Taubes e il suo doppio

26/10/2023

Da circa una ventina d’anni, la figura di Jacob Taubes — rabbino svizzero di origine galiziana, studioso dell’apocalittica e dell’escatologia occidentale, già professore di ebraistica a Gerusalemme, Princeton, Columbia e Berlino — è uscita dalla zona d’ombra solitamente riservata a quegli intellettuali di talento che tuttavia non hanno ancora raggiunto la notorietà. Grazie soprattutto alla pubblicazione postuma di alcuni dei suoi scritti è diventato una celebrità tra i filosofi postmoderni sia per il suo stile di vita che per il suo pensiero profondamente eccentrico se non addirittura eretico.

Miserie e grandezze di Jacob Taubes: una biografia 

Quando era in vita, Taubes pubblicò un solo libro: Abendländische Eschatologie. Si trattava della sua tesi di dottorato, pubblicata frettolosamente con alcuni tagli e molti refusi. La sua ostinazione di non pubblicare ma di affidarsi esclusivamente all’insegnamento orale non gli impedì di fare una straordinaria carriera accademica tra le istituzioni universitarie più prestigiose tra gli Stati Uniti, Israele e l’Europa. Tuttavia, questo suo attaccamento, tutto ebraico, all’insegnamento orale gli costò molte antipatie da parte di colleghi che non sapevano veramente come collocare questo intellettuale singolare e provocatorio. Si trattava di un genio, un eccentrico, un millantatore o addirittura di un poco di buono?

In effetti a Taubes vennero affibbiate molte etichette, quasi mai lusinghiere, spesso colme di acredine, ostilità o gelosia. In Germania Taubes ha goduto di una fama postuma anche se era già famigerato presso diversi circoli intellettuali di lingua tedesca per le sue eccentricità e inaffidabilità, però unite ad un chiaro carisma personale e alla sua capacità di porre questioni che nessuno aveva la tempra di fare: ad esempio, qual è la connessione profonda tra ebraismo e cristianesimo? L’ebraismo solo di dogmatica oppure include anche una dimensione mitologica mai esplorata? La religione vive solo di testi e riti oppure anche di immaginario?

Taubes è stato letto e pubblicato in Germania dai suoi studenti e amici Norbert Bolz, Winfried Menninhghaus nella raccolta Vom Kult zur Kultur è stato pubblicato nel 1966, molto prima del più celebre La teologia politica di San Paolo, pubblicato in tedesco nel 1993 e in italiano nel 1997.

Alla sua gloria (prevalentemente postuma) in Italia hanno contribuito gli scritti di Giorgio Agamben che ebbe l’indubbio merito di leggere Taubes come radicale interprete di Walter Benjamin, ma soprattutto l’impegno pionieristico di Elettra Stimilli che già diversi anni fa si assunse l’onere di raccogliere e curare una raccolta dei vari articoli di Taubes, poi pubblicato in modo lungimirante con l’affascinante titolo Il Prezzo del Messianismo, pubblicato nel 2000 in italiano e poi altre lingue, uscito in italiano per Quodlibet (già emanazione editoriale dello stesso Agamben e dei suoi discepoli) e poi nelle maggiori lingue europee.

Da allora Taubes ha guadagnato una fama internazionale ed è diventato un punto di riferimento imprescindibile per chiunque si occupi di ebraismo, cristianesimo e teologia politica. Concetti come “Paolinismo,” “inattualità della Legge,” “stato d’eccezione,” “apocalissi” e “Gnosticismo” sono diventati imprescindibili, soprattutto grazie all’opera postuma di Taubes che ha saputo introdurli nel dibattito contemporaneo grazie all’ardita opera di mediazione di controversi filosofi del diritto come Carl Schmitt.

