Per Marco Vallora
Un’altra pianura si spinge lentamente verso la nostra.
Viaggiando da qualche parte in un mondo a forma di occhio.
E non abbiamo ancora capito quali altri paesi guardi quell’occhio.
Gerald Murnane, Le pianure
Il suggerimento arriva da Rivette. In un’intervista del ’99, discutendo dell’impossibile innocenza del cinema, conosciuta forse dal solo Lumière, cita Il teatro delle marionette di Kleist. Si riferisce al passaggio in cui l’interlocutore dell’autore, il signor C., dice: ‘Il paradiso è sprangato, infatti, e il Cherubino ci sta alle spalle. Dobbiamo metterci in viaggio, fare il giro del mondo e vedere se non ci sia per caso un altro ingresso sul retro’. Rivette parafrasa a memoria (e noi traduciamo alla lettera): ‘è perduta da sempre, l’innocenza, e la sola cosa che possiamo fare è un lavoro enorme per provare, compiendo una gigantesca deviazione, a vedere se non ci sia, sul retro, una piccola porta che ci permetterebbe di tornare nel paradiso originale’. Storia del cinema, dunque, non come dramma di un’ipotetica cacciata dal paradiso delle origini (il muto? il bianco e nero?), ma invece come duplice movimento: dell’illusione di aver posseduto e poi perduto tale innocenza, e dell’avventura immensa intrapresa per cercare di recuperarla – anzi, per tentare anche solo di capire se sia possibile, credendo d’intravederla attraverso lo spiraglio di una “porta sul retro” (così simile all’obiettivo della macchina da presa), salvarne un ricordo, o inventarne un’imitazione. Questo ‘lavoro enorme’ fatto attraverso una ‘gigantesca deviazione’ (Rivette dice détour, e non è il montaggio la massima operazione di détournement concepibile?) altro non sarebbe che l’impresa in cui le immagini cinematografiche costantemente coinvolgono lo sguardo tramite la messa in scena: gli mostrano qualcosa per poi subito distoglierlo e concentrare la sua attenzione su qualcos’altro, costringendolo a cogliere una continuità o ad ammettere una frattura sia fra quelle cose sia fra le cose e se stesso.
Ma se ogni grande film e anche ogni film veramente riuscito coincidono con un possibile giro intorno al mondo all’incontrario – cioè con la fatica, a volte gioiosa a volte sacrificale, di manifestare una forma che prima neanche esisteva nel momento stesso in cui mostra qualcosa di visibile – allora la storia del cinema non sarà mai lineare e cronologicamente ordinabile, perché ogni film seguirà un tragitto diverso dagli altri; e la storia andrà semmai ricondotta agli incroci in cui, più o meno imprevedibilmente, si sovrappongono le traiettorie di certi film, quelli che durano perché ancora vi si trova traccia della ricerca di quell’innocenza tanto perduta quanto presunta. La storia del cinema è contenuta nel cinema stesso perché fatta di immagini, di ritorni e ritorsioni di quelle immagini, e non di parole (che le stanno semmai in un accanto che è già un fuori), e perciò esiste per intermittenze, non per periodi, movimenti o aree geografiche: solo fintanto che sto guardando un film partecipo e contribuisco alla paradossalità spazio-temporale della coincidenza/divergenza di infinite immagini in un unico fotogramma o poco più, e alla scoperta di un intero, nuovo linguaggio.
