Antonella Anedda, dal balcone del cosmo

27/10/2023

«È duro il cammino verso ciò che è chiaro, / l’ho capito col tempo, forse soltanto questo è il dono / di invecchiare». Così comincia l’ultima poesia del libro che raccoglie le raccolte pubblicate da Antonella Anedda dal 1992 (Residenze invernali, che nella stesura risale ai pieni anni Ottanta) al 2018 (Historiae). Era un libro atteso, da chi da un pezzo è convinto che sia la sua la voce lirica che più ha segnato gli ultimi vent’anni. Ma sarà invece una sorpresa per chi, in questi vent’anni, si dovesse essere un po’ distratto (proprio facendo il suo nome, qualche tempo fa, mi sono dovuto rendere conto una volta di più dello scollamento sempre più grave fra «il pubblico della poesia», ahinoi sempre più concretamente identificato, e l’astrazione che chiamiamo «lettori colti»).

Il cammino verso il chiaro non dice solo l’affinarsi di un linguaggio (e prima di un pensiero) che sempre più preciso prenda la mira su quanto davvero è necessario (il Tacito omaggiato dall’ultimo titolo, «la nudità dei fatti» di chi «dice soltanto ciò che deve») ma anche il lavoro di chi si riprenda in mano, a distanza magari di quarant’anni, e debba dire a sé stesso, prima che a chi legge, qual è la direzione che ha preso. La tappa del collected poems non è solo (o non solo dovrebbe essere) uno status symbol, che eleva chi lo pubblichi al rango di Classico Contemporaneo (o arbasiniano «venerato maestro», lasciandosi alle spalle lo spiacevole status precedente) – per cui chi ne ha editoriale potestà dovrebbe sempre ricordarsi della responsabilità che si assume con tale attestato –; è l’occasione di un bilancio o, volendo essere meno prosaici, di un paragone. Un cimento con sé stessi. Un gesto simile, ma sottilmente diverso, rispetto a quell’altro format che è l’auto-antologia. Se questa osserva la contrainte di un certo numero di pagine a disposizione, e in quelle si vede costretta a calare una coerente immagine di sé (penso per esempio a quella organizzata nel ’70 da Pasolini), il collected tenta l’equilibrismo fra questa artificiata coerenza e la volontà di dar conto, pure, delle deviazioni delle palinodie persino dei sentieri interrotti. Perché anche queste spinte divergenti contribuiscono a comporre il vettore risultante (come pure – e in misura importante – le versioni e le «variazioni» consegnate a Nomi distanti, Empiria 1998 e Aragno 2020, qui presenti solo in misura minima).  

Gli esiti sono i più diversi. Si va dalla compilazione burocratica di chi si limita a riprodurre il contenuto dei libri in curriculum a chi, con quei materiali, compone un altro libro (penso all’estremo di A tanto caro sangue di Raboni, 1988). Anedda si colloca più o meno a metà strada: la serie dei titoli è rispettata, i materiali ordinatamente descritti nelle note conclusive (in genere più succinte che negli originali: con l’eccezione di quella a Historiae, che paga il debito sempre più marcato che si è contratto col precedente “naturalistico” e “geografico” di Zanzotto), ma varianti anche minime si affollano un po’ dappertutto e, ciò che più colpisce, tanti componimenti (non necessariamente i meno riusciti) vengono tacitamente lasciati cadere. Il restyling è marcato soprattutto nel Catalogo della gioia (2003), e questo non sorprende troppo, ma qualche taglio viene inferto pure al bellissimo Salva con nome (esperimento anche iconotestuale del 2012) e persino al capolavoro Historiae.