Considerando la fama postuma di Taubes, non deve sorprendere troppo che, ad una ventina d’anni dalla sua scoperta tardiva, sia uscita una voluminosa biografia, scritta in modo erudito e brillante da Jerry Z. Muller, per la prestigiosa casa editrice Princeton University Press: Professor of Apocalypse. The Many Lives of Jacob Taubes. Si tratta di uno studio accurato e dettagliato sulla variegata esistenza di Taubes, sullo sperpero quasi neotestamentario dei suoi talenti, sugli eccessi emotivi, sulle sregolatezze sociali e sulle ostentate pratiche e trasgressioni sessuali. Tutto questo ha quantomai contribuito a sostanziare quel detto rabbinico per cui la vita non è mai singola bensì sempre e solo plurale: chayyim, appunto “vite” e non semplicemente “vita.”

Soprattutto, questa biografia sostanzia l’idea tutta decostruttiva della inseparabilità tra vita ed opera, ovvero dell’impossibilità di separare l’uomo dall’opera. Vita e opera infatti sono connesse, intrecciate in un groviglio che mai è semplice ma anzi spesso foriero di incomprensioni e dolori. Questo è sicuramente vero per Taubes che fece dello sperpero della sua vita il rovescio dell’ideale romantico della “vita come opera d’arte.” Taubes si comportò come uno speleologo che ricercò il fiume carsico del Sabbatianismo che erodeva dal profondo il paesaggio tradizionale dell’Ebraismo. Taubes cercò di diventare un moderno seguace di Shabbatai Tzvi, di imitarne il pensiero radicale e persino replicarne gli “strani gesti” fino al punto di cadere, come il maestro, nella depressione maniacale. Anzi, Taubes si accollò il compito di diventare l’icona moderna del Sabbatianismo, sobillando l’immaginario religioso profondo dell’Ebraismo se non addirittura richiamandolo ad un risveglio radicale. Questo certamente era il compito supremo, occulto ma mai davvero “rivelato” della sua vita. Ma quante vite visse Taubes?

Le Juif-errant, France, Epinal, 1862, imprimeurs Pinot & Sagaire, illustration de Charles-François Pinot © MEG – Genève

Taubes prima di tutto fu una figura di primo piano dell’esile Ebraismo svizzero. Nei suoi anni giovanili venne incoraggiato agli studi dal padre e dai diversi teologici ebrei e cristiani con cui si associò ben presto, fra cui il pastore protestante Karl Barth, autore della prima e seconda edizione del suo fenomenale Commento alla Lettera ai Romani. Dopo la guerra, Taubes si spostò al prestigioso Jewish Theological Seminary di New York dove perfezionò la sua formazione religiosa e filosofica e cominciò ad interessarsi sia al Primo Cristianesimo che al famoso falso messia Shabbatai Tzvi, figura centrale del Sabbatianismo che travolse l’Ebraismo del Seicento. Successivamente si spostò a Gerusalemme per interessamento dello stesso Gershom Scholem con cui ruppe traumaticamente per divergenze personali e professionali. Ritornò quindi a New York dove insegnò tra Princeton e Columbia, passando ad occuparsi prevalentemente di studi filosofico-politici e religiosi, senza tuttavia mai pubblicare nulla, se non qualche articolo su alcune riviste specializzate. Infine, si trasferì a Berlino dove divenne direttore dell’Istituto di ebraistica fino alla sua morte prematura nel 1987.

Questa vita accademica nomade, in realtà non troppo differente da quella di molti altri, fu accompagnata da relazioni amicali e sentimentali distruttive che contribuirono sia a celebri rotture che a lutti personali, come il suicidio della ex moglie, la ancora poco apprezzata Susan Taubes, filosofia e romanziera di primo piano, studiosa di Simone Weil.

Susan Taubes, nata Feldmann

Secondo Muller, Taubes ebbe una metamorfosi quasi kafkiana, se posso usare un’allegoria che purtroppo non viene mai esplorata in questa biografia, che sorprendentemente ignora Kafka e il suo apporto decisivo alla definizione della Legge Ebraica in termini Paolini quale strumento del peccato perché fondamentalmente inattuale ed inattuabile. Taubes, infatti, subì un’inesorabile trasformazione personale che lo portò dall’essere un giovane rabbino dalle grandi promesse (ma già dalle letture già fin troppo radicali) a diventare un “paria” dell’accademia per la sua totale inaffidabilità personale, sociale e speculativa. In che termini?

