Una lezione di fotografia

20/11/2023

Qualche pomeriggio fa, durante uno spostamento in treno da Roma a Nettuno, ero seduta poco distante da un gruppo di giovani adolescenti che raccontavano con entusiasmo la giornata trascorsa nella capitale e quante foto vi avessero scattato. L’argomento ha catturato la mia attenzione nel momento in cui, volendo fare la conta degli scatti di tutti i componenti del gruppo, hanno pronunciato il numero: novecentosettanta.

Erano otto gli adolescenti, belli e vivaci, che parlavano di fotografia in modo compiaciuto, e mi è venuto subito da pensare che alla loro età non avrei potuto mai scattare un simile quantitativo, anche se mi fossi divisa il compito con altri sette compagni. Visto che proseguivano a discutere sulla questione, ero sempre più tentata di avvicinarmi al gruppo per chiedere se tutti quegli scatti fossero stati realizzati per uno specifico scopo. Al tempo stesso, però, temevo che la mia intrusione sarebbe stata accolta con diffidenza. A un certo punto mi sono fatta coraggio e ho deciso di presentarmi. Accolta da sguardi incuriositi accompagnati da grandi sorrisi, la risposta immediata alla mia domanda è stata che tutte quelle immagini sarebbero state custodite nel telefono, il cui sistema, passato un anno, le avrebbe poi riproposte in una cosiddetta “storia”. A quel punto ho chiesto se non avessero intenzione di stamparne almeno una parte, ma la risposta è stata ovviamente negativa. Una ragazza ha poi aggiunto che di tanto in tanto scarica qualche foto sul computer, mentre un’altra, in vena di confidenze, ha ammesso che la madre è fotografa e le stampa.

Devo dire che ho provato molto piacere quando, congedandomi da loro, ho sentito che la discussione sulla questione si protraeva, e che alcuni di quei ragazzi esprimevano il desiderio di provare a scattare fotografie con una macchina a pellicola. E ipotizzavano di farlo con euforia.

Tornata al mio posto, mi sono messa a riflettere sul fatto che da poco ho acquistato dieci lastre fotografiche, formalmente definite pellicole piane, di formato 10 x 12 cm a colori, e che le ho pagate 120 euro, corrispondente a 12 euro a pellicola, che è il costo di ogni singolo scatto; contro i 460 euro per un solo pacco da dieci fogli a colori di formato 20 x 25 cm. Questo costo si quadruplica in vista della superfice che è quattro volte superiore alla prima. Per cui il prezzo di ogni scatto è di 46 euro.

Una simile spesa non può che diventare motivo di riflessione nel tempo in cui fotografare è gratuito. Nata come sono con l’analogico, durante la mia formazione ero perfettamente consapevole di quanto ogni scatto dovesse essere eseguito con parsimonia studiandone le luce, madre dell’intera creazione, la ripresa e concependo a priori la dimensione dell’immagine. Sarà pure stata mera esigenza economica, eppure ciò ha voluto dire per me imparare l’esercizio all’attesa, e quello della selezione per ottenere il meglio. Quando si ha un costo da affrontare, la decisione di premere l’indice sul pulsante dello scatto è presa con estrema ponderatezza, dettata da due fattori: evitare gli errori e gli sprechi. Persino in condizioni di estrema velocità si tengono presenti tali requisiti per arrivare alla buona inquadratura del soggetto e alla sua qualità d’illuminazione.

La fotografia risulta ormai il mezzo più democratico, al pari di quello che un tempo si definiva letterario, tanto che tutti fanno fotografie e chiunque può aspirare a pubblicare il suo romanzo. Insomma: tutti credono di saper fotografare e in tanti pensano di poter esporre le proprie fotografie, così come non sono pochi coloro che ritengono che basti avere una qualsiasi storia da raccontare per poter produrre un romanzo. Senza dimenticare quanti si sentono autorizzati a parlare d’arte.

