L’occhio nero. Guido Morselli 1973-2023

Lo scorso 31 luglio ricorreva il cinquantesimo anniversario della morte – autoinflittasi nella villa di famiglia, a Varese, mediante la “ragazza dall’occhio nero”, come chiamava la sua Browning 7,65 – di Guido Morselli. Lo ha ricordato lo scorso 22 settembre la sua maggiore studiosa, Valentina Fortichiari, con il discorso tenuto nel paese d’origine dello scrittore, Gavirate, che proponiamo ai lettori di «Antinomie». Raccolto appositamente per noi dall’autrice, che ringraziamo, è l’apparato iconografico che riproduce fra l’altro alcune delle fotografie scattate da Morselli con la fedele macchina Ferrania e poi l’allusivo, ominoso “fiasco” da lui stesso disegnato sulla cartella che raccoglieva i carteggi editoriali riguardanti i suoi testi inediti (destinati a restare tali, appunto, sino alla sua morte).

A.C.

Non provo rimorsi a pregarLa di dare un’occhiata a Roma senza Papa. Sono sicuro di questo, che non si annoierà. E non solamente perché il dattiloscritto sia di appena carte 95. Ne sono così sicuro, che faccio con me stesso la seguente scommessa: se Lei mi farà capire di essersi annoiato, pagherò una penale di 25mila lire. Non a Lei, ma per suo tramite alla Croce Rossa Italiana preferibilmente, oppure a un altro Ente che designeremo insieme. Stavolta sono certo ‘del fatto mio’… Beninteso, certo non del valore letterario o della oggettiva pubblicabilità del lavoro; del fatto che Lei non si annoierà” (lettera a Italo Calvino del 1968).

Bambino lasciato lungamente solo, Morselli era predestinato allo scrivere. Non si può dire che la sua infanzia sia stata del tutto infelice, non mancavano divertimenti e giochi sfrenati con la sorella Maria, ma quando, per eccessiva esuberanza, veniva punito e rinchiuso nel “duro carcere”, un ripostiglio presso la cantina, ecco che per reagire a quei momenti di isolamento e di immobilità lasciava correre la fantasia a briglia sciolta. La mente la educò dunque presto all’ascolto di sé, all’osservazione del mondo. E questo trova conferma nel progetto di una autobiografia (La mia vita) concepito a soli otto anni. La perdita della madre a dodici gli fece sperimentare un profondo senso di solitudine.

Maturava un’indole riflessiva, un carattere umorale, soggetto a repentine oscillazioni di umore: esaltazioni cui seguivano tetre malinconie (Bassi, famiglia). Una evidente tendenza alla ciclotimia, che rende non facili i rapporti umani, ma offre in cambio la capacità di scendere nei territori dell’IO, dunque una interiorità ricca, un pensiero libero, e il dono della Scrittura.

Lettore da subito esigentissimo e inquieto, dotato di fiuto meticoloso, individuò i propri itinerari di formazione, da autodidatta, supplendo alle carenze che il curriculum scolastico aveva lasciato in lui. Lungo l’intero corso degli anni Cinquanta Guido Morselli si dedica alla costruzione della propria Persona, una personalità di Scrittore. Vedeva chiara davanti a sé la strada che avrebbe percorso: un tempo dilatato, privo di eventi significativi se non le minute, abitudinarie azioni quotidiane, una ‘durata’ interamente dedita allo studio dei classici. Un’esistenza scarsamente popolata dai propri simili, immersa nella natura, uno stile di vita sobrio (alimentazione sana e pratica sportiva). Un isolamento schivo ma non ‘selvatico’, incline alla frequentazione di persone umili, di anziani e persino di bambini (tardi ammise nei diari la propensione a una genitorialità sempre elusa).