Forse può bastare rievocare un famoso episodio quanto mai disturbante. Agli inizi degli anni Cinquanta, quando ancora contemplava la possibilità di salvare Taubes da sé stesso, Scholem gli confidò che la terza parte del dottorato di Joseph Weiss, il suo discepolo più talentuoso, gli aveva dato più di qualche dubbio sulla sua sanità mentale. Taubes informò di questa confidenza per lettera lo stesso Weiss che viveva a Londra, separato dalla moglie che continuava a vivere in Israele. Fece così, a suo dire, per apprensione nei suoi confronti, anche se non si era fatto alcun scrupolo a “sedurne ed abbandonarne” la moglie in sua assenza. Scholem venne ovviamente a conoscenza di tutto questo e scrisse a Taubes una lettera durissima che sanciva la loro rottura definitiva e permanente. Fedele com’era all’ideale filologico della verità del testo scritto, Scholem non si sarebbe mai discostato da questi principi cui si sarebbe teutonicamente attenuto per decenni, anche sfiorando il ridicolo, come quando si chiuse in bagno per non incrociare Taubes che era arrivato inaspettatamente in casa da amici comuni. 

Susan e Jacob, 1949 (Ethan e Tania Taubes Collection)

Scholem e Taubes: Filologia e Filosofia

Eppure, Scholem e Taubes si trovavano in un “divergente accordo” molto più profondo di quanto il primo avrebbe voluto concedere al secondo ma molto meno di quanto il secondo avrebbe sperato di avere in comune col primo. Entrambi guardavano al falso messia Shabbatai Tzvi come al catalizzatore storico ma anche tipologico di un cambiamento radicale nella storia religiosa dell’Occidente: ciò che Shabbatai Tzvi aveva provocato dilaniando l’Ebraismo seicentesco in due fazioni, ovvero tra credenti e miscredenti, era solo una ripetizione della medesima figura storica—in senso pienamente hegeliano—di ciò che era già avvenuto col Primo Cristianesimo: una rottura radicale in nome di una Legge che non veniva (più?) a salvare bensì a condannare e quindi ad invocare l’azione salvifica radicale da parte di un Messia trasgressore ma tuttavia redentore.

Certo, si tratta di paradigmi scientifici ormai del tutto desueti, fortemente ideologici e del tutto inattendibili per i moderni studi del cosiddetto Giudaismo del Secondo Tempio, già inaugurati oltre una ventina di anni fa da Gabriele Boccaccini in una serie di studi che, è il caso di dirlo, hanno fatto scuola, sia negli Stati Uniti che in Europa. Ci si dovrebbe infatti interrogare su che cosa significhi ancor oggi ignorare questi nuovi studi storici e replicare una serie di stereotipi speculativi tardi a morire che tuttavia emergono ancora con forza, come ha osservato recentemente Vivian Liska nel suo studio German-Jewish Thought and Its Afterlife. In questo caso può essere sufficiente limitarsi a dire che questa visione di Paolo—come colui che dichiara che la Legge è fonte di peccato per suscitare la salvezza per mezzo del Messia—e, per analogia, del Sabbatianismo avevano una funzione fondamentale: sancire il perimetro dell’Ebraismo rispetto alle altre religioni, in particolare rispetto al Cristianesimo. In altre parole, il Cristianesimo appariva inevitabilmente come l’opposto dell’Ebraismo in quanto auspicava una redenzione dalla Legge piuttosto che una redenzione per mezzo di essa, come invece tramandava l’Ebraismo rabbinico. Rispetto a questa distinzione fondamentale Paolo e Shabbatai Tzvi svolgevano la medesima funzione fondamentale e, al contempo, d’avanguardia: segnare il punto di passaggio da una religiosità declinata dalla Legge ad una religiosità declinata contro la Legge.