Proliferano pertanto i festival di fotografia con annesse letture di portfolio, così come quelli letterari. Per non parlare dei premi esistenti in entrambi gli ambiti, che pongono spesso l’accento su quanto l’opera in questione, fotografica o letteraria, risulti “tratta da una storia vera”. Questo fa riflettere su quanto l’attenzione pubblica preferisca di gran lunga il momento che per così dire coglie l’attimo fuggente, e non l’analisi più approfondita di una determinata epoca sociale.

Nel campo fotografico, nello specifico, l’abbattimento dei costi di produzione ha provocato una vera compulsione a “produrre”, che con l’avvento del digitale si è estesa anche al cinema, dove si è diffusa la pratica di procedere “per tentativi” ˗ di girare cioè in eccesso per poi selezionare la ripresa giusta ˗, che sarebbe stata impossibile al tempo della pellicola.

Tale malcostume ha diseducato varie generazioni al punto che, anche in luoghi cosiddetti sacri o dinanzi a opere che richiederebbero il silenzio, le persone rinunciano a posarvi direttamente gli occhi, schermati costantemente da telefoni cellulari che scattano foto. Vittima di tale trattamento è addirittura l’infotografabile serie dei Black Paintings di Mark Rothko. (Durante la visita alla mostra di Rothko, tuttora in corso presso la Fondation Louis Vuitton a Parigi, osservavo i visitatori fare foto, tra cui una signora giapponese di circa settant’anni che durante l’intero percorso su più piani, durato quasi tre ore, ha tenuto senza sosta il telefono tra i suoi occhi e le opere). Il mezzo è utilizzato al solo scopo di possedere? L’interesse dell’autore, si sa, era rivolto alla ricerca della luce più che al colore; la sua opera invita alla meditazione o alla preghiera…

Ora però nel campo della fotografia si assiste all’emersione di un fenomeno che sta trasformando radicalmente il rapporto con le immagini. Da quando difatti la fotografia è diventata linguaggio universale, è come se avesse preso il posto della scrittura nella comunicazione corrente. Così, invece di scrivere dove ci si trova, si fotografa direttamente il luogo o meglio ancora, grazie all’applicazione dei telefoni portatili, s’invia la posizione (fra l’altro non sempre puntuale). Egualmente tramontano oramai le istruzioni cartacee, faticose da leggere anche per il ragazzino che compone il suo gioco, e preferisce di gran lunga guardare i tutorials. Il risultato ottenuto è quello di saltare un processo intellettivo.

Questi salti, oltre a generare una mancanza di allenamento alla lettura e alla conseguente comprensione del testo, diffondono il messaggio che guardare significa “pensare meno”. Sarà questo il motivo per cui tutti tendono a sorridere davanti all’obiettivo fotografico? Mostrarsi comunque “spensierati” perché l’immagine è al di qua del pensiero? Dovrebbe essere l’esatto contrario: guardare stimola il pensiero umano. . .  e invece si assiste allo svilimento delle immagini. Sarà colpa della falsa gratuità?

L’invito doveroso, rivolto a chi si vuole avvicinare alla fotografia, è di procurarsi una macchina fotografica analogica, e spiego perché. Nel momento in cui tutti possediamo un telefono portatile in grado di produrre immagini a una discreta definizione, è necessario confrontarsi con i costi che questa comporta. L’accumulo d’immagini archiviate implica un lungo editing da affrontare, ovvero dedicarvi un tempo infinito, quindi denaro! Un’obiezione potrebbe essere che il tempo che si passa in camera oscura è pari, se non maggiore, a quello che si spende per realizzare la post-produzione al computer; ma non mi riferisco al secondo passaggio bensì al primo, quando si pensa e si decide di fermare ciò che l’occhio vede alla fase dello scatto.

