Lo studio delle relazioni tra letteratura e visualità costituisce uno dei campi di ricerca più fecondi della comparatistica attuale. Tale sviluppo va correlato a dinamiche culturali e sociali di vasta portata, ma anche a profonde trasformazioni nell’ambito dello studio del visuale, culminate con la formazione, il consolidamento e l’affermazione dei Visual Cultural Studies e degli studi di intermedialità. La comparatistica, a sua volta, è andata incontro negli ultimi due decenni a una profonda revisione dei suoi paradigmi e protocolli, attraverso la contestazione dell’universalismo caratteristico della “stagione americana” della disciplina, in nome dello «scarto» e del «tra» come luoghi di una comparatistica dialogica e differenziale. Con la partecipazione di alcuni tra i maggiori studiosi dell’argomento, il convegno annuale dell’Associazione svizzera di letteratura generale e comparata, dedicato all’Università della Svizzera Italiana di Lugano (Auditorium del Campus Ovest, domani e dopodomani – 16 e 17 novembre) a Sull’orlo del visibile. Letterature comparate e visualità, intende mappare lo stato attuale della ricerca comparatistica in tale settore in dialogo con le esperienze di studiosi che, a partire dall’ultimo quarto del secolo scorso, hanno aperto la via alle ricerche attuali attraverso una revisione del paradigma tradizionale degli Interart Studies; primo tra costoro il ticinese Giovanni Pozzi, dal quale è tratto il titolo del convegno e del quale ricorre nel 2023 il centenario della nascita. Per la cortesia dell’autrice e dei curatori del convegno, si propone qui una sintesi dell’intervento di Vega Tescari.
Dall’uso di voci off in opere audiovisive all’evocazione letteraria di immagini non solo assenti, ma inesistenti, il contributo illustra l’operatività della dimensione fantasmatica nei rapporti parola-immagine lungo linee testuali e audiovisive che si strutturano su dinamiche di vuoti, dislocamenti, scomparse o ricontestualizzazioni.
La nozione di “fuoricampo” – concreto e concettuale – permette di indagare quel particolare rapporto tra visibile e invisibile, dicibile e indicibile, che altro non è se non lo spazio spettrale, sfuggente, indefinibile, che caratterizza la crepa, la fessura in cui avviene il contatto e lo sfiorarsi tra parola e immagine e in cui si attiva una dimensione intermediale particolarmente fertile, un margine, un “orlo”, in cui palpita la presenza di un’assenza.
Jacques Derrida ha parlato di “fantomachia” riferendosi al cinema in Ghost Dance (1983), film sperimentale di Ken McMullen. Dialogando con una studentessa di antropologia (interpretata da Pascale Ogier) che chiede al filosofo se creda ai fantasmi, Derrida svolge una riflessione attorno alla spettralità dell’immagine cinematografica, collegandola anche alla dimensione psicoanalitica.


Il riferimento al film e alle meditazioni di Derrida sul legame tra esperienza cinematografica e spettralità vale quale sfondo per un percorso in cui la dimensione fantasmatica dell’immagine viene esplorata attraverso alcune opere che hanno posto al centro lo statuto stesso dell’immagine e del cinema.
Con India Song (1975) di Marguerite Duras e Blue (1993) di Derek Jarman, si sottolinea il rapporto intrattenuto tra voci fuoricampo e immagini; con La Jetée (1962) di Chris Marker la natura spettrale dell’immagine dialoga con la dimensione temporale e memoriale, i cui vuoti e sobbalzi si riflettono in un montaggio strutturato su immagini fisse in successione. I termini ibridi impiegati per descriverla – da ciné-roman a photo-roman – sanciscono l’intermedialità dell’opera. La narrazione è affidata a una voce fuoricampo e, a un livello più sottile, il fuoricampo è costantemente alluso dagli invisibili interstizi che separano una fotografia dall’altra; fessure che lo spettatore virtualmente colma, partecipando al montaggio dell’opera.


Con il lavoro del videoartista taiwanese Chen Chieh-jen, e in particolare con il suo Lingchi-Echoes of a Historical Photograph (2002), la riflessione intermediale trova un’ulteriore esplicitazione, ponendo in dialogo la dimensione audiovisiva, la fotografia, la nozione di archivio, con un’eco letteraria via Georges Bataille. Con il suo lavoro si interroga l’atto di visione, il ruolo dell’immagine, la sua fruizione e il suo nomadismo.


Dall’immagine della madre di Roland Barthes, che l’autore non mostra nel suo La Chambre claire (1980), all’immagine descritta ma mai scattata – e dunque inesistente – in L’Amant (1984) di Duras, si evidenzierà la fertilità del fuoricampo in ambito testuale, attraverso ekphrasis che operano al limite della visibilità e dicibilità. Fino a un racconto di Torgny Lindgren in cui un personaggio cieco, affascinato dalla descrizione di un paesaggio in un dipinto, acquista il quadro e lo appende alla parete; ponendo al lettore, tra le altre cose, un’intensa meditazione su ciò che fa esistere un’immagine.
In copertina: film-still da La Jetée di Chris Marker, 1962