Cinema, ciò che rimane

24/10/2023

Gli attori sono «soggetti che hanno ceduto la propria immagine, accettando che sia separata dai loro corpi, che divenga piatta e bidimensionale», scrive Alessandro Cappabianca. E ancora: «l’invenzione del cinema ha reso tangibile l’esistenza degli Spettri»: Derrida, Mark Fisher e il resto delle nostre abitazioni, planimetrie d’anima che sono invase dalla virtualità dei gesti, dalle nostre estensioni agìte più che d’attori. Sonnambuli. «Il mondo non era ancora sincrono, i decenni giacevano a lungo uno sull’altro, mentre uno sfioriva e l’altro nasceva, come in lunghissime dissolvenze incrociate», leggiamo ad apertura dell’Ultima innocenza di Emiliano Morreale.

Ma la forma, le forme domandano legittimità di rappresentazione. Cos’è, dunque, L’ultima innocenza? Apparentemente è una raccolta di racconti, episodi irrelati di un soggetto che fatica a costituirsi in autonomia e ha bisogno, in ogni frammento, di un corpo succedaneo, una casa-corpo da infestare, come un vettore virale. Il protagonista, voce narrante in proprio, è un professore universitario, un critico, un archivista, un curatore di fondi, un ricercatore. Il cinema è il suo mondo estroflesso, la sua configurazione lavorativa. In ciascun frammento questo soggetto mite e remissivo, sulla difensiva, preda di sindromi dell’impostore, colmo di dubbi e d’irrequietezze, viene avvicinato da qualcuno (da Franco Maresco, da allieve universitarie che coltivano ambizioni da star, da studiosi di cinema pornografico, da boss mafiosi); le sue guide lo conducono in avventure soprattutto del pensiero: carotaggi archeologici fra le storie sepolte del Cinema. Il libro, così, diviene una rapsodia di racconti che alternano le richieste più o meno pressanti che il mondo rivolge al nostro narratore a rievocazioni di dive del cinema sconquassate dall’Ombra fascista, di figli tutt’altro che virili di meschini boss di mafia, complessi giochi di specchi tra Douglas Sirk, il figlio nazista (e attore frustrato dalla follia manipolatoria di Goebbels), un importante regista del Terzo Reich e l’altro figlio, di Alberto Grifi e tutto il suo Anna-mondo.

Ma poi scopriamo, lentamente, che la raccolta di racconti è, più propriamente, un romanzo di racconti: le storie si richiamano, finché nell’ultimo, pandemico, episodio l’occhio del narratore si rivolge direttamente, in uno sguardo-limite com’è appunto lo sguardo in macchina, al libro stesso che deve farsi. Metanarrativa e postmodernità. Almeno, in apparenza.

Ma che nelle volture del postmoderno quest’opera – consapevole, matura e piena di classico piglio – inceppi il facile meccanismo di lettura è evidente fin dalla superficie dei temi. «Sempre, di fronte a un’immagine, ci troviamo di fronte al tempo», ha scritto Georges Didi-Huberman. La Storia è talvolta da scardinare e rileggere, talvolta fatica a diventare Storia. Accade così, nell’ultimo, il più spettrale, racconto: il Covid e il nostro lockdown arrancano per trovare un posto memorabile nel regesto degli Eventi; eppure è un Evento a tutti gli effetti, anzi, è il più memorabile degli ultimi decenni, ma quando il punto di vista è interno – e non guarda in macchina – è indistinguibile dalla sintassi sdrucciola del nostro narcisismo, della nostra incapacità di agire, della nostra misera catatonia da classe media dell’Occidente di nuovo nella Storia, ma senza sollievo. «In fondo era come sonnambuli che tutti ci muovevamo, mafiosi, antimafiosi e spettatori, aspettando di capire in cosa sboccasse quel caos, ognuno con le proprie occupazioni ed evasioni».

