Storie dell’arte contemporanea

07/11/2023

Come dimostra un ominoso repertorio cinematografico, dalle Vacanze intelligenti di Alberto Sordi (1978) a The Square di Ruben Östlund (2017), passando per le aste di Tele Proboscide e il memorabile «nascondismo» di Corrado Guzzanti (alias Dottor Armà), pochi bersagli quanto l’ambiente denominato «arte contemporanea» si prestano alle folgori della satira. Dipende con ogni probabilità dal suo regime “separato”, in cui vigono cioè linguaggi e sistemi di valori più o meno rovesciati rispetto a quelli del resto della società, e in quanto tali elementari da mettere alla berlina per l’audience “generalista”. E tuttavia la satira perde sempre d’efficacia, e scade di norma a facile moralismo, quanto più viene condotta “dall’esterno”: quella più sferzante (come nel caso del film di Östlund, ambientato in un museo di Stoccolma tormentato dai social network e dal politically correct) la può esercitare solo un insider: cioè una persona talmente informata sui fatti da essere parte, a tutti gli effetti, dell’ambiente satireggiato.

L’esordio nella scrittura non saggistica di Andrea Bellini è un azzardo, e per diversi motivi. Uno dei curatori indipendenti più brillanti degli ultimi vent’anni, da un pezzo felicemente accasato in una delle realtà più sciccose d’Europa (dirige il Centre d’Art Contemporain di Ginevra, e nella stessa città la Biennale de l’Image en Mouvement), da un libro del genere ha solo da perdere, si capisce. Ma, fedele anche in questo al suo ideale maestro Ennio Flaiano, il perdere ai suoi occhi esercita un’attrattiva irresistibile: e così eccoci qui. Con l’allusivo package che clona la grafica d’una prestigiosa collana saggistica (effigiata vi è un’opera di Roberto Cuoghi), e un titolo a trabocchetto come Storie dell’arte contemporanea (203 pp., € 20), il nuovo e sulfureo editore Timeo vuole sottolineare, al contrario, come tutto meno che un saggio stiamo per leggere. Ed è proprio così.

A questo libro (del quale, per la cortesia di autore ed editore, proponiamo qui le prime pagine), però, neppure le convenzioni più trite della fiction convengono: non è quella che oggi chiamano «narrativa», certo. Non è «una nuova indagine del commissario Bellini», non è la saga della famiglia Bellini nei secoli dei secoli, non sono le corna che mette la signora Bellini al signor Bellini o viceversa, neppure è l’epopea di B., il dittatore che amerete odiare. I tipi umani che disegna sono modellati – con spietato senso fisiognomico – su persone vere che è facile riconoscere anche se, o proprio perché, non le si sono mai viste di persona. È quella cosa che una volta si chiamava «satira», si diceva, che troppo spesso si scambia per moralismo appunto. Perché il kulturkritik, col ditino alzato d’antan, in genere tutto critica tranne sé stesso. Non è questo il caso: se queste «storie» strappano la pelle a chi ne è oggetto è perché, come a quel dannato del Giudizio universale, il primo a cui l’hanno strappata è quello che ha dipinto l’affresco.

Andrea Cortellessa

I racconti che seguono, per quanto vagamente ispirati a fatti e fattarelli reali, sono in buona parte frutto della mia fantasia. Se qualcuno vorrà riconoscersi nei diversi personaggi lo farà per propria scelta e a proprio rischio e pericolo. Questo libro non parla di nessuno in particolare, ma forse di tutti noi, e certamente parla del sottoscritto, del quale costituisce una sorta di autoritratto divertito e disperato. Anche se, a dire il vero, qui non ci si dispera troppo, né troppo si spera; si accetta che il mondo sia inesatto, e noi con lui.