La metafora del «taglio», e del «cucito» suo dialettico correlato, è del resto ricorrente in Anedda. Sua è la crudeltà dell’Apollo di Tiziano, che scuoia Marsia con un coltello molto simile a un pennello nel soave e terribile quadro di Kroměříž («appunto un verso su un foglio e a volte mi ferisco / scambiando la penna col coltello»), quanto sua è la cura – la pietas a sua volta impavida, però – di chi maneggiando l’ago, come negli archetipi di Pascoli o Caproni ma anche di Louise Bourgeois o Maria Lai, rammenda il mondo («il nostro lavoro di bambini: / scuotere dalla tovaglia la paura insieme alle briciole del pane / fare un orlo al dolore, posarlo / sul mucchio dei panni da stirare»). Lo ha fatto come artista una decina di anni fa, cucendo parole e foto su un lenzuolo del corredo ancestrale di Sardegna (cfr. Incollare mondi, cucire parole, a cura di Rossana Dedola, Ets 2014), da sempre lo fa incidendo versi e prose sul bianco dei fogli. E anche la propria quasi-antologia è un taglia-e-cuci tanto crudele quanto avvertito, evidentemente, come necessario (Manganelli paragonava la sua Antologia privata a una «legittima strage», all’atroce banchetto di Tieste che divora le membra dei suoi figli).  

Giustamente Rocco Ronchi, nella bella prefazione, ricorda l’autoironia di chi scrive «Vorrei disfarmi dell’io è la moda che prescrive la critica / ma la povertà è tale che possiedo solo un pronome», per poi paragonare quell’«io» (lo aveva fatto anche Calvino negli anni Settanta) a un mero contenitore, «una busta come quelle usate per la spesa / piena di verdure o pesce surgelato» (Nuvole, io). E davvero il vettore di questo cammino, che solo per inerzia continuo a definire «lirico», è verso uno svuotarsi (citata è Amelia Rosselli che vuole «estinguere la passione del sé») che corrisponde pure, però, a un esilarante dilatarsi. Una soggettività espansa e insieme sospesa e (in senso filosofico) neutra prende la parola in quelli che con una cruciale frase di Kafka Anedda chiama «Cori»; e che sono davvero fra le cose più alte, se non in assoluto i vertici, della nostra poesia di oggi.

Se in Salva con nome questo soggetto si librava nei venti e nelle correnti stratosferiche (l’elevazione «meteo» di Zanzotto, certo), in Historiae ascende addirittura al cielo delle stelle fisse. Ma non si pensi che a quest’elevazione corrisponda un’impassibilità narcisistica. Paradigmatiche le Galassie dalla cui sommità lo sguardo precipita sempre all’aiuola che ci fa tanto feroci: «Sognavo di osservare la terra da lontano, […] / Ruotavo nella nebbia per cercarti ed eri giù / tra i vivi». È lancinante la confessione, da mummia leopardiana, per la dimensione arcana e stupenda che ci è data in sorte: «Ero lassù già in gloria, già vinta dai lumi tra i pianeti / eppure mi struggevo ancora viva d’invidia per la vita».

Come nella fenomenologia di Husserl (della quale confessa l’importanza), è proprio l’adottare il linguaggio comune, a dispetto della descritta desoggettivazione, a segnare la partecipazione di chi scrive alla sorte della specie cui appartiene. Ed è in questo modo che, dal bellissimo Notti di pace occidentale (1999) sino agli ultimi, stupefacenti esiti, è questa poesia a dire davvero, del nostro tempo, «l’èra di ferro che ci irradia». La posizione dell’Osservatorio, così frequente nell’ultima Anedda (a partire dalla ricorrente specola, pure leopardiana, del «balcone»), è tutt’altro che distaccata e aliena: lo dimostra una poesia straordinaria come Occidente, che scruta il «dirupo sotto il mio balcone» e pensa «a quanto siamo alti e miopi e assordati». Una scena simile a quella che precede le esplosioni dei Pink Floyd, in Zabriskie Point di Antonioni: «cercano ferro in questa età dell’oro. / Stavolta vedo da vicino. Ci guardiamo. / È davvero impossibile lavare la vergogna reciproca? // Non so rispondere e neppure voi».

«Io» non sa rispondere, no. Ma questa poesia sì.

Antonella Anedda
Tutte le poesie
prefazione di Rocco Ronchi
Garzanti, 2023
564 pp., € 18

Una versione più breve di questo articolo è uscita sul «Sole 24 ore-Domenica»

In copertina: Joachim Patinir, Charon crossing the Styx, 1520-24 (particolare), Museo del Prado, Madrid

Andrea Cortellessa

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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