Non tanto perché (a proposito di perduti paradisi) quando guardo Tabu di Miguel Gomes non posso non vedere, in filigrana, l’omonimo film di Murnau, oppure perché La jetée è a suo modo un remake di Vertigo, e i film di Teshigahara scritti con Kobo Abe continuano quasi fisiologicamente nell’opera di Kim Ki-duk e Lanthimos. Piuttosto perché con La Règle du jeu o Viaggio in Italia si assiste per la prima volta allo stabilirsi istantaneo di uno “stato di aggregazione” delle cose, cioè alla rivelazione di una sintassi e di una sensibilità ritrovate poi nelle più distanti vagues nouvelle, da Parigi a Taiwan, ma che prima di Renoir e Rossellini erano completamente sconosciute; perché di fianco ai paesaggi di Satyajit Ray spesso sembrano allinearsi quelli di Anthony Mann; perché lo stile di Scorsese dipende dai piani sequenza lungo le scale all’inizio di The Red Shoes non meno che da quelli girati nelle strade di Manila da Lino Brocka (Negli artigli della luce: se non il titolo più bello di sempre, almeno l’espressione più esatta per descrivere la “posizione” del cinema); perché dietro all’osso-astronave di Kubrick si intuisce la colonna-grattacielo dell’ultima dissolvenza di Simón del desierto. E si potrebbe continuare, finendo a riconsiderare la visceralità coloristica di Nick Ray e non soltanto del solito Sirk attraverso Fassbinder; o a scovare somiglianze tra le mutazioni identitarie dei protagonisti di Mamoulian e i corpi ibridati a forza da Tsukamoto; o a dichiarare che il simbolismo di Tarkovskij, che intende esprimere il meccanismo figurale ed emozionale del simbolo (il cavallo che si rivolta a terra nel prologo di Andrej Rublëv come passaggio del simbolo attraverso il tempo) e non un suo contenuto “reale”, funziona come la fantasmagoria senza oggetto di Pandora and the Flying Dutchman di Albert Lewin.

Resta da capire in che modo si rintracci, in verità si ricrei attraverso la finzione filmica, l’innocenza del paradiso ormai ‘sprangato’. Nel Quarto viaggio dell’Introduzione alla vera storia del cinema Godard discute sostanzialmente di questo quando sostiene che i film di maggior interesse permettono di ritrovare o piuttosto di ricollocare nello sguardo dello spettatore l’invenzione di Lumière, che dopo aver costruito la macchina da presa se ne servì anche come proiettore: ‘Era qualcosa di inconsapevole, ma anche di completamente normale. Lumière ha inventato il proiettore contemporaneamente alla macchina da presa. Così quel che nel primo dispositivo serviva a riprendere il film, serviva anche a proiettarlo’. Il carattere inconsapevole e spontaneo, insomma innocente, dell’esperimento di Lumière è durato magari il tempo della prima ripresa, della prima proiezione, ma è bastato a stabilire come fondamento (oculare e concettuale) dell’esperienza cinematografica l’uso di una stessa apparecchiatura che riprende, si rovescia, riproietta quello che ha ripreso. Secondo Godard i film più interessanti, meglio riusciti sono quelli che restituiscono quel tipo di concomitanza primaria della macchina-cinema, installandone ogni volta un modello nel canale ottico dello spettatore: ‘quando lo spettatore guarda, allora la macchina da presa è come se fosse rovesciata, e lui ha una specie di cinepresa nella testa, dove c’è un proiettore e quello che proietta…’. Sullo schermo passano figure umane e sagome astratte, miniature e mastodonti, ma quel che effettivamente si vede è quello che c’è tra queste cose, il movimento come rapporto o rifiuto del rapporto tra esse e l’occhio che interferisce con le condizioni di esistenza del fascio luminoso. (D’altra parte gli spettatori collaborano inevitabilmente ai silenzi, alle reticenze, alle ambiguità di un film). Anche se questo non vale concretamente per il digitale, a livello tecnico esiste una luce che incide ed una che proietta. Ma dal punto di vista della testa dello spettatore, camera di incubazione e lanterna magica a un tempo, cattura e proiezione, impressione ed espressione delle immagini diventano complanari e compresenti rendendo visibili gli intervalli tra le cose, dando forme, seppur instabili, ai contenuti nascosti del reale – ecco il miraggio dell’innocenza ritrovata, il paradiso riconquistato come allucinazione.

