Gli oggetti e la scia immaginifica che essi portano con sé rappresentano il luogo in cui Flavio Favelli si trova più a proprio agio. Non solo oggetti statici, lignei, d’antan, preziosi, di grandi dimensioni ma anche transitori, quotidiani, usuali come francobolli, banconote, passaporti rientrano nel suo interesse. Perché ogni oggetto racconta una storia, individuale e collettiva. Da diversi anni, per entrare in contatto con la vita di questi oggetti, Favelli ha varcato la soglia dello studio e si è cimentato in progetti di natura pubblica e relazionale. Lo scorso settembre per esempio ha inaugurato presso Savigno (BO), paese in cui risiede da tempo, un’opera su muro realizzata sulle pareti esterne di una casa abbandonata. L’artista ha scelto di disegnare sulla facciata una ventina di copertine di passaporti ingrandite e stilizzate; il risultato è stato un grande patchwork di identità multiple. Le banconote invece sono state al centro del progetto Scuola di disegno. Storia dei soldi, iniziato nell’estate del 2022. In Italia sui “soldi di carta” sono raffigurati generalmente opere d’arte e volti di artisti. Ma chi è in grado di riconoscerli? L’oggetto più diffuso e maneggiato si configura di fatto come l’oggetto meno conosciuto, ancorché sia il più agognato. Il progetto consisteva nel chiedere ai partecipanti di laboratori organizzati ad hoc di disegnare la banconota in lire che ricordavano meglio. Una tappa di questo progetto ha toccato la Casa Circondariale «Rocco D’Amato» di Bologna, meglio conosciuta come «la Dozza», dove i laboratori si sono svolti cogli studenti-detenuti della scuola in carcere. Di seguito il testo-intervista scritto a quattro mani dalla curatrice, Serena Carbone, e dall’artista.

Da tre anni insegno in carcere, italiano e storia, sia nella sezione femminile che in quella maschile, sia ai detenuti dell’alta che della bassa sicurezza. La prima volta che ho pensato di realizzare un progetto d’arte in questo luogo è stato quando ho riflettuto sull’invisibilità. L’intero luogo mi sembrava avvolto da un’invisibilità che avvolgeva non solo i detenuti, ma tutti coloro che varcavano la soglia d’ingresso: agenti, professori, educatori, medici, infermieri. C’è tanta gente oltre quella soglia, non me lo aspettavo; e una volta dentro si sta come in una piccola città dove tutti salutano tutti. Così ho pensato che per controbilanciare l’invisibile dovevo fare appello al linguaggio del visibile per eccellenza: l’arte. Poi come spesso accade, quando si ha un’idea che si vuole realizzare, le cose vanno da sé. Ho parlato con il collega che presiede un’associazione che si occupa da anni di progetti rieducativi all’interno della Dozza e siamo riusciti a scrivere un progetto che è stato poi inserito all’interno del PTOF della scuola per la quale insegniamo che ha così sostenuto l’iniziativa. Per fare questo ci sono voluti circa dieci mesi e tanta pazienza.

In questi mesi ho pensato agli artisti con cui avrei avuto voglia di lavorare a questo progetto comune, ad artisti che avevano nel loro percorso di ricerca una componente relazionale e che soprattutto dimostrassero una certa sensibilità. Poi un giorno ho incontrato Flavio Favelli nel suo spazio qui a Bologna, era maggio 2022, la città allora accoglieva Art City dopo l’annullamento di Arte Fiera in febbraio, e tra una chiacchiera e l’altra gli ho detto che stavo insegnando in carcere. Mi ha parlato così del suo progetto Scuola di disegno. Storia dei Soldi, un progetto che aveva coinvolto già due gruppi di persone: a Imola un gruppo di richiedenti asilo e a Sasso Marconi un gruppo di persone disabili. Detto così sembra che si voglia necessariamente trovare il minus,ma non è questo il punto. Il lavoro di Flavio, ho scoperto, cercava di interagire da tempo con l’istituzione e con quella carceraria in particolare, tanto che mi raccontò di avere iniziato anche un progetto all’Ucciardone di Palermo, perché a lui interessava entrare in relazione con i “limiti” materiali e immateriali della nostra società che, nonostante ostenti inclusione, burocraticamente stabilisce barriere farraginose fatte di silenzi, procedure lunghe ed estenuanti. Affrontare questo limite, in questo caso rappresentato dall’invisibile, mi è sembrata una bella sfida. E così abbiamo realizzato otto laboratori per un totale di venti ore nelle diverse sezioni.