Ma questa complessa operazione ne implicava anche una seconda, ancora più sottile: ovvero, delimitare lo spazio dell’immaginario religioso entro presupposti ed aspettative legittime e riconoscibili. Si può dire che laddove Scholem era più prono alla filologia, Taubes lo era all’immaginazione, per quanto radicale questa potesse essere.

Questa dualità emerge soprattutto nei giudizi morali che Scholem, nonostante la sua origine, rivolgeva a Taubes secondo uno spirito squisitamente protestante. In particolare, Scholem rimproverava a Taubes di non coltivare i suoi talenti ma anzi di sprecarli ignorando la necessaria rigida disciplina imposta dalle ferree leggi della filologia: disciplina intellettuale e studio dei testi. A loro confronto, per Scholem, tutto svaniva per inconsistenza: tanto le fantasie teologiche del suo allievo Joseph Weiss, come ebbe modo di rimproverargli per lettera, quanto le elucubrazioni filosofiche di Taubes, come ne sparlò con amici e colleghi. La rigidità di Scholem rifletteva non solo una personalità poco accomodante ma anche una concezione dell’Ebraismo che rigettava ogni avventurismo religioso. Di conseguenza, lo stesso misticismo ebraico doveva sorgere a verità metafisica senza tuttavia ricadere nella facile “mitologia,” farcita di fantasie teologiche ed antropomorfe. Laddove la Qabbalah si spingeva a raffigurare il divino in innumerevoli diagrammi mistici che sono “mappe di Dio,” come è stato recentemente studiato da Yossi Chajes, Scholem preferiva la lettera, il testo, insomma la filologia.

È su questo complesso sfondo teologico che dobbiamo esaminare la figura di Taubes e forse persino la sua reticenza a scrivere e pubblicare. Certo, questa sua reticenza si può anche giustificare con indolenza e stravaganza, oppure con la tradizionale preferenza ebraica per l’insegnamento orale rispetto alla scrittura o addirittura rispetto alla Scrittura stessa. Tuttavia, mi sembra che il motivo teologicamente più profondo del dissidio tra Scholem e Taubes risieda altrove, ovvero, nel tentativo che Taubes compie di raffigurare il modello di un intellettuale ebreo sull’immagine di Shabbatai Tzvi, ovvero di raffigurare proprio un intellettuale radicale che, a sua volta, vuole mostrare ciò che quasi non si osa dire per reticenze teologiche e speculative: il lato oscuro del Divino, ciò che viene evocato come Sitra Achra, “l’Altra Parte,” o, se si preferisce, l’assoluta ambivalenza del Sacro. In altre parole, Taubes intendeva mostrarsi al mondo come un seguace del Sabbatianismo, come un rabbino trasgressore, come uno studioso di buone e cattive letture, come un seduttore di donne sposate con cui copulava di Yom Kippur, come un lettore del Talmud e di Paolo, come lo studioso di ebraismo ma anche il corrispondente di filosofi in odore di nazismo come Carl Schmitt, come un militante Sionista ma anche un amico della setta ebraica dei Neturey Karta che considerano il Sionismo una forza antimessianica. Tuttavia, si tratta di leggere questo tratto biografico oltre semplici categorie psicoanalitiche, seppur validi e convincenti, e di servirsene per esplorare il nesso tra opera, arte e vita.

Gershom Sholem

L’immaginario religioso di Taubes: opera, arte e vita

Il tentativo che Taubes compie confusamente di mostrarsi al mondo era una deissi tragica. Alla fine, si trattava del tentativo—si noti l’ironia—di incarnare un nuovo modello di ebreo secondo parametri del Sabbatanenismo. Questo paradosso storico e teologico sfociò nella malattia mentale conclamata, in depressioni abissali e grandi solitudini. Lo spazio dell’immaginario ebraico che Taubes finì per inaugurare era prevalentemente opaco, in fondo non dissimile da quegli specchi concavi, gli aspeklaria della tradizione talmudica che velano la visione in riflessi appena discernibili. Quindi il modello che Taubes mostrava era rifratto in contraddizioni, paradossi e provocazioni che non cessavano mai di puntare alla costruzione di un centro identitario ma che tuttavia votavano questa ricerca al suo perpetuo fallimento. L’identità “immaginaria” di Taubes non venne mai sostanziata in alcuna affiliazione religiosa ma rimase quindi sempre, letteralmente, borderline. Si trattava infatti di un’identità sempre precaria che veniva pregiudicata dall’estrema difficoltà di sostanziarsi in un’autentica figura intellettuale di riferimento.

