Artaud, il fanatico al rogo

Charles Bukowski, forse l’autore che ne fu più naturalmente l’epigono, salutò nel 1966 un’antologia degli scritti di Artaud data alle stampe da City Lights, la casa editrice fondata da Lawrence Ferlinghetti a San Francisco negli anni Cinquanta, come l’epitome d’un apripista. L’antesignano di quei poeti della beat generation che qualche anno prima Jack Kerouac aveva definito «gli eroi sotterranei che avevano voltato le spalle all’occidentale macchina della libertà e si drogavano, ascoltavano il bop, avevano lampi di genio, sperimentavano il “turbamento dei sensi”, parlavano strano, erano poveri e felici». Si annunciavano in Artaud i sintomi d’una letteratura che si sarebbe voluta rendere più sublime attraverso la debolezza e la morte, ma senza indulgervi per il piacere di coltivare un nichilismo uso a rivolgere il proprio sguardo verso l’abisso, «fra piacevoli festini e produzioni artistiche».

In Artaud invece non v’era artificio, neppure quello d’una inguaribile follia. Come aveva protestato in una lettera a Jacqueline Breton, nell’aprile del 1939, dall’ospedale di Ville-Evrard dopo un anno e mezzo d’internamento, lui era un fanatico, non un pazzo. Per le stesse categorie elaborate dalla psicopatologia si sarebbe perciò dovuto iscrivere nel novero di coloro che rimangono impigliati nella particolarità come generalità o che persistono nella generalità come particolarità. Il fanatico non può distinguere fra queste due dimensioni in quanto il suo essere troppo rapido, troppo profondo, troppo eccitato, troppo forzato non gli permette di distinguere fra sé e la realtà che lo circonda. «Nello spazio di quest’attimo in cui dura l’illuminazione della menzogna» che vuole non soltanto che il particolare risulti e derivi dall’universale, ma pure che in ogni particolare sia latente una relazione con qualcosa di universalmente valido e necessario, Artaud prova a lasciar parlare l’informulato, a fabbricarsi un sistema di cui gli sfuggono i termini. Sicché infine di quest’attimo d’errore gli resta la sensazione d’«aver rapito all’ignoto qualcosa di reale»: il sentimento d’una protesta contro una cultura che non sia vitale, che non impegni letteralmente le proprie viscere. La vera cultura deve agire attraverso l’esaltazione e la forza, laddove «l’ideale estetico europeo» – si legge nel Teatro e il suo doppio – «tende a gettare lo spirito in uno stato di separazione dalla forza e a farlo assistere alla propria esaltazione: è un concetto pigro, inutile e tale da generare a breve scadenza la morte». Lo testimonierebbe nel modo più evidente il suo attardarsi sulle forme artistiche, invece di sentirsi «come condannati al rogo che facciano segni attraverso le fiamme».

fig. 1. Jean de Bosschère

Se la forma è la tentazione del discorso, dal momento che prendendo forma esso si sviluppa, fissa e fa riconoscere, Artaud propugna tutto all’opposto una concezione dell’arte come luogo del fare segno e del farsi segno attraverso una semiotica che fa massa per creare un mondo. Un mondo ostruito dalla materia, da una colluvie di liquidi organici, sanie, sangue: un mondo contaminato. E che proprio per questo affascina. Non tuttavia perché con esso si voglia promuovere il ritorno del represso – come pure potrebbero suggerire in uno dei suoi libri più importanti, L’arte e la morte (nella nuova traduzione di Giorgia Bongiorno e Maia Giacobbe Borrelli, che felicemente restituisce il fraseggio sincopato e lussureggiante di Artaud), le scurrili verginità di Abelardo ed Eloisa o le vertiginose impurità delle tele di Jean de Bosschère (fig. 1), o ancora l’umore leggero e rarefatto che trasuda da quelle di André Masson (fig. 2). Quanto perché non esiste alcun modo di collocare tali elementi nell’immediato dominio oggettivo umano, o meglio di inglobarli entro un sistema intellettuale omogeneo, onde annullarne ipocritamente il carattere escrementizio e putrescente.

