Vedere la classe

01/11/2023

Con un titolo allusivo e potente, La classe è morta, esce per Mimesis nella collana “Sguardi e visioni” un foto-testo che dialoga con un libro fotografico e politico generazionale, icona della trasformazione in atto alla fine degli anni Sessanta sia della realtà psichiatrica italiana sia dei modi utili per raccontarla: Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, a cura di Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia. Pubblicato nel 1969 nella Serie Politica di Einaudi, Morire di classe “non è un libro facile da commentare” – avvisa il curatore Pietro Barbetta in apertura del suo saggio -, “è di una complessità estetica radicale”.

Pietro Barbetta, da sempre attento alla componente culturale e creativa del disagio mentale, fa risalire all’impatto in età giovanile di quelle immagini manicomiali di Cerati e Berengo Gardin l’origine tanto della sua coscienza personale quanto della speranza di cambiamento. Si tratta di un’epifania di formazione simile a quella dichiarata da John Foot, autore di studi determinanti su quell’esperienza (La “Repubblica dei matti”. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978, 2014) e, in questo libro, di una prefazione in cui ricostruisce il valore storico, politico e sociale del libro del 1969. Similmente a Barbetta, Foot attribuisce alla visione del film San Clemente (1982), girato da Raymond Depardon nel manicomio veneziano, l’origine dei suoi studi su Basaglia. Come dire che le immagini fotografiche o filmiche prodotte all’interno degli ospedali psichiatrici negli anni del loro processo di de-istituzionalizzazione e di progressiva chiusura hanno segnato, e continuano a farlo, la produzione di pensiero sulla questione dei luoghi e dei metodi della cura.

È dalla speranza del cambiamento che parte Barbetta per porre la domanda centrale di questo libro: l’impresa di portare legalità e dignità “nelle mura della salute mentale” è riuscita? Vale a dire, se esistono, quali sono le odierne mura invisibili che si sono sostituite a quelle dei manicomi? Questo il motivo per riscoprire una scelta di sessantuno fotografie incluse in buona parte in Morire di classe, scattate da Carla Cerati nel 1968 negli ospedali psichiatrici di Gorizia, Colorno e Firenze, e a ripensarle in relazione alla funzione e al valore della visibilità delle immagini nel tempo presente.

Obiettivo del curatore è evidenziare la tensione dialogica fra gli anni Sessanta-Settanta e l’oggi, come rappresentato in apertura di libro, in cui la prima immagine fotografica stride con l’exergo. A sinistra il volto malinconico di una ragazza dietro le sbarre è una delle icone dell’internamento femminile rappresentato nel libro del 1969; a destra la citazione da un’intervista del 2021 di Simonetta Fiori ad Alberta Basaglia, la figlia dello psichiatra, ci proietta verso un temibile ritorno al passato: “Stanno uccidendo l’eredità di mio padre. Quando saranno distrutti gli ultimi baluardi che dimostrano l’efficacia della riforma Basaglia, sarà più facile rinnegare la sua rivoluzione culturale”.

L’operazione editoriale di Mimesis riporta l’attenzione su un libro che ha costituito una tappa decisiva del percorso innovativo di Franco Basaglia, di sua moglie Franca Ongaro Basaglia, e dell’intera équipe di psichiatri, intellettuali, artisti, giornalisti e politici il cui lavoro ha avuto come esito l’approvazione della Legge 180, nota come Legge Basaglia appunto, il 13 maggio 1978.

Quando Morire di classe veniva pubblicato Franco Basaglia aveva già dato alle stampe, nel 1968, L’istituzione negata, un testo collettivo sull’esperienza della comunità terapeutica dell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Il libro era stato il frutto della collaborazione fra lui, Giovanni Jervis e, per conto di Einaudi, Giulio Bollati; ed era stato il primo di una serie di libri curati da Basaglia e da sua moglie. In particolare, L’istituzione negata sarebbe inaspettatamente diventato un best-seller e il testo chiave dei movimenti di protesta del ’68, proiettando Basaglia e l’ospedale psichiatrico di Gorizia al centro dell’interesse sociale e politico generale.

Bisogna partire da qui per comprendere la novità di quanto stava accadendo: il manicomio si era aperto sia al suo interno, eliminando le contenzioni e i recinti, sia all’esterno, permettendo di entrare e di uscire. Stava nascendo la narrazione del manicomio i cui esiti divulgativi più eclatanti sarebbero stati, nel 1969, il documentario I giardini di Abele, girato da Sergio Zavoli e visto su Rai 1 da milioni di italiani, e il libro fotografico Morire di classe. John Foot ricostruisce le peculiarità di quel libro non convenzionale già nel formato e nei contenuti, che presentava con quel “titolo sfacciato e scandaloso” immagini i cui protagonisti “uscivano urlando dalle pagine”. La sua definizione sintetizza chiaramente il carattere di quell’opera “radicale”: “era un libro fotografico dal carattere politico e sociologico, un volume che puntava tanto ad attirare lo sguardo (o a farlo distogliere), quanto a essere letto”.