Non sapevo come avrebbero reagito i miei studenti e le mie studentesse; non sono addetti ai lavori, non sono avvezzi ai linguaggi dell’arte men che meno a quelli contemporanei e probabilmente molti di loro non sono mai entrati nei templi tutti bianchi e buone maniere. E non è una questione di ignoranza, semplicemente alla maggior parte di essi di questo piccolo mondo non gliene importa proprio nulla. Mi incuriosiva come avrebbero reagito loro e come avrebbe interagito Flavio con un pubblico così diverso da quello che abitualmente – immaginavo – frequentasse. E devo dire che tutte le mie titubanze si sono sciolte dal primo momento: Flavio è riuscito a entrare in relazione con gli studenti detenuti – con chi ovviamente si è dimostrato intenzionato a farlo – e per fare questo ha saputo dare una parte di sé. Non è venuto solo a parlare dei suoi lavori e a far disegnare, ma si è messo in gioco anche con il suo vissuto personale, che ha messo nelle loro mani con grande spontaneità, tanto da abbattere subito i ruoli. E questo non è assolutamente un aspetto da tralasciare quando si lavora con adulti dentro le mura di una prigione.

Ha funzionato l’accostamento banconota-arte, e non solo perché ha richiamato l’oggetto del desiderio e dell’inganno, ma anche perché si è parlato dell’identità che una nazione veicola, della convenzionalità legata al valore dell’arte come del denaro, del sistema dell’arte, e di Firenze, di Botticelli, di Raffaello, di Caravaggio. E poi si è disegnato. Anch’io ho disegnato, anche Flavio, ognuno ha scelto la sua banconota, ha preso i colori e ha creato il suo pezzo di carta e di valore. E in quel momento eravamo tutti uguali.

Serena Carbone

SERENA CARBONE: Cosa vuol dire per un artista lavorare con pubblici di questo genere? E soprattutto cosa ti ha spinto ad uscire dallo studio?

FLAVIO FAVELLI: La grande fortuna dell’artista, in un paese classista, è quella di avere il privilegio, intellettuale, di poter frequentare la classe dirigente, la nobiltà, l’artigiano, l’industriale, l’intellettuale e l’operaio insieme: la piramide, dalla base al vertice. Recentemente sono stato nello stesso giorno all’Interporto di Bologna, con operai che sistemavano i container rovinati, tute sporche, taglio al plasma, polvere di ferro, mi davano un po’ del tu e un po’ del lei (il tu perché stavamo parlando del container, siamo insieme a fare questo lavoro, insieme dobbiamo risolvere i problemi per fare un buon lavoro; il lei perché forse parlo un po’ diverso, uso termini diversi, sono il committente e non sono in tuta), e poi in Galleria Cavour, il salotto del lusso bolognese: accompagnavo una persona a vedere un mio progetto d’arte in un negozio sfitto. Tutto ciò non è semplice, è certo utile per capire le maglie vischiose imposte di una o dell’altra classe. E si danza, con estrema solitudine, fra sovrani e sovranisti, sudditi e sudisti.

Le vertigini più profonde si toccano alla visita dell’azienda, dove si passeggia fra i reparti con la dirigenza, salutando con cordialità, tra formale compostezza e partecipata solidarietà. E questo perché, in qualche modo e ogni tanto, l’arte seduce (buongiorno maestro!) e chi seduce ha qualche potere. Ma non so se l’artista abbia il potere di sedurre i detenuti e non so se i detenuti si fanno sedurre. E si usa questa possibile seduzione per portare pensieri e immagini che, anche se solo per qualche effimero istante, sono lampi che illuminano, che passano ogni confine. Alla fine non ci sono regole, del resto non sono stati gli umili pastori, prima dei magi, a riconoscere il Salvatore? Quando si esce dallo studio s’incontra la razza umana, nella sua più profonda altezza e sconcezza insieme; e allora bisogna arrivare fino in fondo, fino ai confini dell’impero.

SC: Quale sensazione hai avuto una volta entrato?

FF: Avevo paura. Da bambino, era il 1976 e avevo 9 anni, avevo scritto qualche cartolina a mio padre con questo indirizzo: Manlio Favelli, C. G. San Giovanni in Monte, Città. San Giovanni in Monte era il carcere di Bologna e C. G. stava per Carcere Giudiziario. La famiglia di mia madre, buona famiglia borghese bolognese, non avrebbe mai pensato di subire un’onta del genere. Anche se abitavo in Via Guerrazzi, quartiere Santo Stefano, quello della Bologna Bene e quello più a destra, distante solo trecento metri dalla nuova stanza da letto di mio babbo (da fiorentino, anche se rinnegato, l’ho chiamato sempre babbo), non andammo mai a trovarlo. È stata questa la mia prima esperienza col carcere: non si vedeva, ma c’era.

