Cesare Brandi, o della realtà pura

In un articolo che passava in rassegna le opere più significative del primo decennio postbellico, Gianfranco Contini citò il Carmine di Cesare Brandi come il saggio più importante uscito all’indomani dell’Estetica crociana, ancorché in esso le «analisi fenomenologiche» sembrassero prevalere «qualitativamente sul sistema». Ovvero su una trattazione concepita come un tutto organico in cui si riflette e concreta l’idea d’una realtà puramente razionale: un’idea, a leggere Croce e Gentile, da intendere in senso ancor più drastico che in Hegel. Il sinecismo fra “concetto” e “fatto” deriverebbe infatti, in questi autori, da un processo dialettico nel quale il reale si realizza idealizzandosi, e il razionale si idealizza realizzandosi nel positivo delle forme particolari e storiche. «Sarà dunque da rendere omaggio alla Ragione» – si legge nel crociano La storia come pensiero e come azione –, da «restaurare e rinnovare il [suo] altare», mettendo in opera la trasfigurazione del sentimento stesso nella forma, in quanto principio d’ordine che segna il compimento del trapasso dall’intuizione estetica al giudizio logico.

Questo «razionalismo concreto» permeò la cultura italiana in maniera pressocché assoluta fino almeno agli anni Cinquanta. Al punto che, nel primo congresso internazionale di studi italiani promosso dalla Society for Italian Studies all’Università di Cambridge nell’agosto 1953, il grande italianista Umberto Bosco dovette ammettere che nel nostro Paese si assisteva al curioso paradosso per cui si era tutti crociani sebbene nessuno o quasi lo era davvero; e ciò perché, come rilevato da Giorgio Pasquali già nel 1929, di Croce si finiva per apparire emuli anche senza averlo letto davvero. Il crocianesimo (e, benché più discretamente, l’idealismo gentiliano) era una «tipologia culturale» alla quale non sembrava, allora, si potesse rimanere estranei. E se non tutti erano soliti dichiararsi apertamente crociani come Carlo Ludovico Ragghianti, pure in chi, come Roberto Longhi, si sarebbe detto preferire l’aisance teorica del conoscitore all’adesione a qualsiasi «breviario di estetica», si sarebbe potuta cogliere – ha osservato Cesare Garboli – un’inconfessata prossimità all’attualismo allora imperante.

Ecco quindi che la figura di Brandi, incarnazione del critico intento (con un impegno la cui misura è stata definitivamente stazzata dai saggi di Massimo Carboni e Paolo D’Angelo) a fondare una propria estetica autonoma – senz’essere avversa – rispetto a quella elaborata da Croce, si staglia in un’inattualità che coincide con un’esperienza che lavora «contro il tempo, ed in tal modo agisce sul tempo, e a favore di un tempo venturo»: ossia d’un presente che non si vuole rassegnato alla propria contemporaneità e in particolare a una temperie, quale l’attuale, dove la critica d’arte si contorce nell’alternativa fra il chiudersi nella filologia o l’evadere nella sociologia o negli studi culturali. Un’alternativa che non trova in Brandi alcun puntello, avendo egli sempre preferito sostenere che nella presa di conoscenza artistica avrebbe dovuto esservi soltanto la coscienza di un oggetto capace – si legge nelle Due vie del 1966 ora ripubblicato da La Nave di Teseo – di realizzare una presenza o, meglio, un’«astanza», quale «presenza della traccia che divide l’essere dall’esistente».

Il termine «astanza», che Brandi qui declina fino all’identificazione con ciò ch’egli chiama «realtà pura», nel definire il modo d’essere dell’opera d’arte in contrapposizione alla «flagranza» della realtà esistenziale, pone in evidenza anche lessicalmente l’insoddisfazione per una concezione che propugni un’identificazione dell’estetico con l’atto intuitivo-espressivo dello spirito, intendendo piuttosto l’opera d’arte come messaggio che annulla se stesso come messaggio. Il termine «astanza» definirebbe la presenza dell’opera d’arte non già quale fenomeno di qualcosa o per qualcuno, bensì come «intuizione folgorante» dell’evidenza d’un «fenomeno che fenomeno-non-è». Lo spazio onto-fenomenologico distinto dalle opere d’arte sarebbe circoscritto dal porsi, in modo assoluto ed originario, di entità singolari la cui esistenza si legittimerebbe da sé, cosicché la loro verità non potrebbe in alcun modo essere affermata linguisticamente: «l’arte, dandosi in proprio, non comunica». La codificabilità del linguaggio verbale non potrebbe cioè essere estesa alle arti figurative, le quali resterebbero così racchiuse entro una forma che si significa. D’accordo con Henri Focillon, Brandi considera l’opera d’arte capace di presentificare la materia, assegnandole una «misura dello spazio», una «forma», che aspira a creare un suo senso, un suo contenuto, immergendosi nella mobilità del tempo e insieme appartenendo all’eternità.