Inoltre la fotocamera analogica invecchia in modo decisamente meno rapido rispetto al digitale, vittima di continue innovazioni. Esempio ne sono gli ordini dei materiali che le scuole delle Accademie di Belle Arti si trovano a fare ogni anno, fronteggiando l’infernale burocrazia che solo l’anno successivo esaudisce le richieste e consegna il materiale. A differenze delle altre, la Scuola di Fotografia riceve fotocamere che risultano “vecchie” rispetto all’ordine fatto l’anno prima e questo perché il mercato propone nuovi modelli in tempi brevissimi.

Occorre rispettare il mezzo attribuendo importanza a ciò che produce. Dunque, perché non educarsi a guardare senza bisogno di ottenere immediatamente il risultato? Perché non abituarsi invece a guardare per comprendere e, nel caso, contemplare? Su questo Aby Warburg ha offerto ampi spunti di riflessione.

Fabio Mauri, Ideologia e natura, 1973 (foto di Elisabetta Catalano)

Mi viene in mente la foto realizzata da Elisabetta Catalano nel 1973 per l’opera di Fabio Mauri, Ideologia e natura, che sembra esaudire i sogni proibiti confessati da Geoff Dyer nell’Infinito istante a proposito di un’altra fotografia, Charis, realizzata da Edward Weston: “le mani sono eleganti e pure quanto quelle del Buddha, ma le connotazioni sessuali della loro posizione, esaltate da uno strappo nei pantaloni, appena a sinistra del sesso che nascondono, sono inequivocabili. Quando guardi la fotografia, per tutto il tempo l’immagine ti costringe a chiederti, con curiosità martellante, come sarebbe stata se lei fosse stata nuda”. Si tratta di una foto scattata nel 1937 sul Lago Ediza alla futura moglie del fotografo americano. Lui, celebre per i seducenti nudi, in questo scatto così intimo sembra trattenere l’eccitazione verso la giovane donna, dalla cui fisicità non trapela alcuna resistenza ma un totale abbandono e, effettivamente, la foto sprigiona una forza erotica superiore alle altre.

Edward Weston, Chariz, Lale Ediza, 1937

Sul piano formale l’opera tratta dalla performance Ideologia e natura di Mauri, realizzata alla Galleria Duemila di Bologna, è una foto che sembra rivelare ciò che velava la foto di quasi quarant’anni prima. Anche se, più di tutte, l’immagine fotografica servita a Gerhard Richter per dipingere la Studentessa, un olio su tela della che misura cm 105 x 95 (149 nel catalogo ragionato Atlas assieme ad altre 11, per la mostra al Wide White Space ad Anversa) sembrerebbe definire i sogni proibiti di Dyer sin a esaudirli in pieno trent’ anni dopo.

Gerhard Richter Studentin, 1967

La fotografia, sconveniente e perversa, è la vera arte che mette a nudo i cambiamenti umani nel corso del tempo, “l’inventario della mortalità” come la definisce Susan Sontag.

Il potenziale del mezzo, in grado di registrare attimi, umori, pensieri, mi riporta a uno scatto che mi è stato fatto a tavola col grande Christian Boltansky durante la Biennale di Venezia del 2011: solo dopo, avendo la foto tra le mani, mi accorsi quanto il sorriso del Maestro somigliasse a quello “sguardo d’ignoto” dipinto da Antonello da Messina e custodito al Museo Mandralisca a Cefalù come Ritratto d’uomo. La fotografia quale mezzo necessario di rimando per disvelare, riflettere e ritrovare.

Sopra ho fatto cenno agli ingredienti necessari per realizzare una buona foto, anche quando non si dispone di molto tempo e alla relativa scelta operata dall’occhio nel mettere assieme più elementi in modo organico per la costruzione di un equilibrio.

