È uno strano mistero quello per cui spesso nell’animo dell’artista sorge l’idea di un quadro i cui personaggi sono dapprima nebbie indistinte e incorporee, fluttuanti nell’aria, poi però esse sembrano prendere forma e vita e trovare proprio nell’anima del pittore la loro patria. D’improvviso il quadro si riallaccia al passato, o addirittura anche al futuro e rappresenta ciò che è veramente accaduto o che magari un giorno avverrà.
Doge e dogaressa, in “I fratelli di Serapione“
Ernst Theodor Amadeus Hoffmann desiderava essere pittore. Nel 1798, tuttavia, dopo essersi trovato al cospetto presso la Gemäldegalerie di Dresda, culla della Frühromantik, dei dipinti degli antichi maestri come la Madonna Sistina di Raffaello, La notte del Correggio, La caccia di J. I. van Ruisdael o la Maddalena penitente di Battoni, si sente inadeguato e privo di talento, abbandonando così cotale malriposta ambizione. Continua però, a trastullarsi come caricaturista – fra le altre, storicamente rilevanti sono le caricature antinapoleoniche – dato il gusto squisito per la satira. Una sopraffina ironia, assieme a un umorismo carnevalesco, caratterizzano l’intera sua opera, della quale Baudelaire coglie la comicità assoluta e l’arguzia trascendentale, che già Robert Schumann aveva intuito[1].
Prima di cambiare rotta, lo scrittore e compositore tedesco, nonché futuro avvocato al servizio dell’amministrazione prussiana, quando studia diritto a Könisberg, prende lezioni di disegno e si dedica in particolare al ritratto, la cui rappresentazione e descrizione costituiscono momenti peculiari della sua narrativa. Il ritratto è il trait d’union fra i due mondi: i quadri disseminati nell’intera opera di Hoffmann, nonché le visioni e le apparizioni, sono il sembiante di accadimenti passati o venturi, nascondono il tesoro della chiaroveggenza, conducono entro le leggi segrete del desiderio, fungono da portale metafisico e «camera oscura», come ci suggerisce l’incipit degli Elisir del diavolo: «Ma se deciderai di seguire Medardus, quasi tu fossi il suo fedele compagno di viaggio, attraverso celle e chiostri oscuri, attraverso il più variopinto e multiforme dei mondi e sceglierai di sopportare con lui gli eventi orrendi, spaventosi, folli e farseschi della sua vita, forse ti diletterai al cospetto delle molteplici immagini che, come in una camera oscura, ti compariranno dinanzi»[2].
In Hoffmann la presa di coscienza di una sostanziale ambiguità del reale (ciò che vediamo non coincide mai con ciò che profondamente è; l’oggetto della visione, guardandosi da sé, non si vede mai com’è visto, né “del tutto”) costituisce la sorgente di un oscuro e al contempo luminoso linguaggio perturbante e fantastico, secondo una «poetica della defigurazione» che fa ampio uso di ecfrasi e anamorfosi[3]. In un assai accurato saggio sulla presenza della pittura antica e moderna nello scrittore (Raffaello, Salvator Rosa, Bosch, Van Dyck, il paesaggio fiammingo e l’arte sacra italiana) scrive Michele Cometa che l’opera di Hoffmann «declina tutte le modalità dell’ékphrasis romantica, in particolare quelle che più si inseriscono nel quadro prospettico che intendiamo sviluppare: quello cioè che mette a fuoco il nesso tra dinamiche del desiderio e modi del fantastico, in questo caso della pittura. I quadri che l’ékphrasis romantica descrive hanno infatti la peculiarità di essere, tra l’altro, tableaux vivants, sono cioè, prima di tutto, oggetti e soggetti del desiderio, vere e proprie “macchine desideranti” dislocate nel testo che mettono in relazione corpi animati, immagini e dipinti»[4].
Insomma, da un lato un quadro viene “animato” attraverso «lo sguardo/l’istante che anima»[5], perciò descritto e dunque narrato; dall’altra parte il reale, con la sua narrazione, viene fissato, reso muto, o meglio traghettato sulla soglia di una realtà “altra”. Grazie al racconto, il dipinto sembra prendere vita come un tableau vivant, mentre il reale viene ri-prodotto attraverso lo sguardo di una lente affabulante. Tale duplice movimento alimenta il caleidoscopio dell’immaginazione che suscita, con i suoi bagliori, un vertiginoso moltiplicarsi degli “Io” e un susseguirsi di riflessi, alterazioni-mostruosità e sovrapposizioni-sublimazioni. La visione deforma la realtà, sinistrandola e duplicandola. E, tuttavia, pure la completa: poiché ne è, da un lato, l’insufflatopsichico e, dall’altro, la chiave di accesso al reale.
