalle del detective mentre interroga il presunto sospetto Keyser Söze, è fitta di volantini, appunti, ritagli, foto. Ebbene Keyser Söze dimostra al detective di dire la verità, di essere innocente, inventandosi una storia che non è altro che la citazione di tutti i pezzi contenuti in quella bacheca, un puzzle di informazioni che sembrano verosimili perché sono già nella testa dello sbirro, e lo convince, e Keyser Söze è libero, e se ne va… lui è la falsità indistinguibile dall’autentico.
Quando lo sbirro si accorge del trucco è troppo tardi… ha già comprato la versione dei fatti… e dunque miei curatori e collezionisti voi siete ancora peggio del detective, a voi non interessa il processo di creazione (a me invece tanto), siete incapaci di scovare informazioni vere in una storia falsa, o viceversa… vi trastullate con l’opera e dio vi benedica.
Per chiuderla: la mia Amazzone ghirresca, la mia Ippolita farlocca, qualcuno insinua che l’ho venduta a un’asta black ad Astana, aggiudicata a un collezionista cinese, un vero giallo. Che gli ho spacchettato l’opera e mi sono accorto con vero piacere che lui era un alfiere della più brutale passione asiatica, con il suo non parlare di cultura cercava un Amazzone uguale a quelle sui cataloghi, ha controllato distrattamente anche la firma di Ghirri (la cui contraffazione è semplicissima, poi basta usare un pennarello Archival Ink Micron 08).
Non c’era più un artefatto originale libero per lui? Si insinua che sia bastato tirare fuori un rullino fuori dal frigo e stamparglielo in sprezzo a tutti questi assatanati a scovare sempre un Luigi Ghirri nuovo, la speciale analogia, che scimmiottano con mega mostre postume un’adorazione invadente che non è altro che furberia funeraria… tutte stronzate. Sono loro i falsari e io non sono un artista. Io non creo un bel niente… sono solo uno che lavora ai fianchi l’ammanco dell’originale per fare contento un cinese… sono un’eccedenza dell’autentico che non viene considerata valore ma impostura… ma io, a differenza di curatori, critici e collezionisti, non faccio parte di alcun archivio, quindi non archivierete il caso, la mia merce contraffatta supera sempre la frontiera dell’autentico, passa sempre la dogana, vedete di farvene una ragione… e dunque beccatevi tutte queste maledette Amazzoni in circolazione… e ditemi… chi è l’autore?…
Opps dimenticavo… Luigi Ghirri? Mai conosciuto in vita mia.