A questo proposito il finale di Pickpocket vale come la dimostrazione di un teorema. Nel parlatoio Michel riconosce finalmente Jeanne come figura di luce (‘Quelque chose illumina sa figure’ pensa la sua voce fuori campo), aureolata com’è di quell’amore che fino all’ultimo lui ha tentato di negare. In concreto lui la guarda davvero per la prima volta, e guardandola la bacia e la tocca attraverso le sbarre della prigione. La grata, che pure sarebbe l’ostacolo che li separa, in verità è il reticolo grazie al quale Michel raggiunge Jeanne, allungando le dita e le labbra verso di lei; ed è anzitutto la grata, insieme cesura e nodo, che noi vediamo come materializzazione del desiderio dei due – infatti l’inquadratura è integralmente occupata dall’inferriata mentre la macchina da presa si avvicina agli attori e sentiamo l’ultima frase di Michel: ‘Oh Jeanne, pour aller jusqu’à toi, quelle drôle de chemin il m’a fallu prendre’. È il giro del mondo secondo Bresson, la sua interpretazione del détour prescritto da Kleist e Rivette: la derelizione criminosa di Michel lo ha allontanato quanto più possibile dall’innocenza di Jeanne, e solo dopo aver percorso la via più lunga e difficoltosa riesce ora a scorgere, tra le maglie strette della grata, un barlume di riscatto a venire, un sogno di paradiso in terra. A ben guardare, in tanti film di Herzog, cineasta non meno spirituale di Bresson, si riscontrerebbero una desolazione altrettanto numinosa e onirica, e l’obbligo di una redenzione da conquistare a qualunque costo, fino all’estasi o all’autodistruzione.

Lo ha di-mostrato Queneau in Surburbio e fuga, romanzo composto dai tanti film immaginabili al posto della vita:la visione del cinema, intesa sia come il tipo di vista sia come il flusso di immagini che genera, implica sempre una dose di illusorietà, che può risultare nel fascino liberatorio di un perenne gioco dell’invenzione o nell’irrequietezza che deriva dal rischio di un naufragio esistenziale (tutta l’opera di Welles è denuncia e celebrazione di questa doppiezza, racchiusa anche nella biglia de La double vie de Véronique, che ammalia e scivola via). In una magnifica scena di Ball of Fire Barbara Stanwyck, che interpreta la ballerina di nightclub Sugarpuss, guida gli avventori del locale intorno a un tavolo lucido dove il celebre batterista Gene Krupa suona Drum Boogie, un suo standard, con due fiammiferi e la piccola scatola che li conteneva. E difatti per l’occasione il pezzo cambia titolo in Match Boogie. Sugarpuss dà il ritmo e il pubblico canta assiepato intorno al tavolo. Al termine dell’esibizione, proprio sull’ultima nota, Krupa accende i fiammiferi strisciandoli sulla scatola e li solleva, per poi spegnerli soffiandoci sopra. Subito prima della chiusura per la seconda volta Hawks inquadra, per dieci secondi esatti, il volto di Stanwyck riflesso sulla superficie del tavolo, ma non è propriamente un primo piano perché di fianco ci sono le mani di Krupa che agilissime picchiettano le minuscole bacchette sul bordo della scatola. È raro incontrare una versione tanto pura dell’incanto cinematografico: in quei dieci secondi, prima che si accendano le luci (le due fiammelle), è l’abbandono totale delle persone concentrate a seguire il ritmo del montaggio (la voce di Sugarpuss) con lo sguardo fisso sulla mimesi di una batteria (messa in scena dai gesti ipnotici delle dita di Krupa) a “proiettare” sullo schermo scuro (il piano specchiante del tavolo) l’immagine filmata dalla macchina da presa (immagine hollywoodiana per eccellenza: il viso radioso di una diva). Non manca l’applauso finale, come era d’abitudine una volta in sala – e il film lo merita sul serio per aver segnato nel ’41 il passaggio di consegne tra Hawks, che aveva già marcato indelebilmente la commedia americana col semi-situazionismo di Bringing Up Baby e His Girl Friday, e Wilder, che firmò la sceneggiatura insieme a Charles Brackett e l’anno successivo divenne regista in proprio con The Major and the Minor, film di deliziosa depravazione che pare improbabile Nabokov non abbia visto. La formula magica della macchina-cinema, il segreto artigianale e fantascientifico insito nella sua tecnica, è condensata nel legame altrimenti invisibile tra il sorriso al secondo grado di Barbara Stanwyck e le mani a fuoco di Krupa, i due elementi che attraggono magneticamente il loro pubblico trasformandolo in un coro: il movimento che dà vita alla copia, e sospende il tempo.