Nei Fratelli di Serapione un gruppo di amici si ritrova e si riunisce il 14 novembre (la ricorrenza di uno dei tre San Serapione, ovvero un martire di origini inglesi o irlandesi). Uno dei personaggi, Theodor, sembrerebbe ispirato allo stesso Hoffmann, mentre gli altri parrebbero alludere a F. de la Motte Fouqué (Lothar), J. E. Hitzig (Ottmar), C. J. Contessa (Sylvester), D. J. F. Koreff (Vinzenz) e A. von Chamisso (Cyprian). Costoro, tutti scrittori anche nella finzione, adottano una regola, chiamata per l’appunto «principioserapiontico»: a turno ognuno dei confratelli affabula una storiapartendo sì dal reale, inteso come dato di fatto, ma lasciando parlare l’immaginazione. In questo che è un racconto a cornice, la cui struttura richiama il Phantasus di Ludwig Tieck, lo sguardo che promana dall’intimo e che allucina, raddoppiandolo, il reale, spariglia dunque le carte, per indicare il tavolo di un’altra partita. Il reale viene riprodotto secondo la necessità di un processo creativo e la passione di un istinto ri-creativo, che si radica, trovando la sua ragion d’essere, nel témenos del sogno e della sua messa in scena. Le figure e le atmosfere oniriche sussurrano un richiamo mai del tutto decifrabile e, provocando l’immaginazione, hanno un indiscusso potere maieutico. Il gioco ci sembra familiare ma al contempo oscuro, perturbante.
Sul concetto di perturbante (Unheimlich) hanno riflettuto lo psichiatra Ernst Jentsch e poi Freud, che nel saggio Il perturbante (1919)prende in esameil racconto di Hoffmann L’uomo della sabbia (Der Sandmann, 1815). Unheimlich (perturbante, estraneo, strano, lontano, minaccioso, occupato) sembrerebbe l’opposto di heimlich (famigliare, intimo, ma anche ombroso, nascosto; dalla radice heim-, da cui Heimat, patria, casa). Le due parole, in apparenza antitetiche, invece scivolano e si sovrappongono l’una all’altra, addirittura coincidono nell’accezione di significato esposta da Schelling (Filosofia della mitologia) che Freud considera, ovverossia «tutto ciò che doveva rimanere segreto, ma è venuto alla luce». Anche Heidegger, che frequentementecerca la via che possa condurre a unapatria (Heimat) in cui abitare, ovvero il sentiero di un’erranza cheè, soprattutto, un cammino verso il linguaggio capace di accennare, almeno, «il sentirsi prossimi a casa», rifletterà sul significato di Unheimlich considerandolo come una modalità di manifestazione dell’angoscia: «Nell’angoscia – noidiciamo – “ci si trova spaesati” (unheimlich). Che significa il “ci” e il “si”? Noi non siamo in grado di dire dinnanzi a cosa ci si trova spaesati. È nella totalità che ci si sente così. Tutte le cose e noi stessi naufraghiamo in uno stato di indifferenza. Ciò non va inteso nel senso di un semplice dileguare, quanto piuttosto nel senso che le cose e noi stessi ci si rivolgono nel loro allontanarsi da noi. […] L’angoscia rende manifesto il nulla […]. Il nulla si rifiuta all’essente eclissantesi nella totalità, rivela questo essente nella sua piena estraneità finora nascosta, come l’assolutamente altro nei confronti del nulla. Soltanto nella chiara notte del nulla dell’angoscia avviene l’originaria apertura dell’essente in quanto tale»[6].
Ma che cos’è questo chiarore notturno? Che cosa, sullo sfondo, traluce? Si tratta di un ritorno del rimosso? O meglio, il rimosso è stato solo respinto dalla coscienza nell’inconscio, e dunque riaffiora con tutto il suo portato traumatico? O invece v’è qualcosa di più originario, un fremder Geist (spirito estraneo), nel soggetto, che tesse le fila degli accadimenti e dei destini? Che cosa ci vuole dire questo ignoto che si mostra? Abbiamo a che fare con un dèmone dell’oscurità che gioca a nascondino e si diverte ad affossarci nell’impossibilità di vedere? Quali ombre si addensano nell’humus ignoto e aggrottato, nel bosco con i rami intricati? Nel nascondimento che rende possibile lo svelamento, nell’apparire della Lichtung di Heidegger[7], non traspare qualcosa di massimamente intimo, perciocché di estraneo? La luce della chiarita svela l’essere che sembrerebbe appartenerle e che riguarda anche la penombra della selva, poiché proprio l’intuizione di qualcosa di nascosto alla vista non solo indica un luogo diverso da quello in ombra, ma anche rende possibile la visione. L’essere viene alla luce, si schiude libero nell’Aperto, si illumina la grotta umbratile. Non è lo sfondo della chiarita una camera oscura?
La luce e il calore del focolare domestico sono rassicuranti, e, proprio perché domestici, essi sono anche nascosti, fra le mura di casa. È ora utile riconsiderare il senso di Heimlich, in particolare nel significato di «luogo non infestato da spettri», dove cioè le ombre si diradano. Tuttavia ciò che è domestico non sfugge all’infestazione spettrale, al celato. Ciò che massimamente si nasconde non è, forse, anche il più intimo? Qual è il luogo in cui i personaggi di Hoffmann desiderano abitare? La violenza di una necessità artistica non li scaraventa con forza fuori dal mondo delle convenzioni borghesi, oltre il diurno, contro ogni filisteismo?