«Ma cos’è una presenza che si rifiuti di comunicare, per essere solo se stessa?» – si chiedeva Umberto Eco recensendo con qualche scetticismo la prima edizione de Le due vite (testo ora incluso nella nuova edizione). Si sarebbe tentati di rispondere che nell’intestardirsi dell’opera d’arte a essere lì non si possa cogliere altro che un’oscillazione irrisolta fra l’aseità e un nuovo evento di senso; o forse anche una vertigine: una inversione e una contaminazione del nostro determinato hic et nunc, che ci consegna a un flusso indistinto di contrari che si annullano a vicenda, con un conseguente, progressivo arrestarsi della circolazione del senso, compreso quello che la forma artistica si assegnerebbe. D’altronde – faceva a sua volta notare Roland Barthes presentando il volume di Brandi nel giugno 1966 (anche questo intervento, inedito, sta in capo alla nuova edizione) – che l’opera d’arte non rinvii che a se stessa, che qualsiasi “altrove” le si voglia attribuire sia da considerare truccato, se non falso, comporta sì che quanto di segnico c’è in un manufatto artistico non possa essere assimilato alla significazione invalsa nella realtà contingente, ma non per questo preclude che si possa prendere in considerazione «una semiotica vuota».

E tuttavia, il tentativo promosso da Brandi di escludere qualsiasi considerazione semiotica dell’opera d’arte appare più radicale di quello che voglia limitarsi ad affermare che, rispetto ad essa, l’enunciazione non ha mai alcuna significazione piena. La paradossalità di una semiotica impegnata a far arretrare incessantemente il significato e a far giocare il significante onde provocare uno svuotamento del senso, secondo quanto proposto da Barthes, è rilanciata da Brandi facendo ricorso a una sorta di “platonismo rovesciato” che esclude qualsiasi simulacro, per ricentrarsi attorno alla definitiva e assoluta purezza dell’opera d’arte: a quello che Deleuze chiamerà il suo «piano di consistenza», in cui si afferma e conferma la «ecceità» dell’opera, la sua identità a sé, quale si manifesta nella continuità delle sue apparizioni nel tempo e nello spazio: una continuità informe, invisibile, indicibile, inarticolabile, eppure «persistente nella presenza». Una sorta di forma in cavo, che si adempie solo nella misura in cui non diviene una realizzazione perfetta, un simbolo, ma si limita a «formare una sottilissima pellicola aderente all’impronta, e tale da riprodurre fedelmente la cavità».

Cesare Brandi
Le due vie
a cura di Massimo Carboni, con testi di Roland Barthes e Umberto Eco
La nave di Teseo, 2023
368 pp., € 20

In copertina: Giorgio Morandi, Fiori, 1943, © Fondazione di Studi di Storia dell’Arte Roberto Longhi, Firenze

Luigi Azzariti-Fumaroli

(Milano 1981) insegna filosofia della comunicazione e del linguaggio presso l’Università Pegaso di Napoli; ha svolto e svolge attività didattica e seminariale presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e l’Università di Pavia. Studioso di filosofia moderna e contemporanea, è autore di numerosi saggi e studi monografici fra i quali: “L’oblio del linguaggio” (Guerini 2007); “Alla ricerca della fenomenologia perduta. Husserl e Proust a confronto” (Mimesis 2009); “Brice Parain-Impromptu” (ESI 2010); “Giuseppe e i suoi fratelli: dalla filosofia narrante alla rivelazione” (Editoriale Scientifica 2012); “Passaggio al vuoto. Saggio su Walter Benjamin” (Quodlibet 2015) “Monoteismo plurale. Teologia ed ecclesiologia in Schelling” (Il Pozzo di Giacobbe 2019). Ha curato l’edizione italiana di opere di Derrida, Baumgardt, Hegel, Maimon. Di prossima pubblicazione, presso Quodlibet, è “Filosofia dell’ombra. Tre saggi”. Giornalista pubblicista, collabora con diversi periodici.

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