Rembrandt, realismo inciso

16/11/2023

Per incidere una trama iconografica di grande spessore intellettivo sopra una lastra di rame è necessario avere a priori le idee chiare, è indispensabile avere un progetto già meditato attraverso la mediazione del disegno. Il tratto dell’incisione deve essere deciso, quasi definitivo, senza grandi pentimenti compositivi. Dietro le incisioni di Rembrandt Harmensz van Rijn c’è sempre un attento studio dal vero della realtà, un cospicuo repertorio di disegni preparatori.

Ogni personaggio, ogni gesto, ogni oggetto, ogni disposizione delle cose, ogni scelta formale e simbolica è colta dal grande genio olandese con una naturalezza spontanea: ogni composizione è fissata sulla carta o sulla tela come se fosse stata colta da un dispositivo mentale in grado di catturare tutto quello che appare in tempo reale davanti all’obbiettivo dello sguardo. La macchina fotografica secentesca di Rembrandt si chiama grande capacità di osservazione della realtà e di memorizzazione visiva: queste due doti, unite al dono di saper poi riprodurre con grande abilità tecnica le immagini memorizzate in tempo reale nel divenire dell’esistenza, hanno dato la possibilità all’artista di affinare il suo processo stilistico. Il pittore di Leida è riuscito a ricreare terre coltivabili nella ricerca creativa della Storia dell’arte, risanando le paludi tardomanieriste di quel processo artistico iniziato dal Rinascimento italiano. In una modalità funzionale ha messo da parte tutte le posture affettate e poco naturali, oggi diremmo tutte quelle pose da foto ricostruite in uno studio, per rendere profondamente verosimili e naturali i gesti, le ambientazioni e le espressioni dei volti di tutti i personaggi presenti nelle sue opere.

Rembrandt van Rijn, La deposizione dalla croce, 1633

In La deposizione dalla croce (1633) e in La deposizione a lume di torcia (1654) Rembrandt crea due profonde meditazioni visive sul tema della debolezza di Dio, colui che “è il più forte degli uomini” (1 Cor 1,25): nella prima incisione il corpo nudo di Cristo è raffigurato in modo sgraziato, scomposto, in una maniera che rende drammaticamente visibile la grave pesantezza di un corpo morto; nella seconda viene posto l’accento sul piede destro di Cristo ancora inspiegabilmente inchiodato al legno mentre il corpo è già stato tolto dalla croce.

L’estremo realismo di Rembrandt non dispensa nemmeno la figura divina di Cristo, che, come corpo morto deposto dalla croce, viene raffigurato in un modo antieroico, spoglio di ogni idealizzazione: il corpo di Gesù è ora un cadavere e come tale grava inanimato, sorretto a fatica, quasi pesasse come il mondo intero, dal gruppo di persone incaricate di schiodarlo dal legno della croce.

Solo sei fasci di luce divina che piovono dal cielo sulla scena della deposizione ci informano che l’uomo nudo e scomposto non è un uomo qualsiasi, non è un ladro o un assassino punito dalla legge, ma è il figlio di Dio.

Rembrandt impostava le scene delle sue creazioni su un registro inusuale, originalmente anticonformista, di una modernità impressionante. Quasi tutte le regole del classicismo rinascimentale vengono stravolte. Sono enfatizzati particolari secondari, che molto spesso occupano nelle incisioni il primo piano di una scena biblica.

Rembrandt van Rijn, La deposizione a lume di torcia, 1654

Nella Deposizione a lume di torcia, il primo piano viene occupato da un anziano, descritto mentre sta stendendo un grande sudario bianco sopra la portantina, quella che verrà utilizzata successivamente per condurre il cadavere di Gesù nel sepolcro. Poco sopra, il lume della torcia mette in evidenza l’impaccio delle persone inesperte che stanno deponendo Gesù dalla croce, le quali non sembrano accorgersi che il piede destro è ancora inchiodato nel legno.

La fonte di luce principale è la torcia tenuta da un uomo posto sotto la croce: Rembrandt fa più luce sulle gambe e sui piedi di Cristo e lascia più in ombra, quasi in secondo piano, il suo volto, tanto che l’attenzione va d’acchito sulla zona più illuminata, sulla superficie bianca di un lenzuolo raffigurato in verticale.

Tutto il peso del corpo morto di Cristo grava sulle braccia di un uomo raffigurato di spalle e con i piedi al limite di un dosso roccioso.

Perché Rembrandt ha voluto porre l’accento su aspetti apparentemente marginali come il piede ancora inchiodato alla croce, l’uomo che lo sostiene al limite del vuoto, la portantina con il sudario della morte, il lenzuolo illuminato dalla torcia che spinge l’occhio verso la verticalità, verso un ascensione?