Morire di classe si concentrava sulle tre questioni centrali che i coniugi Basaglia esplicitavano nell’Introduzione: la critica alle istituzioni totali, gli effetti che l’istituzionalizzazione produceva sulle persone e sui loro corpi (“oggettivazione”) e la questione sociale della differenza di classe. Questi elementi si traducevano nel libro del ’69 nelle immagini, rispettivamente, di sbarre, cancelli e serrature che chiudevano i confini, di corpi segnati dalla sofferenza e spesso avvolti in camicie di forza (quello che Basaglia indicava come “corpo istituzionalizzato”), e di immagini di persone povere, degradate, derelitte. L’obiettivo dichiarato dai coniugi Basaglia nell’introduzione del ’69 era chiaro: “smascherare la violenza dell’istituzione psichiatrica” e attivare la “distruzione della realtà manicomiale”. Accanto a ciò ponevano la necessità di una migliore consapevolezza della realtà politico-sociale che chiudeva nei manicomi i poveri, i diseredati, chi era privo di “forza contrattuale” da opporre alle violenze dell’istituzione. Il titolo voleva rappresentare la centralità della questione di classe.

La Legge 180 sarebbe stata approvata il 13 maggio 1978, promossa da Bruno Orsini, psichiatra e senatore della Democrazia Cristiana.  Fu una riforma parziale, poi confluita nella più ampia riforma sanitaria della Legge 833. L’Italia da quel momento era in assoluto il primo paese in cui venivano chiusi i manicomi e i pazienti restituiti alla vita familiare e sociale o alle auspicate unità locali di cura. L’interdizione a costruire nuovi manicomi era uno dei punti di grande innovazione. Il 29 agosto 1980 Franco Basaglia moriva, e in seguito sarebbe stata sua moglie, Franca Ongaro Basaglia, a dedicare completamente la sua vita affinché le leggi 180 e 833 fossero applicate. Ci vorranno ancora vent’anni prima che gli ospedali psichiatrici venissero svuotati completamente, ma nel frattempo le alternative da allestire sul territorio nazionale, come indicato dalla legge, non sempre si sarebbero rivelate idonee a garantire la cura delle varie forme di disagio, con significative differenze fra una regione e l’altra. Morire di classe sarebbe stato un tassello decisivo nella costruzione del nuovo paradigma psichiatrico e nella formazione di una diversa percezione del malato mentale; la sua funzione primaria, ricorda Foot, va ricercata non tanto nel nesso di causa-effetto con l’approvazione della Legge 180, quanto nel riconoscimento della fotografia come strumento di comprensione del reale e dell’istituzione psichiatrica in particolare.

Questo libro politico di una generazione viene riproposto dunque oggi in una nuova veste. Nel 1998 ne era uscita una versione per le Edizioni Gruppo Abele di Torino: Per non dimenticare: 1968. La realtà manicomiale di Morire di classe, a cura di Franca Ongaro Basaglia, con una diversa selezione sia dei testi che delle foto di Cerati e Berengo Gardin. Più aderente alla versione del 1969 era stata invece la riproduzione della copia anastatica originale prodotta nel 2008 da Agenzia sociale nel numero 14 di “Sconfinamenti. Semestrale di ricerca e divulgazione sociale”, ancora disponibile in rete. Nell’introduzione Maria Grazia Giannichedda poneva l’accento, a quarant’anni dalla prima edizione e a trenta dalla legge 180, sull’attualità enunciata dal titolo, vale a dire sul rapporto tra follia e società e sulla “più nascosta funzione sociale e politica” delle istituzioni psichiatriche.

Con l’odierna edizione di Mimesis si aprono nuove strade di riflessione. La prima riguarda la focalizzazione su Carla Cerati come fotografa e artista, svincolata dalla figura di Gianni Berengo Gardin, l’altro fotografo del libro del 1969. In Morire di classe le immagini erano prive di didascalie, impossibile distinguere il luogo o a quale dei due fotografi far risalire lo scatto. L’assenza di autore, osserva Foot, era pensata “a favore di una visione militante e politica dell’uso della fotografia”. Focalizzando oggi la pubblicazione solo su Carla Cerati fa spiccare la sua figura professionale di narratrice per immagini e, successivamente, per verba, autrice sia di altre indagini fotografiche – Mondo cocktail (1974), Forma di donna (1978) – sia di romanzi cui si dedica, dopo l’esordio con Un amore fraterno (1973), a partire dagli anni Novanta.