Quentin Tarantino ci ha ricordato, nei suoi film degli ultimi quindici anni, che il Cinema può riscrivere la Storia (la storia si scrive anche con i “se” come dice Nanni Moretti nel Sol dell’Avvenire, ma evidentemente Nanni non ha letto Davide Orecchio). Morreale non ri-scrive, ma esplora: cerca connessioni, legami, ritmi e armonie: come possono convivere oscuri registi polacchi che si trasformano in finti-nobili, figli del Nazismo con la controcultura romana degli anni Settanta? Cosa si trasforma in Storia dai rottami di una chat stancamente erotica? Ci devono essere i fili: e se tutto fosse un sogno di Orson Welles?

L’ultima innocenza – di chi? di cosa? Di quei cinefili-cultori che si evocano in più parti? Oppure del cinema stesso? Non sarà che è il cinema a essere ultimo? Ultimità del cinema… Non se ne viene a capo, non c’è un a capo – è un’amniocentesi della Storia: tutti i suoi tentennamenti, le sue crescite esponenziali e pericolose, i suoi percorsi cromosomici curiosi – non divertissement ludici, se non tesi a mostrare che la Storia e le sue permutazioni sono matematica quantistica, onda e probabilità al tempo stesso (bastano pochi tocchi per evocare grandi manovre nucleari, non servono gigantismi abissali): le cose possono andare in un modo o nell’altro. Aut aut (oppure Destino cieco, per dirla come Kieślowski). Dorothy Gibson, la «ragazza del Titanic» dell’ultimo racconto, può diventare una star oppure una concubina travolta dalla Guerra; Klaus Sirk può essere o meno annientato da Goebbels. Aushwitz è irragione, follia, insensatezza impossibile, eppure esiste.

Il cinema, più che regesto d’avventure e vite memorabili, è laboratorio d’indeterminatezza: la vita passa o meno da lì, si fa vita-vera, si fa Storia. «Il film ci aveva mostrato che tra il cinema e la vita non si poteva tracciare una linea, che il cinema non era fatto per accompagnare la vita e i suoi momenti e per rivelarceli. C’erano i film della nostra vita, certo, ma altri film erano anzitutto, irriducibilmente, film delle vite degli altri, o della vita di nessuno: disperate dichiarazioni dell’impossibilità di vedere la vita. Dietro il cinema, contro il cinema, era la vita». Così si legge nel frammento su Anna e Alberto Grifi.

In esergo al racconto Tutto sarà perdonato (su Grifi appunto) vediamo un’immagine, la fotografia di una ragazza che regge un biglietto dalle scritte illeggibili. Potrebbe essere Anna, è Anna, non è Anna. L’immagine, si legge nel paratesto, è senza proprietario, l’editore è a disposizione. Un centro vuoto, ad apertura di una storia che biforca i destini dei personaggi e li intreccia quando vuol reciderli: «Filmare tutto […] perché solo registrando il superfluo si troverà la vita». Anacronismo dell’immagine, disassato posizionamento crono-topico, dissimulazione delle forme nell’intreccio di piani temporali: «archivio degli assenti» (Cappabianca) e «immagine insepolta» (Didi-Huberman).

È in un bel libro di Didi-Huberman, La conoscenza accidentale, che si descrive una fotografia, un calotipo di Victor Regnault (1850). Nell’immagine: due donne, una in piedi, l’altra seduta, sono vestite con abiti lunghi, pesanti, di stoffe povere e dal fraseggio grezzo. Le vesti chiuse fino al collo; entrambe hanno dei copricapi, un cappello con una veletta e una cuffia. La compostezza degli abiti è raddoppiata da ogni genere di velo e di scialle. L’ambiente che le contiene, una stanza, è povera, spoglia. Sulla sinistra, addosso alla spalla della donna seduta, c’è una macchia chiara, una sovraesposizione della luce. L’abbaglio, tuttavia, non ha l’ottusa superficialità di un lampo che s’è impresso chimicamente: c’è una consistenza granulosa, una polvere da polizia scientifica. Di questa figura appena accennata – s’intuisce il perimetro delle spalle, il contorno smangiucchiato del mento, del profilo della guancia destra – non rimane che questo fossile luminescente, una sgranatura che forse è un errore della riproduzione. C’è una luce nera appena sopra l’alone misteriosamente corporeo. Non si capisce il perché di quella strana esposizione, non si capisce il perché e basta. Pare di vedere un’aureola accanto alla testa della donna con la cuffia. È sufficiente leggere.