Ogni occasione d’incanto, tuttavia, è anche un motivo di preoccupazione o di paura. Certo, la finzione mette in discussione la cosiddetta realtà che mette a sua volta in discussione la finzione che, a quel punto, mette in pericolo la realtà che… eccetera, come accade in Opening Night e eXistenZ, in Ruiz e de Oliveira. Ma il perturbamento dovuto al funzionamento “cerebro-ottico” dell’apparecchiatura di Lumière va oltre tale confusione di piani. L’incantamento è pur sempre uno stato di possessione, di perdita del sé, la cui coscienza conduce a un’inquietudine collettiva. Se il cinema ha generato una nuova tipologia di vista, allora lo spettatore, non meno di qualunque regista, è di continuo esposto alla minaccia dell’accecamento – o dell’incenerimento, come nel finale apocalittico di Kiss Me Deadly – al rischio cioè di credere troppo a quel che il proprio sguardo riprende e proietta. Come, secondo la tradizione mitopoietica, sarebbe accaduto già durante una delle prime séance dei Lumière. La prima, isolata frase del diario di Kafka lo testimonia: ‘Gli spettatori impietriscono quando passa il treno’. Il riferimento è naturalmente alla prima proiezione de L’arrivée d’un train en gare de la Ciotat nel gennaio 1896, durante la quale – leggenda vuole – il pubblico parigino sarebbe fuggito dalla sala temendo di essere travolto dal convoglio ferroviario. Questa percezione, tanto letterale quanto metaforica, del cinema come treno in movimento ha fondato una topica visiva e linguistica che, passando per il kinopoezd, il “cinetreno” di Aleksandr Medvedkin e i suoi film-viaggio (continuati e rifatti da Chris Marker) ma anche per tanto Hitchcock (The Lady Vanishes, Strangers on a Train, il malizioso finale di North by Northwest), arriva almeno fino a La nuit américaine, dove Truffaut dice che ‘i film procedono come treni nella notte’. (E già in un articolo del ’72 scriveva: ‘A dire il vero è probabilmente più giusta l’immagine hitchcockiana del film paragonato ad un tragitto in treno: le scene si agganciano come vagoni le une alle altre, la storia avanza sui suoi binari, il pubblico-viaggiatore non abbandona il treno, si lascia trasportare dal punto di partenza al capolinea attraversando paesaggi che sono delle emozioni’). Di recente Peter Tscherkassky, imprevedibile sperimentatore delle proprietà tattili della celluloide, ha sintetizzato in Train Again oltre un secolo di coincidenze tra l’immaginario dei treni su pellicola e la meccanica del film analogico, fornendo un’antologia in bianco e nero della lunga fedeltà tra ferrovie e macchina da presa. Anche in questo caso al fascino della velocità, esaltata dai dettagli mesmerizzanti delle locomotive e dallo scorrere frenetico della pellicola, subentra l’inquietante violenza del deragliamento, che avvampa e frantuma l’immagine in schegge di luce irriconoscibili.