A questo punto, dobbiamo riprendere il caveat decostruttivo che ci ammonisce di rigettare l’ideale tipicamente metafisico di ricercare una “purezza” nei testi, che vanno chiaramente distinti dalla vita. Al contrario, se opera e vita si intersecano perennemente, contaminandosi a vicenda, allora non deve sorprendere se questa ricchissima biografia di Taubes si basi non solo sulla documentazione conservata in libri, archivi e documenti, diciamo pure “nella filologia,” bensì anche su quella dimensione dell’immaginario che apparteneva non solo a Taubes ma anche a coloro che lo circondavano. Ad esempio, apparteneva suo malgrado anche alla ex moglie Susan, come lo descrisse con dolore nel suo romanzo Divorzi, in cui le figure di ciascuno di loro vengono trasfigurate ma, paradossalmente proprio in forza di questa finzione, appaiono quanto mai più vere ed oggettive. Scrive Muller:

“ho trovato indispensabile il romanzo Divorzi, pubblicato nel 1969 dalla ex moglie di Jacob, Susan Taubes. Nonostante sia un’opera di finzione e quindi frutto dell’immaginazione creativa, attinge pesantemente alle vite effettive di Jacob e Susan Taubes, che vengono ritratte attraverso una varietà di lenti, alcune comiche, altre surreali. Tuttavia, ci sono momenti in cui il romanzo fa riferimento a eventi che contribuiscono a illuminare le fonti archivistiche. Usato con cautela, fornisce un’altra fonte da cui ricostruire la straordinaria vita e epoca di Jacob Taubes” (6-7).

È una circostanza forse non casuale che il biografo Muller abbia usato proprio la letteratura—in questo caso proprio il romanzo della ex moglie di Taubes — come fonte d’archivio per il suo studio. Bisogna resistere alla tentazione di ritenere che si tratti di “leggere tra le righe” il romanzo di Susan, insomma di scoprire sotto l’immaginario la realtà storica della vita di Taubes. Questo è certamente vero ma si tratta di una banalità che non rende conto della profonda dialettica con l’immaginario che Taubes ha sempre intessuto per tutta la sua vita e che molto probabilmente è la ragione più autentica del suo dissidio con Scholem.

Ad un livello più profondo, infatti, si tratta di riconoscere che la nuova identità ebraica che Taubes cercava di costruire richiedeva di staccarsi radicalmente dalla tradizione rabbinica e di riferirsi ad uno spazio dell’immaginario che veniva addirittura eretto a nuova filologia. Forse non si trattava di una “filologia del futuro,” come avrebbe auspicato Nietzsche bensì di una sorta di nuova disciplina che si nutriva tanto di tradizione quanto di una fervida immaginazione religiosa. Il risultato era la creazione della figura di un rabbino postmoderno, attratto e lacerato dai suoi stessi eccessi. Non a caso anche questa figura venne consegnata nuovamente all’immaginario. Muller, infatti, ricorda un cortometraggio chiamato Duet for Cannibals che venne sceneggiato e diretto nientemeno che da Susan Sontag e che era ispirato a Taubes e ai suoi turbolenti ménages. Duet for Cannibals era un film satirico: un tal dottor Arthur Bauer, un uomo di mezz’età sgradevolmente attraente, era un teorico archi-rivoluzionario impegnato nella scrittura delle sue memorie; costui figua come l’anti-rivoluzionario o falso rivoluzionario di Sontag, un arrogante impostore che mescola la rivoluzione con il proprio ego; gli è a fianco sua moglie Francesca, nevrotica e seducente, la quale offre sponda alle mistificazioni di suo marito mentre elabora le sue; infine vi è Tomas, uno studente rivoluzionario sincero, che Bauer ha assunto per catalogare i suoi documenti; infine, c’è Ingrid, la volubile fidanzata di Tomas, che è diviene preda psicologica e sessuale della coppia più anziana. Come osserva Miller, “il film è un’opera di immaginazione che fa uso di elementi del vero Taubes per scopi artistici” (361). Tuttavia, il dato per noi interessante è che questa sceneggiatura e questo cortometraggio, proprio al pari del romanzo della ex-moglie, svolgono un ruolo importante in quanto “offrono un ritratto cinematografico che riporta elementi della loro relazione, esagerandoli per scopi artistici” (361).