Georges Didi-Huberman racconta di questa immagine e svela il trucco della «luce nera». Il fotografo infatti usava ritrarre molto spesso il suo nucleo familiare, composto da moglie e due figli. La ragazza in piedi è appunto una delle figlie. Il ragazzo, il figlio minore, invece non compare. Almeno in apparenza. Infatti il piccolo Regnault si ribella all’imposizione paterna di mettersi in posa: si muove, sabota la stasi del piano, non si riesce a imprimere che una scia di “mosso”. Allora il padre, il fotografo, decide di vendicarsi sull’immagine del figlio, cancellandola con una matita di grafite direttamente sul negativo. E così, quando la pellicola è sviluppata, il nero diviene bianco e l’immagine del figlio scompare. Eccetto quel piccolo residuo di nerume che dà quell’impressione di fantasma al tempo stesso corporeo ed etereo. Una porosità ectoplasmatica, a tutti gli effetti. E non è tutto qui. Negli anni successivi la vita di Regnault è dominata dalla disgrazia: uno dei figli maschi impazzisce, un altro figlio maschio cade per via di una revolverata in testa sul campo di battaglia. Non si sa chi dei due fosse. Moglie, madre, figlia muoiono di consunzione del giro di quindici anni. Si direbbe che l’immagine deturpata si sia vendicata sull’uomo che l’ha abrasa. Mai mettersi contro le icone: gemme di superstizione iconoclasta si depositano fra le radici dei denti. Nel libro, a proposito di Regnault, si parla esplicitamente di «superstizione», riconducendolo alla matrice latina del termine: ciò che rimane.

Allo stesso modo l’immagine al centro dell’Ultima innocenza è “ciò che rimane” di un’appropriazione esistenziale. Vita e cinema sono ancora le polarità operative: «Cosa succede di imprevisto nel film? C’è un momento in cui il film cambia direzione?», domanda il professore di storia del cinema dopo aver mostrato Anna ai suoi studenti. Riflette: «La risposta giusta doveva essere: “quando entra in scena Vincenzo”. Eppure, l’immagine superstite si concentra nel campo di forze sopra una studentessa, che risponde: “Beh, ci sono due momenti in cui il film cambia direzione ed entra la vita. Uno molto evidente, uno più importante. Quello più evidente è quando entra in campo Vincenzo”. E l’altro, scusi? “L’altro è quando Anna non li fa entrare. È quello il momento più importante. Perché anche se Vincenzo, come ci ha detto lei, fa naufragare il film, il film però va avanti. È Anna che fa entrare veramente la vita, perché li fa smettere di filmare”».

Un padre gioca con sua figlia a nascondino. La bimba deve nascondersi, ma non ci sono rifugi nei dintorni. Otto, sette. Si guarda intorno: niente. Tre due uno. Arrivo. La bimba si immobilizza e chiude gli occhi. Il padre si volta, ha sua figlia davanti, a occhi chiusi. C’è una intransitività nella consapevolezza che la bimba ha del mondo. O meglio, non esiste un mondo: soltanto la sua immagine, creata da lei. La piccola, chiudendo gli occhi, si esilia dal mondo. I suoi occhi non sono fatti per guardare qualcosa, ma sono una via d’accesso a qualcosa. Se la chiude lei ne è fuori. In clandestinità. Ciò che guardo mi ri-guarda sembra accennare la parola di Grifi e di Anna e così, in questo pneuma morale, si perde la Storia (in)incarnabile del nostro narratore, sigillato nella clausura intransitiva, anche se piena di occhi, del confinamento finale.

Emiliano Morreale
L’ultima innocenza
Sellerio, 2023
224 pp., € 16

In copertina: Henri-Victor Regnault, Vue du Chateau Saint Cloud, ca 1850, waxed paper negative

Filippo Polenchi

è nato e cresciuto a Firenze. Lavora, ha famiglia, legge, scrive. Descrive, osserva. Suoi articoli sono apparsi su “Alfabeta2”, “L’indice dei libri del mese”, "Le parole e le cose", “La balena bianca”. Suoi racconti sono apparsi su “Nazione indiana”, “Collettiva”.

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