Nella storia dell’identificazione fra treno e cinematografo spetta a Letter from an Unknown Woman il merito di aver saputo rendere visibile al massimo grado di definizione, e probabilmente di bellezza, l’inquietudine che viene dall’incanto. Il film del ’48 è piuttosto fedele all’omonimo racconto da cui è tratto, pubblicato da Stefan Zweig nel ’22, a partire dalla ricostruzione in studio del velato splendore della Vienna asburgica primonovecentesca: attraverso un lungo flashback sotto forma di lettera anonima racconta la passione assoluta della protagonista, che per tutta la vita ha amato un pianista vacuo e libertino (nella novella si tratta di un romanziere) il quale, nonostante i numerosi incontri occorsi negli anni, non serba di lei alcun ricordo. Mizoguchi, che a sua volta ne diresse un adattamento nel ’37, sosteneva che ‘tutto il melodramma si basa su Resurrezione’, e le somiglianze narrative e tematiche tra la prima parte del romanzo di Tolstoj e il film di Ophüls, così preciso nell’armonizzare la grazia festosa dell’innamoramento e un incombente senso di dissoluzione, effettivamente lo renderebbero un buon candidato a rappresentare l’archetipo definitivo del genere. Ma il genio di Ophüls – gran direttore di sinfonie per immagini in cui il pathos “legatissimo” del piano sequenza è punteggiato dagli elementi scenografici che, posti in primo piano come simboli d’una notazione musicale, segnalano altrettante tappe della visione – ne fa anche un’apologia del cinema nella sua interezza.
Tra le differenze fra la fonte letteraria e la versione filmica, oltre alla presenza del domestico muto al servizio del musicista (trovata drammaturgica notevole), spicca una variante fondamentale che coinvolge, lo si sarà capito, proprio un treno. Nel film la prima e unica notte d’amore tra Lisa e Stefan è preceduta, dopo una cena a lume di candela, da una passeggiata nel parco divertimenti del Prater, che manca invece nel racconto. La sequenza è ammantata dal presentimento di un regresso all’infanzia – l’età incantata per definizione, quella in cui Stefan è entrato nella vita di Lisa – acuito dal candore della neve caduta sul parco come ovatta e dalla mela caramellata e un po’ fiabesca che lui le offre dicendole appunto: ‘Now I see you as a little girl’. Sulla risposta di lei – ‘You do? – una dissolvenza incrociata e un movimento di macchina non per caso all’indietro ci portano nella carrozza di un treno dell’epoca, dove grazie a un meccanismo quasi identico al cinematografo, Lisa reinventa il suo passato di bambina e immagina un futuro irraggiungibile. Il vagone fa parte di una giostra del Prater gestita da due vecchietti che permette per pochi minuti di veder passare davanti al finestrino del treno scorci da cartolina di vari paesi del mondo: la bigliettaia all’ingresso raccoglie in cambio del prezzo di una corsa le richieste dei “passeggeri”, esattamente come farebbe nell’atrio di una sala cinematografica, però coi nomi delle nazioni al posto dei titoli dei film; il macchinista (che infatti Stefan chiama ‘the engineer’) cambia gli sfondi girevoli come un proiezionista sostituisce le bobine, e pedalando aziona la giostra come quello fa funzionare il proiettore in cui ruotano i nastri. Guardando al di là di tendine molto simili ai drappi di un sipario Lisa e Stefan visitano Venezia e la Svizzera. Durante la prima traversata Lisa racconta una versione fatata della propria infanzia, trasformando gli scherzi affabulatori del padre in un vero viaggio a Rio de Janeiro, mentre nel corso della seconda pone a Stefan domande che lasciano intuire lo struggente desiderio di passare il resto della vita con lui. Quando, alla fine della corsa, la bigliettaia informa Stefan che hanno esaurito i paesi da visitare, lui insiste per ricominciare da capo e, subito prima di rientrare nello scompartimento ormai eletto a nido d’amore e prigione degli occhi, dice: ‘We’ll revisit the scenes of our youth’.