fig. 2. André Masson

La rappresentazione dell’orrore, che i versi della Carogna di Baudelaire avevano esaltato al punto da far dire a Rilke che senza di essi «tutta l’evoluzione verso il dire oggettivo non avrebbe potuto avere avvio», si rinnova in Artaud diventando non più soltanto un  «orrifico dettame» ma, più radicalmente, «un tetano dell’anima» che non può più essere trasportato in alcun disegno, ma soltanto in una «contre-coup stratifié», in una «reazione stratificata», in una serie di sequenze inintelligibili perché costituite unicamente da soprassalti sonori: da apofonie ed eterofonie, nelle quali le parole vengono declinate tutte al vocativo. Il quale, come insegnano i grammatici moderni, non è un caso, non ha funzione né simbolica né rappresentativa, bensì soltanto appellativa. D’altronde, l’etimo di «gridare» è «quiritare» cioè chiedere aiuto ai «Quiriti», ai propri concittadini, facendo appello al patto di reciproca fedeltà e protezione sul quale si fonda il vincolo sociale della comunità. Il grido di Artaud invece non invoca l’ascolto degli altri ma solo «l’ascolto nel proprio io»: un io – scrive in uno dei suoi ultimi testi – che inventa un lessico fuori lingua – «a Erto shaba shaliera Ba shaliera renvoo o o erto» – le cui prime vestigia si hanno nelle pagine di un libro perduto e dal titolo glossolalico, Letura d’Ephahi Falli Tetar Fendi o Photia o Firtre Indi, di cui si favoleggia in una delle lettere da Rodez. Secondo Paolo Fabbri è un testo che dovremmo immaginarci «redatto in geroglifici e istoriato d’immagini; dove la pittura s’infiamma con la scrittura e la linea e il colore scambiano le loro forze con le frasi. Per Artaud, infatti, la pittura si sente quando la parola si disegna; la pittografia si ascolta come la musica e l’occhio è scosso quanto l’orecchio. Il disegno è una scrittura da sciogliere e riannodare altrimenti».

fig. 3. Paolo Uccello

Parrebbe così pure nel Paolo Uccello (fig. 3) al quale Artaud dedica più prose poetiche: l’ultima delle quali, del 1926, tre anni più tardi si colloca al centro dell’Arte e la morte. Del pittore, già eletto dai Surrealisti a loro modello, dopo averne letto la «vita immaginaria» tratteggiata da Marcel Schwob Artaud sembra ammirare il colore profondo e sostanzioso, le masse di luce, i contorni umani «a larghe curvature nette di cervici in discesa, di scolli rotondi, di crani glabri». Soprattutto ne pregia la disseminazione prospettica, la sospensione della realtà. Artaud forsenna la pittura di Paolo Uccello perché in essa, quella «dolce cosa che è la prospettiva» permette di collegare dei «contenuti di significazione» al regno sensibile concreto, ma è pur vero che ciò comporta una saturazione dello sguardo. Il quale, repleto, esplode. Viene così a porsi, per il soggetto stesso, la questione di una «mancanza essenziale»: l’io, già di per sé dissestato ed eroso da un’insanabile fragilità, si trova ad essere definitivamente scarnificato con l’incavo insistente dell’«impotere» proprio d’una sensibilità sospesa. Non resta altro che la gloria dello smarrimento, l’avventura del grigiore, la «decorporazione della realtà». Come Artaud afferma nel Manifesto chiaro, in luogo della «Conoscenza» a determinarsi dev’essere «una nuova, assoluta gravitazione» che rechi con sé la «sovrana riorganizzazione» imposta e governata dalla «logica dell’Illogico»: da un’astrazione attingibile soltanto se si sia intrisi di una vertiginosa impurità allucinatoria.

Antonin Artaud
L’arte e la morte
traduzione di Giorgia Bongiorno e Maia Giacobbe Borelli
L’orma, 2023, 88 pp., € 14

Una versione più breve di questo articolo è uscita sul «Foglio»

Il libro verrà presentato stasera alle 20 al Fanfulla di Roma, Via Fanfulla da Lodi 5/A. Le curatrici dialogheranno con Chiara Romeo. Letture di Matteo Lolli e Nicola Curti.

In copertina: Georges Pastier, Antonin Artaud, Ivry (1947) © Patty Smith Collection

Luigi Azzariti-Fumaroli

(Milano 1981) insegna filosofia della comunicazione e del linguaggio presso l’Università Pegaso di Napoli; ha svolto e svolge attività didattica e seminariale presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e l’Università di Pavia. Studioso di filosofia moderna e contemporanea, è autore di numerosi saggi e studi monografici fra i quali: “L’oblio del linguaggio” (Guerini 2007); “Alla ricerca della fenomenologia perduta. Husserl e Proust a confronto” (Mimesis 2009); “Brice Parain-Impromptu” (ESI 2010); “Giuseppe e i suoi fratelli: dalla filosofia narrante alla rivelazione” (Editoriale Scientifica 2012); “Passaggio al vuoto. Saggio su Walter Benjamin” (Quodlibet 2015) “Monoteismo plurale. Teologia ed ecclesiologia in Schelling” (Il Pozzo di Giacobbe 2019). Ha curato l’edizione italiana di opere di Derrida, Baumgardt, Hegel, Maimon. Di prossima pubblicazione, presso Quodlibet, è “Filosofia dell’ombra. Tre saggi”. Giornalista pubblicista, collabora con diversi periodici.

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