Non essere più di moda

Qualche giorno fa, tra una tartina e l’altra, un amico gallerista mi ha confessato una triste verità. Mai dimentico del proprio carisma, sputacchiando qui e là una miscela di spritz e arachidi, l’oracolo ha sentenziato: sai, ormai i galleristi non vanno più di moda. Forse abbiamo esagerato, ha aggiunto, avanzando una sua vaga ipotesi sul come la categoria sarebbe caduta in disgrazia. In effetti, dal secondo dopoguerra in poi, il gallerista si è dato bel tempo per diversi decenni, diciamo almeno sei. Carismatico artefice delle fortune di giovani artisti ogni volta del secolo, il gallerista ha goduto finché ha potuto, cioè finché il mercato ha tirato. Convinto nel profondo di essere una figura del destino, il gallerista l’ha fatta da padrone, come d’altronde il curatore prima di lui, e il critico prima ancora del curatore, e così indietro nel tempo fino all’artista, e siamo risaliti al Rinascimento. Ora – mi diceva accorato l’amico – la situazione è cambiata: la gente ci evita, i migliori ci guardano con sospetto, siamo diventati gente di poco conto, degli sfigati, degli untori. Con lo sguardo distratto e vagante al di sopra della sua irresistibile barba bianca, l’amico mi sembra ora un agnello sacrificale in attesa di essere accoppato dalla spada invisibile della storia. A ben vedere qualche motivo di preoccupazione avrebbe ragione ad averlo. Da qualche anno il sistema dell’arte, in piena crisi esistenziale, ha cominciato a manifestare diffidenza nei confronti del mercato, a rivendicare la necessità di un ritorno all’essenza, all’autentico, vagheggiando financo l’impegno civile. Alcuni nobili concetti, a dire il vero moneta corrente al di fuori del sistema dell’arte ormai da qualche tempo, hanno cominciato a circolare nel nostro ambiente come ceppi di virus, facendo strage delle menti più deboli, cioè la maggioranza. Si è cominciato in totale buona fede a parlare dell’importanza degli archivi, poi si è passati al concetto di agency, poi a quello di antropocene, poi a quello di decolonizzazione, di tecnofascismo, e infine a quello di estrattivismo. Ripetendoli ossessivamente, patologia che i neuropsichiatri definiscono ecolalia, i curatori di mostre – gente di media cultura, quindi nessuna – si sono convinti di essersi finalmente acculturati, quasi per magia e senza fatica, grazie a una sacra induzione. Preda di angoscianti sensi di colpa, riducendo a lugubre nenia i pur sacri programmi etici, i curatori hanno creduto in questo modo di acquisire nuovo capitale morale, e con esso il diritto a circolare indisturbati ancora per qualche lustro: i miracoli dell’autoipnosi, verrebbe da pensare.

E comunque di questa benevola e in fondo inoffensiva confusione mentale tra impegno e disimpegno fanno le spese – pur assai relativamente – proprio i galleristi, o almeno questo crede il mio amico. Insomma non sapendo bene come rispondergli, alquanto contrariato, ho pensato di tranquillizzarlo. Gli ho detto: «Non ti preoccupare, troverete anche voi – come noi curatori – un modo per tornare presentabili; depositi e magazzini sono ancora pieni di opere che avete sistematicamente ignorato in passato. Sai quelle artiste che fino a qualche anno fa consideravate semplicemente le mogli di qualcuno? Basta ramazzare nei posti giusti e tornerete a viaggiare e a fare festa come avete sempre fatto». A questa prospettiva l’oracolo mi è sembrato quasi rincuorato. «E tu come stai?», mi ha domandato infine. «Più o meno bene», ho risposto io. «Provo a scrivere, ma la mia prosa è incerta, scrivo a orecchio, con un dito solo».