La casetta rosa di Santa Trinita di Gavirate, disegnata da Morselli (foto di Guido Morselli)

Soluzione ideale il buen retiro appartato, da lui disegnato e fatto costruire a Santa Trìnita di Gavirate, dal momento che il silenzio, l’assenza di umani furono presto compensatidalla sua fantasia, dalla creazione di un mondo parallelo, animato di presenze: i personaggi dei suoi romanzi, le vicende di protagonisti tanto ben delineati da sembrare reali.

Nella quiete di Gavirate, avamposto dove lo sguardo poteva correre alle cime del Monte Rosa, ai cieli mutevoli, nel fruscio del vento o gli squittii degli animali nei dintorni, Morselli provava e riprovava, sperimentava generi diversi per trovare la propria Voce: il diario innanzitutto, e poi articoli di giornale, raccontini, commedie, sceneggiature. Coltivava forme ‘altre’, diverse, di espressione, di scrittura, come la fotografia o le riprese filmiche. La passione per le immagini sostituì in parte le sue esercitazioni musicali con il violino: per l’una e l’altra attività era solito documentarsi con serietà, procurandosi manuali. Scrisse alla Ferrania per avere informazioni sugli obiettivi, la luce. Le sue fotografie, in bianco e nero e a colori, erano dedicate prevalentemente al paesaggio, ma in parte anche alle persone che lavoravano per lui la terra.

Fotografia di Guido Morselli

 Procrastinava all’infinito l’autentico appuntamento del destino che lo avrebbe reso grande: la forma lunga del romanzo, con la quale sarebbe finalmente riuscito – postumo – a toccare il cuore dei suoi lettori, che mai – in vita – avrebbe conosciuto. È nei romanzi che raggiunge la perfezione della Parola giusta, la Parola che assicura al testo il suo viaggio nel tempo. Conta solo quello, un libro scritto bene.

Solo in minima parte nei suoi romanzi pescava nei ricordi: rare figure incontrate durante la guerra, nel periodo – niente affatto infelice, anzi creativo – trascorso in Calabria, ospite di una vecchia signora, presso la quale, nella stanzetta alta sui tetti, con le finestre da un lato spalancate verso il mare, dall’altro sulla massa bruna dei monti della Sila, organizzava serate di bevute e conversazioni con un gruppo ristretto di conoscenze della frateria militare: fra queste si distingueva un ufficiale medico al quale si sentiva legato da amicizia autentica, profonda. Forse l’unico vero amico, il tenente medico Ferrari, se lo richiamò più di una volta alla mente, trasfigurandolo in un personaggio speciale dai molti eteronomi (Newcomer, Karpinski, Abraham). Frutto di quegli incontri, memoria di quelle conversazioni maschili, il progetto del secondo saggio corposo, abbozzato in Calabria e terminato a casa, Realismo e fantasia, ovvero Dialoghi con Sereno (1947). Libro di grande interesse, che prefigura temi e motivi della produzione matura, o meglio rappresenta il cardine della sua filosofia umana e della poetica letteraria. Ma importante soprattutto perché vi trapela anche la tipica reticenza morselliana a parlare di sé, a farsi conoscere se non con tratti biografici minimi (“E tu lascia che i tuoi cinque lettori sappiano di me il meno possibile”).

Morselli a Forte dei Marmi

Quando gli editori in procinto di pubblicare gli chiedevano note biografiche, evitava ostinatamente di offrire elementi estranei allo scrivere, posizione che difenderà strenuamente per l’intera esistenza. Nel novembre 1966, a un dirigente rizzoliano che gli sollecita una nota bio-bibliografica per Il comunista, rispose in questi termini: “Morselli non crede che ai suoi eventuali lettori occorrano notizie sulla sua professione collaterale, sul suo indirizzo o stato civile. È un individuo che è sempre vissuto ignoto e isolato, e tale rimarrà. Su questo punto, sarei proprio irremovibile”.

