È uscito nella «Collana blu» delle Edizioni del verri (aka «Il pastore elettrico») il nuovo libro di saggi di uno dei nostri poeti più visivi e insieme più visionari (in barba all’antinomia storicamente posta, da Gianfranco Contini, a proposito di una sua grande passione, Dino Campana, che sigla a congedo anche questo nuovo volume), che all’anagrafe accademica si firma com’è noto con l’ortonimo di Tommaso Pomilio. Quelli del Rovescio di un minuto. Nel cinema della scrittura, da Zavattini a Zanzotto (265 pp., € 23) sono veri saggi – su autori come Fenoglio, Flaiano, Landolfi, Malerba, Bene, Pagliarani e il mentore Sanguineti –, efficacissimi nel delimitare una “zona cinematografica” (parafrasando Stalker) della nostra letteratura novecentesca: non censendo le numerose e multiformi intersezioni che tanta di essa ha avuto coi procedimenti dell’industria produttiva (soprattutto, si sa, nella forma della sceneggiatura), né tanto inventariandone l’uso della memoria cinematografica come repertorio tematico e citazionale, ma cercando di scrutinare come ciascun autore, l’uno diversamente dall’altro, abbia “pensato filmicamente” e scritto in modi che, storicamente, della sintassi cinematografica sono debitori: a partire appunto dalla «cinematografia sentimentale» che nei Canti Orfici rivela il «panorama scheletrico del mondo». Anche in questa accezione più precisa, certo, il novero potrebbe abbracciare tanti altri autori: ma non c’è dubbio che quelli qui censiti siano stati, del fenomeno, alfieri quanto mai rappresentativi.
Ma questi di Tommaso sono anche esercizi trascendentali di un demiurgo della prosa: come dimostra anche il retro di copertina, non firmato quanto dalla mano inconfondibile («Obliqui tagli nel continuum, intersezioni o inversioni di piani ottici e blocchi temporali, dilatazioni / contrazioni (del significare, diegetico oppure ritmico), smontaggi e rimontaggi nella filigrana del discorso, dissezioni, interferenze, concreti onirismi, sfalsamenti prospettici, alchimie verbali d’un divenire altro o sia oltre la lingua. | Sono solo alcuni dei modi in cui il linguaggio letterario (e, specialmente, poetico) nella modernità avanzata ha introiettato il solco dell’immagine-movimento, incorporandone l’ombra-luce, moltiplicandone e rovesciandone i tempi, le angolazioni, le messe a fuoco, gli spettri, rendendosi, attraverso il cinema, im/pura (espansiva) scrittura visuale: scrittura del movimento, e del suo magnetico dilatarsi»). Conferma ennesima, ove ce ne fosse bisogno, che la saggistica degli scrittori (e non le bellurie di cui si compiacciono, spesso, i saggisti wannabe scrittori) è parte eminente – se non sezione aurea, forse – della scrittura moderna: almeno da quando Baudelaire prescrisse, cioè, che in ogni vero poeta alberga un critico.
Per la cortesia di autore ed editore del libro proponiamo, alleggerito dell’apparato di note, il prologo – appunto assai “scritto” – dedicato da Pomilio-Ottonieri a uno dei più grandi “infiammati” di cinema della nostra poesia (ancorché e forse proprio perché a lungo insospettito, almeno altrettanto di quanto fosse ammaliato, dalle fattucchierie della decima musa), Andrea Zanzotto.
Andrea Cortellessa
È possibile dire qualcosa del cinema? Se non la microscopia del niente che pullula e popola la sottilissima grana del suo impalpabile supporto (svolgersi di celluloide o raffiche di pixels); se non l’incrociata intermittenza della sua luce potenziale, giganteggiata a riscontro d’una parete amorfa, il succedersi di combuste apparizioni, il gioco d’ombre che si rigonfiano ad intessere, ritessere, a protendersi sulla cavità d’una sala? Se non, invece, il suo spavento: «ne ciùcia, ’l cine, ’l ne fa a tòch»… (sez. iniziale del poemetto in dialetto, Filò; detto in autotraduzione: «ci succhia, il cine, ci fa a pezzi, / con la sua forbice ci straccia, ci riappiccica, / dentro le sue moviole ci stravolge, / ruba il suo proprio DNA / al grumo più nascosto di noi stessi / giù nel pozzo senza fondo»), condizionando l’attività dell’inconscio (o sia producendo effetti di realtà modellati sul sogno e modellanti il sogno): ma pure, è in grado di ardere bruciare e illuminare; il cine «mostra di essere fiato bruciante di dèi seppur bastardo, / ci fa scoppiare sbocciare fuori come germogli a primavera», è un aldilà («povero aldilà, grande aldilà di luce e plastica»): al punto che «squasi – ’l par lu la poesia» (aggiustato, millimetricamente, l’asse del paradigma pasoliniano; più che cinema di poesia: cinema come poesia, tout court, affioramento/ ardere del suo fantasma). – Se dire del cinema non è forse possibile, quel che è certo invece, è l’esserne detti: il cinema ci parla (parla noi), e può (spesso) bruciarci.