Arte astratta

M.W. è arrivata al ristorante in cui avevamo appuntamento carica di un’energia sopra le righe, come una massa d’acqua pronta a far esplodere una diga. La sua è un’eccitazione senza direzione, che mi imbarazza e mi tiene sulle spine. Si è spalmata del glitter mezzo centimetro fuori dalle labbra sottili e perennemente screpolate. La storia di M.W. è semplice, e, come la vita di tutti noi, tende al cliché. I suoi due bei figli maschi, allevati con le migliori cure e senza badare a spese, sono partiti per studiare a Londra. Dopo: il vuoto. Non sapendo bene cosa dire le chiedo del suo ex marito, e lei, con un gesto rapido della mano come per scacciare una mosca, risponde che è tutto passato, che non ricorda più, che non ha nessuna importanza. È tornata a studiare – questa la grande novità – e purtroppo temo di sapere anche cosa: «Frequento un master in arte ed economia all’Università di Losanna», mi dice, come illuminata da un’improvvisa buona notizia. Frequenta il corso due volte alla settimana e non le rimane il tempo di fare nulla, è troppo indaffarata. Tutti la cercano per chiederle qualcosa: organizzare un vernissage, curare la comunicazione di una galleria o le pubbliche relazioni di un ristorante. Ovviamente non presterà i propri servigi a un semplice ristorante: si tratta di un nuovo «concept», un simpatico posticino che sarà aperto per soli quindici giorni, senza repliche. Il locale istantaneo è l’idea di un cuoco autodidatta ma geniale, esperto di musica jazz e direttore di una fiera d’arte. Una persona di talento, uno che in qualche modo mi assomiglia, sentenzia sicura. Si congratula – tornando a me con rinnovata complicità – per la mia ultima mostra. «Finalmente», aggiunge, «sei riuscito a fare una collettiva rilevante», e sento che vorrebbe aggiungere un aggettivo indimenticabile, ma non riesce a trovare le parole, quindi preferisce tornare subito a sé stessa. Non considera più interessante comprare arte, investire tanti denari per entrare in possesso di opere destinate a un oscuro deposito di periferia. Con il collezionismo lei ha chiuso, adesso è tempo di mettere al centro gli artisti. «Al centro di che cosa?», provo a chiedere. «Al centro dell’interesse della gente», che però intendo, nella fattispecie, essere nient’altro che un gruppo di collezionisti amici suoi, una sorta di club esclusivo, i quali sarebbero felici di essere intrattenuti per qualche ora dall’autore delle cianfrusaglie che comprano a man bassa, sperando di fare ogni volta l’affare del secolo. A questo punto M.W. ordina un’insalata di carote che mangia compunta e svogliata, come stesse sbrigando un’ordinanza comunale. Piccoli frammenti di carota continuano a caderle dagli angoli della bocca, somigliano a una pioggia di refusi che precipitando accompagna la regressione del suo linguaggio a cantilena. Ora si offre di aiutarmi, anche a titolo gratuito, per fare non sa bene che cosa. Ma è con il caffè che arriva «il momento della confessione», è così che mi dice mentre mi sfiora con l’avambraccio come fosse un suo inappellabile diritto biologico. «Spero niente di troppo privato», provo a buttare lì sorridendo. «Ma figurati», risponde lei con grazia affettata, «volevo solo farti sapere, e spero non me ne vorrai per questo, che io ho un problema con l’arte astratta».

Quasi quasi faccio un film

Da diversi anni e con risultati alterni mi occupo di una Biennale delle immagini in movimento. Questo ruolo espone le mie stanche membra al fuoco di fila di artisti e curatori che lavorano ai limiti (sempre estremi) del cinema e della video arte. Perlopiù mi si chiede un obolo, un aiuto alla produzione, una partecipazione istituzionale.

Qualche giorno fa ho trovato nella mia casella di posta elettronica la mail di due artisti, A. e T. In allegato c’era un documento: il progetto, per l’appunto, di un film e la richiesta di un incontro che, per diverse ragioni, sono obbligato a concedere, pur sapendo fin troppo bene come andrà a finire.

Si presentano tutti e due qualche giorno dopo. A. ha un pullover giallo canarino e una cravatta bianca e nera, ride sornione, sembra contento. T. è invece uno spirito dell’aria, non sapresti mai dire dove sta veramente: ha un viso spigoloso, grandi occhiali quadrati anni Settanta e gli occhi verdi slavati come un prato di montagna appena abbandonato dalla neve.

Sono una coppia? Non lo so e poco importa. Certo è che in coppia hanno deciso di lavorare. Lavorare si fa per dire. Quella mattina sono di buon umore e voglio conservarlo, e prima che comincino a parlare propongo di raccontare loro il motivo di questa nostra riunione. I due, piuttosto divertiti e sollevati, si dicono tutt’orecchi. «Allora ragazzi la situazione è questa: A. si sveglia depresso più del solito e dopo qualche sbadiglio prende la drammatica decisione di andarsi a fare il caffè, il più buono della giornata, il primo. Mentre riempie il filtro con il macinato ha finalmente un’epifania, una di quelle idee che possono cambiarti il corso della vita: quasi quasi faccio un film, pensa tra sé e sé. Incapace di gestire da solo l’urto per questa improvvisa emozione, telefona a T. e gli propone di fare il film insieme: meglio unire le forze. Da bravo italiano A. sa bene che è preferibile condividere le potenziali sconfitte, se proprio non si riesce ad attribuirle direttamente a qualcun altro. Et voilà la fine della storia, ragazzi». I due si mettono a ridere di cuore, nemmeno si offendono. Capisco a quel punto che è andata davvero così.