Il piede destro ancora inchiodato alla croce suggerisce che il corpo morto di Gesù prima della Resurrezione è ancora legato al vincolo della materia, alla croce terrena, mentre la verticalità del luminoso lenzuolo evoca la successiva ascensione dello spirito di Cristo verso il cielo dell’Eterno. Nicodemo, ricevuto dai romani il cadavere di Cristo, lo sorregge nelle braccia fino a che il corpo sarà staccato dal simbolo del patimento e trasportato nel sepolcro, luogo della risurrezione e della vittoria sulla morte.

In modo geniale Rembrandt ha elaborato un’immagine che si sostiene su un delicato e sottile gioco di forze in equilibrio. La simbolica e vera morte di Cristo sulla croce e il suo piede ancora inchiodato al legno fanno sì che ogni cristiano non cada dalla rupe sul sudario della morte materica senza la speranza insita nella resurrezione dell’anima.

Rembrandt è riuscito a rendere visibile quell’invisibile equilibrio colmo di promesse salvifiche sotteso alla profonda metafora della crocifissione del Salvatore.

Rembrandt van Rijn, L’Annunciazione ai pastori, 1634

In altre due incisioni, L’Annunciazione ai pastori (1634) e La predica di Gesù (1652), è interessante notare come gli aspetti apparentemente marginali assumano un alto valore semantico nell’economia del significato annesso all’impianto iconografico. In L’Annunciazione ai pastori si può appurare la precisione veristica di Rembrandt, la sua incredibile capacità di cogliere la naturalezza della realtà, la sua memoria fotografica dei particolari effimeri. Chissà quanti disegni dal vero deve aver realizzato per riuscire a dare una sensazione così naturale della fuga delle greggi e dei bovini davanti all’improvvisa apparizione della luce divina.

All’apparizione in cielo dell’angelo luminoso, i pastori e gli animali reagiscono in svariati modi diversi: c’è chi si accascia per il terrore, chi scatta velocemente per fuggire il più lontano possibile, chi viene quasi colto da un malore, chi quasi non si accorge di cosa stia avvenendo e nella penombra volge le spalle alla luce.

Rembrandt deve aver assistito dal vero alla reazione delle greggi che spaventate da uno scoppio fuggono da tutte le parti, lasciando al centro un vuoto circolare. L’attento artista deve aver preso appunti, disegni in presa diretta, per riuscire a ricreare sulla lastra una scena così verosimile e palpitante.

In secondo luogo ha preso in considerazione l’aspetto più terribile della luce divina che nel mezzo della notte si rivela ai pastori senza preavviso. Questo aspetto pauroso della rivelazione divina al fragile mondo animale terreno è trattato con una sensibilità poetica, che sonda meticolosamente il sottile sentimento al confine fra il prodigioso evento estatico e ciò che crea spavento.

Rembrandt van Rijn, La predica di Gesù, 1652

Nella Predica di Gesù, Rembrandt pone in primo piano un bambino che, pancia a terra, volge la schiena alla figura di Gesù, colta nell’atto di predicare la sua Buona Novella. Il bimbo ha probabilmente appena finito di giocare con la trottola posta a poca distanza e ora è intento a disegnare sul terreno con il suo indice sinistro o a torturare qualche malcapitato insetto.

Con questa sottigliezza Rembrandt ha voluto mettere in evidenza la spontaneità del mondo infantile: come si sa i bambini sono sempre poco interessati alle prediche degli adulti e trovano ogni pretesto per sublimare la loro noia con qualche gioco improvvisato sul momento. E non importa se in questo caso la predica è del figlio di Dio. In molti altri disegni del vasto corpus creativo di Rembrandt si può notare la particolare attenzione che l’artista olandese riserva ai giochi spontanei e gioiosi dei bambini esaltati dalle prediche di Gesù.

Davanti a un’opera di Rembrandt si ha sempre l’impressione che l’artista abbia rappresentato una scena, sacra o profana, per coinvolgere lo sguardo dello spettatore, così da metterlo nella condizione di osservare con discrezione, nella penombra, un fatto illuminato da una luce proveniente da una volontà misteriosa, che si è fatta materia nella vita spontanea della quotidianità.

In copertina: Rembrandt van Rijn, Le Paysage aux trois arbres, 1643, eau-forte, pointe sèche et burin, état unique © Collection Fonds Glénat pour le patrimoine et la création, Cabinet Rembrandt – Couvent Sainte-Cécile à Grenoble

Mauro Zanchi

è critico d’arte, curatore e saggista. Dirige il museo temporaneo BACO (Base Arte Contemporanea Odierna), a Bergamo, dal 2011. Suoi saggi e testi critici sono apparsi in varie pubblicazioni edite, tra le altre, da Giunti, Silvana Editoriale, Electa, Mousse, CURA, Skinnerboox, Moretti & Vitali e Corriere della Sera. Scrive per Art e Dossier, Doppiozero e Atpdiary.

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