Il carcere ha a che fare col potere, è uno dei luoghi del potere; e per chi viene da una buona famiglia borghese, e si occupa di arte, il potere è comunque un compagno di viaggio, certo scomodo, ma da cui non si può avere scampo. L’arte e il carcere, oltre al potere, hanno un’altra questione in comune: la libertà. Certo su piani molto diversi, ma l’artista e il detenuto hanno un rapporto ambiguo con quest’arma a doppio taglio. Sono stato all’Ucciardone di Palermo l’anno scorso, per tenere un workshop e alla Fortezza Medicea negli anni Novanta, per uno spettacolo di Armando Punzo e più recentemente al Carcere di Santo Stefano e quello di Robben Island, a Cape Town, entrambi chiusi da tempo. Quello di Bologna, la Dozza, mi ha fatto impressione coi suoi corridoi bassi, smaltati grigio e cancelli blu. Solo dopo un po’ di volte la tensione è calata, alla fine non ne ho avuta coi detenuti, ma con l’edificio.

P.S.: quando si dice Ucciardone o Dozza, i nomi più comuni per dire le carceri di Palermo e Bologna, bisogna sapere che invece si chiamano rispettivamente «Calogero Di Bona» e «Rocco D’Amato», due agenti di custodia uccisi facendo il proprio lavoro.

SC: Avevi dei pregiudizi o delle attese che sono stati messi in discussione?

FF: In posti del genere si va a briglie sciolte, col cuore in mano e le mani in tasca. Negli incontri in Alta Sicurezza è successo che ho avvertito una sorta di situazione strana, è stato come se non fosse successo nulla a nessuno, cioè come se nessuno avesse fatto nulla di strano, in fondo eravamo in un’aula per niente diversa dalle aule di scuola, era come stare a discutere, certo di cose serie, e come in una rappresentazione. Come essere in un programma TV, come essere ripresi da un video, eravamo tutti attori, era come un teatro.

Forse perché i detenuti erano del Meridione, con certi modi fatalisti, o perché erano della criminalità organizzata. Certi sorrisi, domande, interventi, espressioni, sguardi, tutti con varie maschere; a volte composti, con pose rassegnate o anche vanitose, tutti in tuta di acetato o poliestere, per essere comodi o atleti, un po’ in divisa o come se non ci fosse tempo di mettere abiti meno semplici e veloci da indossare; oppure perché la tuta è un’eccezione, non è proprio casual, come il loro periodo in carcere. O forse la loro storia li ha fatti vivere in una recita continua, dentro una grande teatro per sfuggire alla realtà. Alla fine perché sono andato in carcere a dare il meglio di me? Non lo so bene, forse per andare a trovare mio padre o l’uomo che non deve chiedere mai.

SC: Com’è stato lavorare con i detenuti?

FF: Non so bene se si possa usare questo termine lavoro. E non so nemmeno se per i detenuti sia stato un momento di lavoro o di svago. Dico svago perché si ha l’impressione che la cultura o parlare di arte sia giusto uno svago per ricchi o comunque persone che non hanno il bisogno di lavorare, che hanno del tempo libero (o da perdere). Quando si è parlato di arte una delle detenute, proveniente dal Centro America, ha detto «arte come il balletto o la danza, le cose che fanno i ricchi». Le belle arti adornano i bei palazzi, dove ci vive la bella gente, ricca e potente. Ci sono stati dei momenti intensi, alcuni hanno fatto domande, qualche simpatica polemica («ma quest’arte contemporanea non è una presa in giro?»), ma anche attimi cruciali: qualcuno ha visto nei mie collage, fatti con ritagli di lattine di birra, delle città viste dall’alto, e dicendolo tradiva una certa serietà: chissà quante altre volte gli sarà capitato di trovarsi a sedere, in un tempo libero e tutto per séa parlare di cose diverse da quello che impone una vita materiale: una vita materiale a Rosarno.

SC: Qual è stato, se c’è stato, il momento più difficile dell’intero progetto?

FF: In Alta Sicurezza all’ultimo incontro-lezione, mentre attendevo l’apertura dell’aula, ho guardato fuori: stavano giocando a pallone nel cortile. Mi sono avvicinato alla finestra ma un agente di custodia, a voce alta, direi sgarbata, mi ha detto: «non è uno spettacolo, è vietato guardare!». Sono rimasto scosso, ho chiesto scusa. Già, ma che c’è da guardare? Avrei guardato come giocavano a pallone.

SC: Hai mai pensato che parlare di banconote dentro al carcere sarebbe stato un po’ ambiguo?