La dignità che Donald McCullin restituisce al soldato americano fotografato a Berlino nel 1961, assieme alla ripresa del punto di vista e alla sua parzialità, sono le caratteristiche che Donatello conferisce al San Giorgio, il santo guerriero, per la chiesa di Orsanmichele a Firenze agli inizi del Quattrocento. La scultura, assieme ad altre 13, è parte di un ciclo di statue commissionate per le nicchie esterne dell’antico edificio fiorentino, fra cui il San Marco. Pur trattandosi di un modello opposto a quello del combattente, l’evangelista ci riporta ugualmente al soggetto del fotoreporter per la resa fotografica che, in questo caso, risulta un’interpretazione della realtà resa parziale.

“Fotografare non vuol dire semplicemente scattare. Ha a che fare con l’esperienza di essere lì”, ha dichiarato McCullin; “nelle mie fotografie metto quelli che sono i principi che ho in testa e quello che mi propongo di fare. Ci metto il senso di ciò che sono e di ciò che ho visto. Ci metto dentro la mia identità attraverso il mio modo di stampare e di comporre le foto”.

Nel corso della sua esistenza la fotografia ha attraversato momenti diversi e di conseguenza è stata trattata in modi diversi fin a conquistare il riconoscimento artistico nel 1994, attraverso l’attribuzione del Leone d’oro alla Biennale di Venezia ai coniugi Becher, per il lavoro svolto sulle torri d’acqua. Tuttavia, la coppia di fotografi è stata premiata nella sezione Scultura, visto che quella di Fotografia non esisteva. E trovo questo un valore aggiunto. Il fatto che circa trent’anni fa la Fotografia abbia conseguito un riconoscimento di tipo scultoreo, fa riflettere sul tipo di ricerca che stava portando avanti. La sua politica di contaminazione fra le arti (tra i tanti mi viene in mente il lavoro di John Baldessari) riscosse successi sia sul piano della creazione che della vendita e, paradossalmente, ora che è diventata un linguaggio universale, le ultime produzioni si ritrovano a non avere più mercato.

Ancora oggi si discute di questo potente mezzo svilendolo a causa della sua “riproducibilità”: dal canto mio concepisco la fotografia come mezzo straordinario in grado di connettere pensiero e immagine e invito a riflettere sul concetto di unicità proposto da Benjamin, nella Piccola storia della fotografia, a proposito delle lastre iodurate di Daguerre: “Erano pezzi unici; mediamente una lastra costava nel 1839 venticinque franchi oro. Non di rado venivano custodite in astucci come gioielli”.

Monica Biancardi

è nata a Napoli 1972; insegna Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Sassari. Fra i suoi lavori fotografici “Credere”, vent’anni di sguardi bianco/nero al sud Italia, viene in parte acquistato dalla Bibliothèque Nationale de France. La prima personale è “Ritratti” (Napoli 2003); seguono fra le altre “Orientamenti”, a Capodimonte (2009). Nel 2017 pubblica per la casa editrice Damiani “RiMembra”, progetto durato più di sette anni a cui collabora il poeta Gabriele Frasca. Il lavoro viene esposto al Museo Nitsch di Napoli, all’I.I.C. a Parigi durante Paris-Photo, al Museo di Santa Maria della Scala a Siena ed è scelto per rappresentare La Biennale de la Photographie Italienne al festival de Aubagne nel 2018. Nel 2018, in occasione della mostra “Ritratti” presso il Museo di Roma in Trastevere, esce da Contrasto il volume “manodopera”. Sensibile al tema dell’integrazione culturale, espone il lavoro “Tra le immagini”, svolto per anni in Palestina, all’Al Quds University di Gerusalemme e poi in forma multimediale al MAV di Ercolano. Negli ultimi anni il suo interesse per la fotografia l’ha portata ad indagare la “scrittura con la luce” attraverso altri mezzi, come le incisioni su superfici di plexiglass o di carta la cui lettura è possibile se illuminate in un certo modo; questa ricerca è messa a frutto nel progetto “The catalogue of Huts” del 2022. Le sue opere sono presenti in molte collezioni private di arte contemporanea.

English
Go toTop