Frame dal film di Susan Sontag Duet for Cannibals (da sin. a destra Francesca, Ingrid, Bauer)

Si tratta di valutare molto seriamente il fatto che la biografia di Taubes si intersechi ancora una volta con l’arte, una volta nella forma di un romanzo e poi di una sceneggiatura e infine di un film. Nuovamente, qui non si tratta di limitarsi ad osservare che l’arte descriva la vita di un intellettuale bensì, in termini assai più radicali, che la prima venga a supplire o, in termini decostruttivi, a supplementare la seconda. La vita di un intellettuale radicale diviene materia da romanzo ma vuole essere accattivante come un film. Si tratta quasi della declinazione postmoderna dell’ideale romantico di fare della propria vita un’opera d’arte. Per molti aspetti, osserva Miller, Taubes voleva ricalcare le orme di “Spinoza aveva un posto particolare nell’immaginario sionista, non solo come ebreo radicale, ma anche come uno che poteva essere rivendicato come precursore del sionismo.” (163). Al pari di Spinoza e dei suoi moderni interpreti come Leo Strauss, già corrispondente di Taubes per molti anni, anche Taubes perseguiva il medesimo radicalismo intellettuale, attribuendo all’ebraismo e ai suoi riti una valenza teologico-politica. Del resto, anche nel suo forse sopravvalutato La teologia politica di San Paolo Taubes espresse una visione politica fondata su poche righe di Paolo che vennero poi riprese e magnificate da Giorgio Agamben. Da questo punto di vista la pratica teologico di Taubes si serve della immaginazione come strumento teologico, come ricorda lo stesso Muller: “Taubes ha impresso […] i limiti di una spiegazione razionalista ed utilitaristica della motivazione umana, mettendo in risalto il ruolo dell’immaginazione, del mito e del desiderio umano di sacrificio” (421).

In questo senso Taubes emergeva come l’ebreo perfetto della sua stessa immaginazione, nel senso che era davvero un nichilista e anarchico, teorico del “caos apocalittico,” senza impegno verso le istituzioni esistenti.

Triomphe de Mardochée, Tolra éditeur, France, Paris, XIX siècle © MEG – Genève

Jerry Z. Muller
Professor of Apocalypse. The Many Lives of Jacob Taubes
Princeton University Press, 2022
656 pp., $ 42

In copertina: Jacob Taubes, secondo da sinistra con la pipa, ad un simposio presso la Free University of Berlin, 1967. Alla sua sinistra Richard Löwenthal, alla sua destra Herbert Marcuse e Alexander Schwan.

Federico Dal Bo

(1973), Dottore di ricerca in Scienza della Traduzione (Bologna, 2005) e Dottore di Ricerca in Ebraistica (Berlino, 2009), svolge la sua attività di ricerca tra ebraistica e filosofia. Attualmente è ricercatore di ebraico all'Università di Modena e Reggio Emilia — Unimore. Tra le sue recenti pubblicazioni si segnalano: “Emanation and Philosophy of Language. An Introduction to Joseph ben Abraham Giqatilla” (Cherub Press, 2019), “Deconstructing the Talmud. The Absolute Book” (Routledge, 2019), “Qabbalah e traduzione. Un saggio su Paul Celan” (Orthotes, 2019) e “Il linguaggio della violenza. Estremismo e ideologia nella filosofia contemporanea” (Biblioteca Clueb, 2020).

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