FF: La banconota è ambigua, i soldi sono ambigui e anche la buona arte lo è. E così lo è stata anche la mia educazione. I soldi sono una cosa seria e anche il carcere lo è. Credo che parlare e discutere per qualche ora di una cosa che è stata vista e vissuta e sentita in modo univoco per tutta l’esistenza, alla fine non possa comunque avere un grande effetto. Credo anche che in qualsiasi ambito parlare dei soldi sia ambiguo. Recentemente parlavo con una persona di una banca per un possibile progetto appunto sui soldi e mi ha scritto: «invece di “soldi”, usa “moneta”, è più tecnico».

I soldi sono degli esseri viventi, vi sono rappresentati i migliori simboli della storia di ogni paese, sono le cose più viste e meno guardate, puzzano. E alla fine del loro corso vengono tagliati a pezzi e cremati.

SC: Pensi che l’arte possa parlare a persone che non conoscono l’arte?

FF: Ho detto del detenuto che ha parlato con passione del suo modo di vedere la mia opera. A briglie sciolte, in zona protetta, è accaduto di pensare liberamente senza pregiudizi e schemi. Credo che l’arte sia elitaria. E intendo per élite un gruppo di persone, senza carta di credito, interessate ad accettare un punto di vista differente. Per forza di cose, queste persone, visto anche la situazione attuale, non possono che essere un’élite. Tante volte, troppe, ho sentito professionisti, medici, avvocati, ingegneri, politici, mettere subito le mani avanti: «ah io di arte non capisco nulla!».

A metà settembre presento nel paese dove abito, a Savigno, in provincia di Bologna, una mia opera, un muro dipinto su una casa abbandonata. Ho trovato tante difficoltà ad avere il permesso di dipingere su un vecchio muro fatiscente dei passaporti: anche loro documenti di valore e quindi ambigui. Ci ho messo dieci anni per avere il permesso. Ho già avute molte critiche sui social, alcune anche offensive, e solo per avere dipinto su un muro di una casa abbandonata. Ecco perché parlo di élite, perché la gente sembra sempre più scocciata e insofferente.

Per rispondere alla tua domanda, forse non bisognerebbe usare il termine arte quando si parla con persone che non conoscono l’arte. Sono pensieri, sono immagini in libertà. Quando ero bambino ci dicevano di scrivere un pensierino. Gli artisti sono quelli che scrivono ancora i pensierini. Il detenuto calabrese, che ha commentato e interpretato la mia opera, non parlava d’arte, ma di immagini libere, di sue impressioni senza nessuna costrizione e senza un fine preciso, ha detto un pensierino. Si chiama anche poesia, ed è capitata anche dentro un carcere.

Flavio Favelli
Scuola di disegno. Storia dei soldi
all’interno del progetto ‘Vapori lunari’, a cura di Serena Carbone
scuola in carcere dell’IIS Keynes di Castel Maggiore presso la Casa Circondariale Rocco D’Amato, Bologna, 9 febbraio-9 maggio 2023

Flavio Favelli

(Firenze, 1967), dopo la Laurea in Storia Orientale all’Università di Bologna, prende parte al Link Project (1995-2001). Ha esposto con progetti personali al MAXXI di Roma, al Centro per l’Arte Pecci di Prato, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, alla Maison Rouge di Parigi e al 176 Projectspace di Londra. Partecipa alla mostra “Italics” a Palazzo Grassi nel 2008 e a due Biennali di Venezia: la 50a (“Clandestini”, a cura di Francesco Bonami) e la 55a (Padiglione Italia a cura di Bartolomeo Pietromarchi). Nel 2008 realizza “Sala d’Attesa”, ambiente permanente nel Cimitero Monumentale della Certosa di Bologna che accoglie la celebrazione di funerali laici. Nel 2015 l’opera “Gli Angeli degli Eroi” viene scelta dal Quirinale per commemorare i militari caduti nella ricorrenza del 4 Novembre. Tra i suoi ultimi progetti “Senso 80” (Albergo Diurno Venezia di Milano, 2017); “UNIVERS. Un negozio metafisico” (Venezia, 2017); “Serie Imperiale” (Casa del Popolo ed ex miniCoop di Bazzano, 2018), vincitore della seconda edizione di Italian Council; “Il bello inverso” (Ca’ Rezzonico, Venezia, 2019). Il suo ultimo libro è “Bologna la Rossa” (Corraini 2019).

Serena Carbone

(1981) si occupa di storia e critica d’arte contemporanea, con particolare riguardo alla relazione che intercorre tra arte, storia e società. PhD in Studi Culturali Europei, è autrice del libro “Marcel Broodthaers. Poetiche dell’ombra” (Mimesis 2018). Ha curato la mostra “No, Oreste, No. Diari da un archivio impossibile” al MAMbo con la relativa pubblicazione (2019) e insegna presso la Fondazione Accademia Internazionale di Imola. Ha scritto saggi e articoli su diverse riviste di settore, collabora con il quotidiano “il manifesto”.

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