Più ancora che (nella figura del succhiare) la più ovvia, ancorché asimmetrica, derivazione pirandelliana (il treppiede- ragno, specialmente, del Serafino Gubbio, dalla prospettiva della cinepresa), suggestiona la specularità rispetto a quanto Savinio (in contiguità con qualcuno dei brucianti flash teorici epsteiniani?) aveva scritto, presumo una cinquantina d’anni prima, e che Zanzotto non poteva conoscere (la pagina, manoscritta, priva di datazione precisa, sarebbe stata resa pubblica solo nell’81, cinque anni dopo Filò): «Parla, e la sua voce cola nelle arterie, penetra i meandri del cervello, opera i suoi effetti inavvertibili tremendi, come quei filtri, come quelle droghe che non sai, che non si può sapere quando cominciano a lavorarti, a dominarti; ma che poi a poco a poco ti cambiano il colore della pelle, la luce degli occhi, il suono della voce, e ti addormentano se vegli, e ti svegliano se dormi, e ti passeggiano da un mondo nell’altro come il vento porta alla deriva la nave abbandonata dall’equipaggio».
Brucia e illumina, il cinema; colato nelle arterie. Prevalendo, certo, nell’intuizione di Savinio, la componente oggettificante, ipnotica invece che deflagratoria: cinema- filtro, cine psicotropo, dilatazione più che combustione, soffice trapanatura, luminescenza d’incantamento. E già in Savinio, nelle discontinuità hermaphrodite così come nell’idea d’infanzia ma tanto più, a tratti, nelle forme brevi (Achille innamorato, o anche, saggistiche, come nella Nuova Enciclopedia), le cinegrafiche moviole flettono sinapsi, scavando bruciante immaginario, ma non meno, montano e smontano cronosintassi, allargano scarti, scatti, nel disvelante divagante moto oniroide dell’invenzione scrittoria, del disegno delle sue ilari-enigmatiche schegge del narrare. Siamo parlati ormai tutti da un cinema espanso; e, senza necessità di ricorso o ritorno all’immagine alla vivamorta, lo parliamo. È una pellicola invisibile quella che ci scorre nella lingua e se ne accendono e assemblano i triturati spezzoni, lampeggiando per sintassi rivoltate, per rimontaggi sillabici.
Non dirò molto di Zanzotto, o sia della costanza del suo dire, del parlante suo non-dire del cinema («No dighe gnént del cine – vorìe parlar del cine – al me strassina ’l cine – me fa spavento ’l cine») cioè altrimenti detto, della beanza che (de)focalizza quella prima stanza di Filò, o del «vers de dreit nien», il puro nulla che ricollega ’l cine al discorrere-vertigine e bifronte dei suoi (di Zanzotto) trovatori; se il cinema è la poesia, ciò è anche perché questa, vampira a sé, risucchia nelle sue psicopoietiche “moviole”: ma è soprattutto perché a risucchiarsi è il “grumo” di se stessa, in una spirale infinita come nella trottola d’un palindromo ruotare; anémic cinéma, sillaba-movimento (facoltà del cinema è appunto di «creare intorno al proprio campo di rivelazione un gorgo, un vuoto comunque invitante o “avvitante”»). Geòde, inghiottitoio vampiro, nel «dó inte ’l pos senzha fondi» (giù nel pozzo senza fondo) del pullulante suo puro niente, così come già il verso: e che pure dall’impalpabilità della striscia di fotogramma (della striscia di sillabe) estende, dal centro mobile e via verso i bordi, su schermo di «cinema infero», insieme «nebbioso» e «favolistico» (così poi nell’86), quasi una fistola (aperta, beante, proprio, incicatrizzabile, quasi, senza fondo, pozzo di qualche profondo-frustrato amore), i minuti «flash di necrosi», gli incontenibili crepitìi della sua ustione.