Confesso loro di non aver avuto il tempo di leggere le tre paginette del documento e chiedo lumi sul film che intendono realizzare. Mi dicono che si tratta di una via di mezzo tra un reality show e un road movie. Molto interessante, dico io mentendo in modo volgare, e che tipo di film vorreste fare? Qual è l’atmosfera? Mi sembrano indecisi riguardo a questo non proprio trascurabile aspetto. Allora comincio con le illazioni: «Insomma volete fare un film generazionale, magari sul periodo del confinamento, o volete rendere conto di un’esperienza non verbale che colpisca il subconscio?».

Sentendosi colti in fallo da domande che forse giudicano inopportune o troppo private, si guardano tra di loro e decidono di optare per la seconda ipotesi, gli suona meglio. «In effetti», e qui si limitano a citarmi, «dovrebbe essere un film che tenta di rendere un’esperienza non verbale, in grado di colpire, eventualmente, il subconscio». «Va bene, e c’è un copione, avete una storia, dei dialoghi?». A quel punto li vedo farsi ancora più confusi e capisco che non si sono mai spinti così avanti. Trovo dunque conferma a quello che già intuivo con la prima email. In loro c’è la sola volontà di fare un film, ma non la buona volontà kantiana, la volontà che è conforme al dovere. La loro è una volontà indefinita e triste: la volontà di affermarsi, di diventare famosi. La loro pulsione è tutta e soltanto nell’ebbrezza di arrivare.

«Va bene ragazzi, almeno spiegatemi come posso aiutarvi», rilancio io, tanto per rompere il silenzio. Anche su questo punto mi sembrano in alto mare, vorrebbero che gli suggerissi qualcosa, qualsiasi cosa. A quel punto capisco che il loro film è diventato il mio problema. È come se fossero venuti ad accendere un cero alla Madonna. Chinano il capo e si rimettono alla Provvidenza. Molto ambiziosi e tuttavia fondamentalmente pigri – altrimenti non avrebbero tentato la carriera nel mondo dell’arte – amministrano le proprie forze con parsimonia, si guardano intorno, annusano la tendenza, cercano di capire come butta, ma di lavorare non se ne parla: rischierebbero di sbagliare.

«Allora facciamo così», riprendo io con piglio risoluto, «vi mando un esempio di come buttare giù un dossier, la nota del regista, un budget ecc. ecc. Una volta che avete preparato il documento proviamo a cercare un produttore». Il tono della mia voce li risveglia dal torpore, alzano di nuovo la testa, sorridono, mi sembrano felici, sollevati all’idea di potersene finalmente andare. Quindi mi alzo, stringo loro la mano come a suggellare un patto di sangue e li saluto.

«Allora siamo sul pezzo, forza!»

Il film non si farà mai, insomma, ma credo di poter dire che nessuno ne sentirà la mancanza.

Andrea Bellini
Storie dell’arte contemporanea
illustrato da Roberto Cuoghi
Timeo, 2023
204 pp., 20 €

In copertina: un’opera di ©Vanessa Beecroft

Andrea Bellini

è direttore del Centre d’Art Contemporain Genève dal 2012. Tra gli incarichi precedentemente ricoperti, è stato co-direttore del Castello di Rivoli, direttore di Artissima, curatorial advisor del MoMA PS1 e redattore capo di “Flash Art International”. Ha curato numerose esposizioni personali, tra cui ricordiamo quelle di Marina Abramović, Hannah Black, Lisetta Carmi, Roberto Cuoghi, Chiara Fumai, Ernie Gehr, Giorgio Griffa, Sonia Kacem, John McCraken, Nicole Miller, Philippe Parreno, Thomas Schütte e Hannah Weinberger. Tra le esposizioni collettive, alcuni progetti sono dedicati in particolare al rapporto delle arti visive con il teatro o con pratiche di scrittura e alle loro possibili interazioni all’interno della cultura visiva e digitale contemporanea, come le recenti “From Concrete to Liquid to Spoken Worlds to the Word” e “Scrivere Disegnando”. Bellini è inoltre direttore artistico della Biennale de l’Image en Mouvement di Ginevra, che dal 2014 ha trasformato in una piattaforma di produzione video, realizzando opere di numerosi artisti. Le pubblicazioni più recenti includono: “Facing Pistoletto” (2009), “Gianni Piacentino” (2013), Robert Overby, “Works 1969-1987” (con Alessandro Rabottini, 2014), Giorgio Griffa, “WORKS 1965-2015” (2015), Roberto Cuoghi, “PERLA POLLINA 1996-2016” (2017), “Writing by Drawing. When Language Seeks Its Other” (2020) e “Poems I Will Never Release. Chiara Fumai 2007-2017” (con Francesco Urbano Ragazzi e Milovan Farronato, 2021).

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