La coazione a ripetere della finzione attraverso lo sguardo, il bisogno abbacinante di credere che ci sia sempre qualcosa da ritrovare, finiscono così per mutare la giostra in una capsula per impossibili viaggi nel tempo, confermando il carattere fantasmatico delle immagini volte alla ricerca di un’originaria innocenza. L’inquietudine di chi è rapito dal cinema nasce dalla consapevolezza voluttuosa di essere prigioniero per scelta in quella cabina, fuori dalla quale ci sono il mondo ordinario, la miseria, la morte – e sequestrati al secondo grado sono gli attori, Joan Fontaine, Luis Jourdan e tutti gli altri, i cui corpi di luce sono catturati una volta per tutte sulla pellicola tramite la grata dell’inquadratura (riecco Pickpocket), costretti a ripetere all’infinito gli stessi gesti (persino suonare Match Boogie può equivalere a una pena per contrappasso). Più densa di qualunque descrizione verbale dell’ontologia del cinema anche perché capace di restare in ambivalente equilibrio tra gioco e serietà – come tutta l’opera di Ophüls – la scena del “cinetreno” segna il trionfo dell’immaginazione cinematica intesa, anzitutto in analogia alla posizione dello spettatore, come condizione inscindibile di incantamento e deriva.
Il giorno dopo Stefan dà appuntamento a Lisa alla stazione ferroviaria perché deve partire per Milano insieme all’orchestra. Dopo averlo salutato lei si allontana nella direzione opposta a quella dei binari e fuori campo la sua voce devastata pronuncia una frase proveniente dalla lettera: ‘That train was taking you out of my life’. Come non pensare che il treno in questione debba essere piuttosto identificato con quello del Prater? La giostra fatalmente separa la ‘sconosciuta’ da Stefan, perché rivela il mirabile inganno su cui è fondata la venerazione amorosa, e infatti anticipa di qualche anno il carosello che ne La ronde sarà metafora della natura vertiginosa e fugace dei rapporti umani: è un congegno che, attraverso una rotazione meccanica, sostituisce al ‘torpido mondo di ogni giorno’ (prendiamo in prestito le parole di Zweig) degli sfondi fantastici e una durata irreale, la cui promessa è destinata a essere ritratta per forza di cose, per il funzionamento intrinseco all’apparecchiatura, lo stesso che tuttavia rende irrinunciabile quel viaggio verso ‘il paese incantato’. Infatti fin tanto che siedono insieme in quel finto scompartimento l’uomo e la donna si credono in viaggio; eppure di fronte ai paesaggi bidimensionali soltanto in lei, ossessionata dal desiderio di essere riconosciuta, di essere vista sul serio da lui una volta soltanto, agiscono la seduzione dell’occhio e l’angoscia della cecità. Per la precisione, Lisa ‘ha una specie di cinepresa nella testa’ e mentre proietta passato e futuro al di là del finestrino del vagone, sul movimento dello schermo, sta facendo il proverbiale giro del mondo, una deviazione veramente gigantesca, ‘per vedere se non ci sia per caso un altro ingresso sul retro’, una ‘piccola porta’ che le permetta di tornare al paradiso del suo primo incontro con Stefan, all’ultima immagine di un’innocenza sempre e solo vagheggiata. Fosse anche dipinta a mano sul cartone di una giostra a forma di treno, sostituto perfetto dell’illusione cinematografica.
Se spesso il cinema è considerato una fase intermedia tra il sogno e la “realtà”, lo è in quanto responsabile di una mutazione dello sguardo – la macchina da presa/proiettore impiantata nella testa, la quale, dando tanto piacere quanto tormento, consente di affrontare lo stesso détour della ‘sconosciuta’ – sguardo che, passando attraverso Bresson, Hawks, Ophüls e alcuni altri, abita una quarta dimensione man mano che la inventa, come quando nel dormiveglia si passeggia in piena notte, dentro una casa, e si sa esattamente dove andare, cosa fare e quando farlo. Oltre che sinonimi sullo schermo, incanto e inquietudine sono due modi diversi e complementari di indicare quella ‘sleepwalking security’ sotto l’effetto della quale Fritz Lang, durante l’intervista con Friedkin, ammise di aver girato i suoi film: il cinema si fa e si vede in uno stato di sicurezza sonnambolica.
Questo testo ha da poco ricevuto una segnalazione di qualità per il saggio inedito alla 39sima edizione del Premio Adelio Ferrero, bandito e assegnato dal Festival Adelio Ferrero Cinema e Critica di Alessandria (28 settembre-7 ottobre 2023).
In copertina: Albert Lewin, Pandora and the Flying Dutchman, 1951