Carattere chiuso e introspettivo, quello di Morselli, che certamente non lo favorì nei rapporti editoriali; di una timidezza pronta a inalberarsi tramutandosi in irascibilità al cospetto di un torto subito. Un carattere non facile, lo ribadisco, tuttavia pronto a passare repentinamente alle più dolci lusinghe e profferte di ospitalità per la sua fame di rapporti umani, di scambi amicali, per il bisogno esasperato di dialogo. Nel 1964, un noto direttore editoriale gli diede dello “scorbutico” facendolo subito reagire: “Non sono scorbutico, come Lei ha supposto. Sono uno che la vita ha molto, molto provato, e ancora oggi la vita per me è difficile giorno per giorno”.

La cartella «Rapporti con gli editori» illustrata con un disegno di Morselli

Un breve passo indietro. Gli esempi sarebbero molti. Il debutto dei “Rapporti con gli Editori” è davvero infelice. Cominciò a raccogliere la corrispondenza epistolare in una cartellina, nel tempo destinata a documentare un vero e proprio fallimento, se in copertina aggiunse a matita il disegno di un fiasco. Ma parliamo di anni prematuri. Il primo incidente capitò dopo l’invio alle Edizioni di Comunità del breve saggio Filosofia sotto la tenda, sviluppo di un diario tenuto durante la guerra. Siamo nel ’55. L’incontro-scontro con il critico Geno Pampaloni, che mai perse la calma e conservò un atteggiamento professionalmente impeccabile, avvenne per via di un ritardo di sette mesi (contro i 15 giorni, a detta di Morselli) nella valutazione e restituzione del manoscritto. Il secondo episodio, poco dopo, toccò proprio a colui che sarebbe stato il padrino di Morselli in Adelphi, Luciano Foà, il quale, allora nelle vesti di dirigente presso Einaudi, si sarebbe reso colpevole addirittura della perdita del manoscritto (Fede e critica), perdita che Morselli arrivò a quantificare in termini di costi della carta, della dattilografia, e delle ore di lavoro spese nella revisione (25mila lire complessive). Il manoscritto in realtà fu recuperato da un consulente lettore esterno e Foà, di una cortesia ineccepibile, offrì persino una scelta di libri in regalo quale ammenda. Morselli non rispose salvo poi, parecchi anni a seguire, tornare a rivolgersi a Foà in Adelphi con un nuovo manoscritto (Dissipatio H.G.).

Questi due casi mostrano reazioni emotive forti, in parte sconcertanti, tanto più se accompagnate dalla consapevolezza di Morselli di essere per gli editori un “signor nessuno”, un perfetto sconosciuto che lotta contro i mulini a vento, per quanto fosse competente, come ho detto, e davvero capace di tenere testa ai suoi interlocutori. Col tempo, con l’esperienza, con l’approdo a una maturità più equilibrata, più assennata, alla soddisfazione di riuscire a creare romanzi che – almeno nel suo cuore – gli davano la certezza di essere davvero uno “Scrittore coi galloni”, l’uomo e lo scrittore sarebbero mutati radicalmente. Dal furore al garbo. 

Morselli in bicicletta a Varese

Nei suoi confronti non ci fu nessun accanimento da parte del mondo editoriale, diciamolo chiaro una volta per tutte. Anzi, ci furono ascolto e pazienza, ci furono tentativi reiterati di trovare una strada di comune accordo per arrivare a pubblicare. Aggiornato e competente in materia di meccanismi editoriali (redazione, editing, fascette, persino pubblicità e marketing), e capace comunque di dialettica, una dialettica che spaccava il capello in quattro, ma è fuorviante e lontano dal vero affermare che “Non voleva spostare una virgola”.  Lo dimostra per esempio l’idea di inserire un Intermezzo ovvero “Conversazione dell’Editore con l’Autore” a metà circa del romanzo Contro-passato prossimo, tentativo di giustificare la debolezza della seconda parte, ma – riletto oggi – suona come il più importante manifesto della poetica morselliana. Ci furono forse una serie di circostanze fortuite che giocarono a suo sfavore: Il comunista, salutato da un telegramma che ne decretava finalmente la pubblicazione, arrivato quasi al congedo delle bozze, nel 1966, poi un cambio della direzione editoriale in Rizzoli comportò la cancellazione dei programmi antecedenti, come spesso succede nelle case editrici. Ma non mancarono amici: Mario Pannunzio, direttore del “Mondo”, Guido Calogero, direttore della “Cultura”, giornali ai quali collaborò attivamente; Italo Calvino e Vittorio Sereni, forse i due dirigenti più collaborativi, generosi di consigli. Amici pronti ad accogliere questo outsider un po’ scontroso, pignolo, poco duttile o incline a piegarsi a compromessi, ostinato a difendere a oltranza le proprie scelte letterarie. Probabilmente troppo singolare, troppo in anticipo sui tempi, ‘sfasato’ (Pontiggia), poco assimilabile nell’ambito della produzione dei suoi anni, così distante dai modelli contemporanei (celeberrima la reazione di Vittorio Sereni a Roma senza Papa: “Ma dove, come collocare questo libro di cui si può dire solo ciò che non è – non è fantascienza, ma non è romanzo, non è pamphlet ma non è satira. Dove lo metto?”, 1968).