In una storia idiota di vampiri, come si fosse: aveva già detto, Zanzotto, in una bifronte lirica de La Beltà; dove la storia è certo quella ruotante attorno al Capitale-vampiro, ma vampiro è, di essa, il dispositivo nodale: plastica di celluloide che pure «niente è capace di inghiottire, né digerire» (Filò), «crosta intorno al pianeta» (già notava nel ’73, in autocommento per Gli Sguardi i Fatti e Senhal) come «sfera di escrementi di celluloide e di tapes vari, con visioni e bla-bla imbalsamati dentro» o sia imperitura «plastica che coinvolge anche al livello della fantasia» alla stregua di «quel pattume plasticale inconsumabile, che nella vita ci troviamo sempre fra i piedi», o insomma vampiro-anoressia del presente/transeunte che solo può inglobarsi intiero il corteggio de «le imagini vane» (torno alla stanza prima di Filò) e che può placarsi semmai tramite «inferia», offerta «di punte e di sputi», rituale sacrificio del linguaggio alla feroce idiozia della storia. Eppure, ciò che conta, specularmente (lo ha dimostrato Riccardo Donati in alcune sue, illuminate, pagine), è il dispositivo ottico in cui si trova incastonato il vampirizzato, noi, vivente-morto, spettatorio e poietico indistintamente, nel film di Dreyer (Vampyr. Der Traum des Allan Grey, 1932) da cui, specialmente in un testo più antico, Impossibilità della parola (incluso in Vocativo, 1957), Zanzotto prende le mosse nel nome di cadavere di congiunto: «Se con te, sorella, se in tua vece / giacendo corpo di vetro, dal vetro / della bara dal basso / dolce e pauroso, il mondo / veduto avessi»; e in tal modo «immagina[ndosi] morto al suo posto e nella visione assume[ndo] la stessa prospettiva del film»: dal diafano d’un vetro applicato a finestrella sulla bara, assistendo cioè alla (propria) sepoltura, «passività di un corpo agito da una forza esterna, ridotto unicamente a sguardo e paralizzato dall’incontro con la vita che continua fuori dalla vita», nella soggettiva (descrisse Pasolini, nel famoso saggio del ’65 sul “cinema di poesia”) «del cadavere che vede tutto il mondo come può vederlo chi è disteso dentro una bara, cioè dal basso all’alto e in movimento ». – È il medesimo caleidoscopio, per inciso, da cui muove, a ogni rotazione o ogni getto di dadi, il Giuoco dell’Oca sanguinetiano, dalla prima casella e poi scopertamente nella XXXIX e però, qui, da prospettiva rovesciata, esterna ma ancora per l’interno (della bara), in rispecchiarsi allucinatorio («Ma io butto la mia diapositiva sopra il vetro della bara, dentro la finestrella, sopra la mia faccia, dentro i miei occhi»); vedere il cadavere come può vederlo il mondo, dal punto di vista del movimento a quello dell’immobilità (e, per ciò che riguarda il film di Dreyer, da quello della vampira-succubo, a quello devitalizzato ma vivente ancora del soggiogato corpse). Nel delimitarsi d’una cornice che circoscrivendo intensifichi il grumo d’occhi, il pensiero-altro della percezione. Paradosso del sovrapporsi dello sguardo attoriale a quello spettatorio, e, a quest’ultimo, dello sguardo orchestrante del “grande venditore d’immagini” – non il regista solamente, ma la macchina autoriale, certo, che nel nome del cinema trascina se stesso con noi, nel vortice di fantasmata luce d’un «pozzo senza fondo», soglia d’oltremondo che fora le più rassicuranti (e più incerte) bidimensionalità della tela/schermo.
Se brucia e illumina, il cinema, se ha voce che s’inocula, a colare nelle arterie o nei meandri del cervello, è proprio per il riposizionamento che (sia essa consumo o invece poesia, furto di grumi o loro lievitare) convulsamente induce nel riguardante, in colui solo che, nel suo transfert o nel supino subirlo, innervato di esso, lo ri-attua; ma non è questione unicamente oculare, o di rotazione sensoriale, non è solo rivolgimento, vertigine, istituzione di un alieno piano di realtà che esiste unicamente nel pulsare della luce, e che diviene lui solo quello vero. È, ancor più, il paradosso d’uno scomporsi linearmente; piani che si contestino e sovrappongano ma in sequenza, quasi istituendo un intimo cronotopo spazioritmico, per fotogrammi verbali che si rilanciano l’un l’altro dall’interno, ribilanciandosi dallo stesso eccedere (oltranza/oltraggio?) del loro out of joint, fuori-sesto: secondo un principio che diremmo endopoietico, per suggestione con quella «spinta “endofilmica”» che sempre lui, Zanzotto, avrebbe riconosciuto nel procedimento felliniano: immagini non preesistenti, non prestabilite, ma che piuttosto «sgorgassero l’una dall’altra». Oppure, anche (centrandosi più specificamente su La città delle donne, per cui lui aveva scritto alcune filastrocche peraltro, rimaste inutilizzate), che Zanzotto sembra individuare una «concezione del cinema» in cui, obliquo, rispecchiarsi, per il suo lavoro (almeno) da La Beltà in avanti (trovando per ciò un culmine in Il galateo in bosco, a me pare): cinema come «tesaurizzazione (accumulo) di luci, spazi accertati per “cooptazione” attraverso continui e contraddicenti assaggi, sentieri o corridoi tagliati, ponti saltati. Non un impossessamento del tempo attraverso un ritmo che dispone, assesta e modula, ma uno strisciare “col” tempo, con una durée che non ha una sola direzione e tanto meno una sola “densità”»; fino a un’identificazione con «un eros distribuito nell’ovunque, nei più diversi organismi e localizzazioni com’è l’eros femminile, ben più differenziato e plasmabile di quello maschile, polieclatante come un eterno cinema, secondo quanto poté riferire Tiresia a Giove».