La classe è morta si inserisce così nel panorama di studi e di testimonianze sulle realtà del disagio espresse al femminile. Da una parte si collega all’attenzione storico-critica al mondo sommerso delle donne escluse o delle internate, di cui si sono occupati, ad esempio David Forgacs (2015) e Vinzia Fiorino (2002). Dall’altra parte il libro dialoga con le narratrici dell’esclusione, prime fra tutte Franca Ongaro Basaglia, intellettuale, scrittrice e figura decisiva della scrittura della rivoluzione basagliana in quanto co-autrice e curatrice delle pubblicazioni del marito, oggi finalmente oggetto di maggiore attenzione critica (Annacarla Valeriano, Contro tutti i muri. La vita e il pensiero di Franca Ongaro Basaglia, 2022). Fra le altre testimoni dell’internamento manicomiale di cui sta riemergendo l’ampia produzione che ha caratterizzato la fase della de-istituzionalizzazione degli ospedali psichiatrici in Italia a partire dagli anni Sessanta vale la pena ricordare almeno Anna Maria Bruzzone che mentre Carla Cerati, come Letizia Battaglia, scattava foto nei manicomi e Franca Ongaro Basaglia componeva con il marito L’istituzione negata e Morire di classe, entrava negli stessi luoghi per intervistare e registrare le voci degli internati, uomini e donne (Ci chiamavano matti. Voci dal manicomio 1968-1977, a cura di Marica Setaro e Silvia Calamai, 2021).

Il ritratto professionale di Carla Cerati viene tratteggiato da Silvia Mazzucchelli nella postfazione: da casalinga ad autrice di reportage di carattere sociale, politico, a fotografa di spettacoli teatrali – quali i ritratti di Judith Malina che interpretava Antigone o gli scatti per il Living Theatre – fino a scrittrice di romanzi. La sezione delle sue foto scattate nei manicomi è contenuta nella parte centrale della Classe è morta ed è impaginata in maniera simile a Morire di classe. Lì le fotografie degli internati si alternavano ad altre immagini stranianti, di rottura, e a citazioni tratte da numerosi autori; qui alle foto si alternano poche citazioni di Basaglia tratte da Morire di classe e due citazioni tratte da scritti di Carla Cerati sulla sua esperienza fotografica negli ospedali psichiatrici, recuperando in tal modo accanto alla sua figura di fotografa quella di intellettuale. Ripartire dall’autorialità di Carla Cerati mette dunque in primo piano il female gaze e al tempo stesso è strategia per indicare, mediante il titolo coniato dal curatore Barbetta, il percorso di rilettura per ripensare la produzione visiva e narrativa di quegli anni straordinari.

Il secondo elemento di rilettura proposto da questo libro è nel titolo, che fa presa sull’esaurimento dell’idea di classe sociale. Il nesso tra identità, ricchezza e povertà era il focus della rivoluzione di Franco Basaglia che, nell’intervista inclusa nei Giardini di Abele, ricordava la verità del detto popolare “chi non ha non è”. E Morire di classe lo denunciava silenziosamente, nell’alternanza fra la fotografia di un ricco interno borghese e quelle della miseria degli internati psichiatrici. La ricerca basagliana di una “democrazia dei minuti particolari”, sottolinea Barbetta, si realizzava ad esempio restituendo dignità ai pazienti mediante piccoli gesti: uno dei primi, a Gorizia, era stato quello di dare a ognuno di loro un comodino dove poter mettere quegli oggetti personali che l’istituzione non aveva permesso fino a quel momento di conservare con sé. Era il passaggio dalla teoria alla prassi, dalle letture di Erving Goffman e di Foucault alla gestione della vita quotidiana nei reparti psichiatrici. Piccoli indizi di cambiamento rispetto all’abbandono testimoniato dalle fotografie del ’69 che costituivano un unicum di visibilità dell’interno dell’istituzione manicomiale, ignota anche agli stessi parenti degli internati. Eppure, e qui è l’impegno del curatore, ancora oggi non sappiamo e non vediamo: “l’universo concentrazionario manicomiale si è rinchiuso in ospedale, nella forma di trattamento sanitario obbligatorio, nei servizi psichiatrici di diagnosi e ‘cura’”.