Morselli sulla cavalla Zeffirino

Scrittore anomalo, mai uguale a se stesso, mai ombelicale, mai autoreferenziale. Al contrario capace di inventare o reinventare la storia, la religione, la politica, di sovvertire l’osservazione critica del mondo. Se ne accorse persino il Comitato di lettura di Mondadorinel dicembre del 1970, incaricato di redigere una scheda di lettura di Contro-passato prossimo: romanzo che viene apprezzato, pur in alcune debolezze di fondo, ma giudicato non idoneo alla pubblicazione. Colpisce tuttavia il breve giudizio umano finale su Morselli: “…insomma un ‘timido’. Le cui potenzialità restano controcorrente. Magari conviene tenerlo d’occhio”. Conviene tenerlo d’occhio?!

In sostanza, una fervida fantasia non mancava a Morselli. Dunque, dove sta l’errore, dove si colloca il passo sbagliato? Quali le ragioni della sua sconfitta?

Le anticamere dagli editori mi fanno paura, ho l’impressione che gli uscieri, le seggiole persino, mi urtino: è proprio vero che non c’è un italiano che non abbia un copione, un romanzo o un quaderno di liriche nel cassetto”, così scrive in una lettera del 1964. Non era propriamente così. A quell’epoca coloro che tentavano la strada della letteratura non raggiungevano il numero abnorme che ai nostri giorni caratterizza il campo sterminato degli aspiranti scrittori i quali inviano manoscritti alle case editrici. Le case editrici erano rappresentate da alcune grandi concentrazioni editoriali e da alcune case storiche (Rizzoli, Mondadori, Einaudi, Adelphi, Fabbri, Longanesi, Garzanti, Mursia, Bompiani, Vallecchi), non certo dalla miriade di editori odierni. Coloro che occupavano i posti di comando godevano del tempo e delle risorse necessarie per valutare il peso specifico di un progetto letterario. Certo non esisteva ancora la figura dell’agente letterario, oggi tanto diffusa, che forse avrebbe agevolato Morselli se mai avesse accettato un mediatore, ma i direttori editoriali spesso erano scrittori essi stessi (Calvino, Sereni), dotati di una capacità critica decisamente superiore a quella di semplici funzionari, talvolta improvvisati – oggi – al mestiere di editore.

Fotografia di Guido Morselli

Come mai nessuno di coloro che lo hanno avuto sotto gli occhi, che lo tenevano d’occhio, ha avuto il coraggio di ‘osare’ con un personaggio tanto particolare, certo un esordiente sconosciuto ai più, eppure un esordiente dallo stile inconfondibile e originalissimo, di elevata qualità di scrittura e capacità indiscussa di allestire una trama complessa, piacevole, riflessiva. Come mai taluni dei suoi interlocutori – post mortem – hanno sottoscritto con convinzione il visto si stampi senza ovviamente toccare una virgola, com’è prassi acquisita e corretta per i testi di chi non avrebbe più potuto dire la sua, approvare o modificare? Posso, con tutto il rispetto, fare i nomi di Vittorio Sereni e di Luciano Foà che insieme a Dante Isella, e con l’avallo del lettore-consulente allora adelphiano, Giuseppe Pontiggia, decisero di dare il via ufficiale alla pubblicazione ‘postuma’, benemerita, dell’opera narrativa morselliana, creando un ‘caso’ Morselli che si alimentò, in parte purtroppo, anche della sua leggendaria fine drammatica. A loro tutti si deve la nostra gratitudine.

