Nella quiete del Somerset, lontano dai territori devastati dalla guerra che ha fotografato, l’arte di Don McCullin continua a riflettere un’anima tormentata. Il fotografo britannico, famoso per le sue potenti immagini di guerra e il suo lavoro di documentarista sociale, ha trovato rifugio in questa idilliaca campagna. Eppure, anche qui, in mezzo alla tranquillità e alla bellezza, la sua mente non riesce a liberarsi dalle cupe nubi dell’ossessione che anzi persistono e si addensano, evidenti negli inquietanti paesaggi in bianco e nero che sono diventati una cifra distintiva del suo stile. L’oscurità del paesaggio non è un effetto dell’umido clima inglese, ma del clima interiore di McCullin che – confessa – in fase di stampa sceglie addirittura di enfatizzare ombre e contrasti profondi, affinché il mondo appaia come a lui appare.

Del resto, camminando tra le sale del Palazzo delle Esposizioni che ospitano le sue fotografie, è impossibile non sentire il peso delle sue esperienze. I paesaggi infestati del Vietnam, la desolazione delle terre lacerate dai conflitti e i ritratti crudi della povertà non si lasciano dimenticare, non mollano McCullin, come certi compagni di viaggio o di sventura molesti, che continuano a cercarti, a ricordarti “quella volta”, intrappolati in quello stesso passato che cerchi di lasciarti alle spalle, una volta per tutte. E invece è sempre là, è il presente.
«Allora, dappertutto c’è colpa: colpa perché non sono religioso, colpa perché non sono stato capace di andarmene via mentre quest’uomo moriva di fame o veniva assassinato da un altro uomo con una pistola. E io sono stufo di sentirmi in colpa, stufo di dire a me stesso: “Non ho ucciso quell’uomo nella fotografia, non ho fatto morire io di fame quel bambino”. È per questa ragione che voglio fotografare paesaggi e fiori. Mi sto autocondannando alla pace». Proprio come lo Scrooge del Canto di Natale di Dickens, McCullin continua ad affrontare gli spiriti del passato, del presente e del futuro, senza però speranza di liberazione e gli echi di tanto dolore, prevaricazione e resistenza indugiano oggi anche per noi, nell’atmosfera sospesa della galleria, sussurrando storie che chiedono di essere ascoltate.

Don McCullin a Roma è la sua prima grande retrospettiva in Italia e, a oggi, la mostra più ampia mai dedicata al fotografo. Curata da Simon Baker, in stretta collaborazione con Don McCullin e Tim Jefferies e con l’assistenza di Catherine Fairweather, Jeanne Grouet e Lachlann Forbes, la mostra è promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e promossa, prodotta e organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo. Le fotografie, in tutta la loro gloria in bianco e nero, fiancheggiano le pareti come capitoli in una narrazione profonda. È come se McCullin ci guidasse attraverso il lavoro della sua vita, la sua odissea personale e non importa quanto sia dura, l’atto stesso di osservare vale come forma di resistenza all’acquiescenza

La mostra si apre con i suoi primi anni da fotoreporter: vediamo i ragazzi delle gang di Finsbury Park, ritratti nei loro Sunday best, coi capelli abilmente modellati dalla gelatina o sfacciati che si appostano fuori dalla sala giochi, mentre sui muri un poster annuncia The Key nelle sale, con Sophia Loren, e sotto campeggia una pubblicità della Coca-Cola. Sono gli anni Sessanta e questa è la vita urbana della Londra del dopoguerra, povera e vibrante, con tutta la cupezza sporca e fuligginosa della working class. A quell’epoca risale anche il suo primo importante incarico all’estero, quello che lui stesso si è assegnato pagandosi il biglietto per Berlino dove stavano per costruire il Muro. Da questo avvenimento storico McCullin sarebbe tornato con immagini incredibili, che gli avrebbero valso un contratto con il quotidiano «The Observer» e il suo primo Press Award. Da allora, non si è più fermato: Cipro, Congo, Vietnam, la carestia nel Biafra e nel Bangladesh, la guerra civile in Libano e i Troubles nell’Irlanda del Nord. Nel ’79 si era ripromesso di stare alla larga da guerre e conflitti, ma non ha esitato a rimettersi in viaggio con la sua macchina fotografica quando si è trattato di documentare la repressione dei curdi in Iraq nei primi anni Novanta, la seconda guerra irachena nel 2003, e più recentemente quella in Siria.

A colpire è la costanza e quasi l’abnegazione verso una vocazione ostinata che diventa un’espiazione quotidiana, una lotta contro il senso di colpa e l’inadeguatezza, una ricerca di pace e un antidoto all’indifferenza. L’eccezionale capacità di evocare un profondo senso di empatia fa sì che la sofferenza degli estranei diventi palpabile. McCullin non è un sentimentale ma fotografa il sentimento; e ci ricorda il peso che tutti noi portiamo come testimoni delle lotte del mondo.

La mostra si conclude con il suo lavoro più recente, una sorta di indagine fotografica culturale, architettonica e storica sui resti dell’Impero Romano nell’area del Mediterraneo meridionale. Dal Marocco all’Algeria nel sud ovest fino alla Siria e al Libano nel nord est, McCullin ha fotografato siti famosi come Baalbek, Palmira e Volubilis, un progetto durato diversi anni e documentato nel libro Southern Frontiers: A Journey Across the Roman Empire (2010). All’Impero Romano deve aver pensato spesso e di fronte alle vestigia della sua magnificenza, e della sua brutalità, ha saputo realizzare degli scatti che esprimono l’ambivalenza dei sentimenti che ha provato, gli stessi che lo accompagnano da tutta la vita: l’eternità e il prestigio del marmo bianco dei templi è minacciato da ombre nere che incombono e riempiono lo spazio dell’inquadratura, come fossero le lunghe braccia di tutti coloro che sono morti per scrivere la storia di un trionfo che non gli apparteneva. Sono sempre qui i fantasmi del passato, del presente e del futuro. «Gli esseri umani sanno come soffrire, e la sofferenza non è qualcosa che riusciremo a estirpare»; eppure non dobbiamo – mai – distogliere lo sguardo. Questa è la lezione di Don McCullin.
Don McCullin a Roma
a cura di Simon Baker
Roma, Palazzo delle Esposizioni
fino al 28 gennaio 2024
In copertina: Don McCullin, Still life with Mushrooms and Horse Statue, c.1989 © Don McCullin, courtesy Hamiltons Gallery