L’autore articola in una serie di passaggi la rilettura delle immagini scattate da Cerati: in primo luogo la “potenza dell’immaginario fotografico” della fotografa, in grado di mostrare nei suoi ritratti delle donne internate, nella loro “viseità” ridotta dal manicomio a una sorta di idiozia inerme, nella loro solitudine estrema, ciò che non era dato vedere. A partire da qui le sue riflessioni includono il soggetto e la sessualità femminile intesi troppo a lungo come fisiologicamente patologici, prime vittime del discorso medico maschile e del potere psichiatrico.

Nel passaggio all’idea di classe l’autore fa interagire la viseità derelitta dei protagonisti della pièce La classe morta (1975) di Tadeusz Kantor con quella degli internati di Morire di classe a partire dall’idea che entrambe le opere rappresentino, in una “profezia del presente”, il ritratto dell’autoritarismo e del potere concentrazionario. Nasce da questo paragone l’ipotesi di trasformare oggi il titolo del ’69 nella Classe è morta: denunciando l’estinzione dell’idea di classe sociale attiva negli anni basagliani.

La lotta di classe è stato d’altronde uno dei leitmotiv di Franco Basaglia, da quando nel ’68, presentando L’istituzione negata, autorizzava il termine “rivoluzione” per sé e per il suo gruppo di collaboratori che volevano rovesciare un’istituzione di violenza al motto di “o si è complici, o si agisce e si distrugge”. Ha proseguito in Crimini di pace, nel 1975, quando presentava le dinamiche di opposizione ai tecnici e agli intellettuali del consenso chiamandoli a una linea comune di lotta. Ma ne ha visto anche il cambiamento quando, in uno dei suoi ultimi scritti (A proposito della nuova Legge 180, 1980), si riferiva alla trasformazione sociale e alla chiusura dei margini di lotta in un paese che andava industrializzandosi e necessitava di nuove forme di assistenza.

Lo sguardo sul cambiamento prosegue, a distanza di quarant’anni, con il curatore di questo volume che osserva come i disturbi individuali, gestiti nel presente con stabilizzatori dell’umore e con terapie singole, abbiano preso il posto del malessere generazionale e sociale in cui, se di classe si moriva, nella coscienza di classe, tuttavia, si alimentavano la protesta collettiva e la costruzione di ideali di rinnovamento. Il gioco delle sostituzioni è in corso, afferma Barbetta: dalla classe alla massa, dal collettivo all’individuale, dalla coscienza di classe del proletariato alla sua assenza, dalla coscienza morale della borghesia al vuoto culturale. E così Morire di classe potrebbe essere sostituito con Morire di razza, titolo dedicato alle vittime, spesso femminili, di discriminazioni e violenze; oppure con Morire di genere, dedicato alle morti delle madri con i loro figli. Con un’operazione simile a quel passaggio dalla teoria alla prassi compiuto da Basaglia, così la posizione del curatore sembra voler segnalare come all’afasia odierna del concetto di classe, svuotato del suo potenziale rivoluzionario, si sia sovrapposta una percezione dei soggetti – fragili, emarginati, oppressi, migranti, sopravvissuti – che necessitano, non diversamente da allora, di essere osservati e, tramite lo sguardo, salvati.

Carla Cerati
La classe è morta. Storia di un’evidenza negata
a cura di Pietro Barbetta
prefazione di John Foot
postfazione di Silvia Mazzucchelli
Mimesis, 2023
140 pp., € 15,00

In copertina: Ospedale psichiatrico, Firenze, 1968

Marina Guglielmi

si occupa del rapporto tra narrazione e disagio mentale, in particolare lavora da qualche anno sulla rappresentazione letteraria e visiva della de-istituzionalizzazione dei manicomi in Italia dagli anni Sessanta a oggi. Su questo argomento ha pubblicato “Raccontare il manicomio. La macchina narrativa di Basaglia fra parole e immagini” (Franco Cesati 2018) e co-curato con Francesco Fiorentino Spazi chiusi. Prigioni, manicomi, confinamenti, stanze («Between» n. 22, 2021). Ha co-curato con Giulio Iacoli “Piani sul mondo. Le mappe nell’immaginazione letteraria” (Quodlibet, 2012); con P.P. Argiolas, A. Cannas e G.V. Distefano “Le Grandi Parodie ovvero i Classici fra le nuvole” (Nicola Pesce 2013); con Claudia Cao “Sorelle e sorellanza nella letteratura e nelle arti” (Franco Cesati 2017). Insegna Letteratura comparata all’università di Cagliari, co-dirige la rivista «Between».

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