Con Dante Isella (a sinistra) a Varese

Mi permetto a questo punto di accennare a un piccolo ma non insignificante dettaglio, con una premessa: sulle ragioni che spingono un essere vivente a sopprimersi è sempre difficile, inopportuno, azzardare ipotesi o, peggio, illazioni. Probabilmente Morselli non si uccise soltanto dopo aver trovato copie di Dissipatio restituite al mittente, di ritorno dalla montagna (Adelphi tacque, Rizzoli rifiutò). La copia inviata a Bompiani tornò indietro con due lettere: la risposta di Enrico Filippini, e il messaggio della segretaria che chiedeva se l’autore volesse riavere il manoscritto. Ma era fine novembre 1973! Morselli non c’era più da quattro mesi.

E qui non vorrei scandalizzare i benpensanti, ma in fondo penso che Morselli abbia avuto una ‘buona’ vita: ha fatto tutto ciò che ha voluto, sempre, ha vissuto nella natura che “dat medicamenta” (parole sue), si è dedicato alle migliori attività (lettura, scrittura) che danno linfa vitale allo spirito, ha amato riamato. Ha vissuto seguendo testa e cuore. E oggi che qui lo ricordiamo anche come uomo, Persona, vorrei che pensassimo a tutto questo con gioia. La stessa felicità che connota alcuni romanzi, personaggi o passaggi dei suoi libri.

Eppure una domanda mi tormenta da quasi un cinquantennio: stanco forse, preoccupato dei suoi mali fisici, in fase più tetra che esaltata, stanco in parte di quel limbo di attese, di intermezzo o interludio nelle anticamere degli editori, Guido Morselli, quel signore di Gavirate che “fantasticava di istanti impossibili”, come ebbe a dire Giorgio Manganelli, col suo gesto drastico, indifferibile, ha avuto sentore di consegnarsi all’immortalità? Sapeva, intuiva che – annullando se stesso – avrebbe reso immortali le sue opere, degne di collocarlo fra i grandi classici del Novecento?

Lettera a Calvino del 9 ottobre 1965:

Quel che conta ora è che lei mi scriva che alla lettura ‘ci ha preso gusto e ci si è arrabbiato, che la figura centrale e unica del libro ‘c’è e persuade’ (sue parole) e che il libro ‘è gremito di fatti e di cose’. Se uscirà, sarei felice se i critici che lo attaccheranno sapessero arrivare alle stesse conclusioni di fondo cui è arrivato Lei, e che lo maltrattassero col gusto e con la passione che ci ha messo Lei. La ringrazio e La prego: quando torna a Milano me lo faccia sapere, verrò a salutarLa e per me sarà incontrare un amico.

Per non essere, a Lei del tutto uno sconosciuto: sono emiliano, autodidatta, vivo solo su un piccolo pezzo di terra dove faccio un po’ di tutto, anche il muratore; politicamente sono in crisi, con quasi nessuna speranza di uscirne”.

La casetta rosa di Santa Trinita di Gavirate, disegnata da Morselli (foto di Guido Morselli)

Valentina Fortichiari

ha diretto per anni le Relazioni Esterne in Longanesi. È libera docente in comunicazione e tecniche del racconto. Ha curato e cura le opere di Guido Morselli e di Cesare Zavattini. Di recente Solferino ha riproposto il suo romanzo d’esordio, “Lezione di nuoto, Colette e Bertrand estate 1920”.

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