Perché, potrebbe dirsi, il montaggio in poesia (se aspirante questa alla totalità pur relativa del suo poiein, all’incessabilità del suo “fatto” capace di «“prende[re] dentro” tutti gli angoli dell’essere»), avviene a livello sintagmatico, per accensioni fosfeniche, per diffrazioni, per agglomerarsi (o conglomerarsi) di cellule verbali che si generino e rigenerino su multidirezionali e riplasmate linee di contiguità e dis/continuità, provenienti dalle più periferiche zone di memoria onto- e filo- (o addirittura filò?) genetica; secondo quel procedimento che il poeta dové meravigliosamente illustrare in un Autoritratto radiofonico del ’77: dicendo di «versi» ovvero di «parole, singole o a gruppetti» che quando «cominciano a “volersi”, a nascere » restano solo da trascrivere e sedimentare fino a che non ne nasca una rivelatrice «semantica del titolo»: dove esso, il titolo, «nasce […] come individuazione di una struttura in mezzo a un coacervo”. Ma non è questo soltanto; ché il campo già nativamente proprio del poetico, che concerne tanto la visualità, quanto il suono-voce-sound (poesia come «fatto che è, insieme, fonico-ritmico, visuale nel suo disporsi sulla pagina»…), «nel giro dei modi della semiosi», è lo stesso che il cinema, dopo di lei, tenderà a occupare: implicitamente assegnando, Zanzotto, alla pratica poetica nella sua globalità, carattere cinematografico intrinseco, antecedente (poesia come nativa immaginemovimento, mentalizzata ma non realizzata filmicamente – Urphänomen, potremmo dire) ma anche derivativo (capace di riconfigurarsi e assumere immagini e ritmi, linfe e anche veleni, al passo del tempo del cinema con cui, come per Fellini, «strisciare»), rispetto alla effettiva realizzazione filmica.
Illuminare, cosa vuol dire, se non bruciare: consumare i plasticali grassi raddensatisi attorno a quell’oniroide o magari oniropoietico nucleo di più decantata, polieclatante poesia, che “forse” risiede nel diafano della celluloide, nell’ombra d’incendio («busnar del fógo», «rugghiare del fuoco», come, in Filò, la poesia verbale) che si proietta a popolare spazio verticale, scavare profondità e impurità nel neutro, assai dubbio, del bianco. È lì, che lo zanzottiano pensare il cinema, e le concomitanti prassi di una esplosa-fluttuante, asimmetricamente dittologica, sempre a divergere sempre a ritornare, fotogrammaticità psicoverbale (ritornante, dico, a un punto che non era previsto – e che solo l’imprimatur dato dal titolo, alla fine del processo, potrà illudere di stabilizzare), possono esserci soglia al più stroboscopico, stratificante cinema della scrittura (poietica; in verso e in linea); scomposizione, ustoria, metastabile, del ritmo e dello spazio, proliferazione e risucchio delle cellule verbali (foniche) e mobilmente visive, baluginii – rivenienti vampiri – sulla impalpabile pasta moschicida dei supporti, celluloide/cellulosa. Se l’immagine si allarga dal fondo del suo specchio scuro, attorno alla crepitante opacità d’un fuoco-focus che consuma e affina (progressivamente dischiudendosi altra da sé – via, dall’inerzia dell’evidente), se il tempo si rovescia e si riaddensa nel minuto scroscio delle sue moviole (e il «plasma luminoso» passa attraverso il «fattore fonico, vocale» medesimo, la datità acusmatica che sfreccia nell’immagine), è perché, subito scivolati via dallo schermo, tempo e sua immagine possano imprimersi in quell’aldilà di plastiche e plasticità verbali; lì dove le sintassi, intersecate, stratificate, si azzerano per moltiplicarsi, «luogo […] di un’esplosiva e coinvolgente reattività»; quell’oltrespazio oltretempo, in costante movimento (spostamento-mutamento), che è la scrittura probabilmente (la poesia?): casomai, l’«incognita che, mancando un miglior termine, si continua a chiamare “testo”»: o il suo fluorescente in/visibile.
In copertina: una scena dal Casanova di Federico Fellini, 1976