Le riflessioni sul rapporto ancestrale della Natura con l’animo umano, e soprattutto con le sue oscurità, premonizioni, intuizioni, insomma con il sogno e con il «meraviglioso», sono peculiari del Romanticismo. Pensiamo in particolare alla definizione del movimento che delinea Novalis («Quando conferiamo al comune un senso più elevato, all’ordinario un aspetto misterioso, al noto la dignità dell’ignoto, al finito un’apparenza infinita allora io lo romanticizzo») e all’idealismo di Schelling, per il quale Spirito e Natura sono cooriginari. Nella Casa desolata, il veggente Theodor osserva: «Ciò che appare straordinario scaturisce dal meraviglioso, solo che noi spesso non sappiamo scorgere il tronco meraviglioso da cuigermogliano i rami straordinari con tanto di foglie e di fiori»[8].
La Natura del Romanticismo è notturna. La natura del sottosuolo, familiare ed estranea, è Abisso e Sosia, natura naturans gemella della natura naturata, per dirla con Spinoza, giacimento inesauribile di immagini oscurate e proliferazione di lati psichici inesplorati. Come osserva Matteo Galli nell’introduzione ai Notturni, dopo le Veglie di Bonaventura(Nachtwachen des Bonaventura)[9], gli Inni alla notte (Hymnen an die Nacht) di Novalis, maestro del cenacolo di Jena, le Idee sul lato notturno delle scienze naturali (Ansichten von der Nachtseite der Naturwissenschaft) di G. H. von Schubert, i Notturni (Nachtstücke) di Hoffmann sanciscono il connubio notte/follia, notte/visione. Il termine Nachtstück (attestato per la prima volta in tedesco nel vocabolario di Caspar Stieler nel 1691) inizialmente viene parafrasato con la locuzione latina pictura opaca; il Deutsch-ItalienischesDictionarium di Matthias Kramer (1724) traduce i cinquecenteschi termini vasariani «pittura di notte», «quadro di notte», «pittura finta di notte». Solo in seguito, con Jean Paul, il significato slitta verso la letteratura[10].
L’autore del Discorso del Cristo morto è il prefatore, forse controvoglia, dei Pezzi di fantasia alla maniera di Callot (Fantasiestücke in Callots Manier, 1814-15) di Hoffmann, opera che ispira a Schumann la suite di otto fantasie per pianoforte Kreisleriana,op. 16 e Phantasiestücke per pianoforte, op. 12. Il personaggio Johannes Kreisler, maestro di cappella (Kappelmeister) dotato di una estrema sensibilità musicale, la cui biografia viene narrata per frammenti nel Gatto Murr, è il più significativo degli alter ego di Hoffmann. Schumann e lo scrittore (ma anche compositore) sono legati a filo doppio. Schumann compone anche i Nachtstücke op. 23 ispirandosi all’omonima raccolta di racconti di Hoffmann. La decostruzione dell’identità, la dissociazione della personalità e il riconoscersi almeno doppi accomunano questi due grandi protagonisti dell’Ottocento, che esprimono un eccesso, uno scarto fra il soggetto e le istanze dell’Io, imminenti, di Freud. Il compositore delle Kinderszenen (Scene infantili), op. 15, è affetto da disturbo bipolare, dovuto probabilmente alla sifilide, che contrae anche Hoffmann: morirà nel 1822 per tabe dorsale. Entrambi creano numerosi alter ego o “quadri”, inquadramenti di impulsi psichici, passaggi verso gli strani ospiti che li abitano, modalità di accesso alla potenza creatrice che li possiede. D’altro canto, come in un circolo vizioso, il potenziamento della coscienza è debilitante, poiché genera uno stato di forte esaurimento, che potrebbe progredire fino all’apoplessia.

Nell’opera dello scrittore lo stato di malattia è una situazione-soglia, nella quale possono scatenarsi le forze demoniache che attaccano di preferenza spiriti indeboliti, di più facile accesso. Il personaggio Zacharias Werner (ispirato al personaggio reale, omaggio di Hoffmann allo scrittore del medio romanticismo)[11] è sospeso fra genio e malattia: l’isterismo della madre, che si crede la Vergine Maria, fa germinare in lui l’idea di essere, come Cristo, un predestinato. Ma sappiamo che la follia può dire la verità. Hoffmann è in anticipo di parecchi decenni sulla nozione di inconscio e di doppio. Malinconicamente beffardo nei confronti della tecnologia e degli automatismi, indaga i lati in ombra della psiche e della genesi del processo creativo. D’altronde, Mefistofele (pensiamo, fra gli altri, al personaggio di Ignaz Denner che cerca di corrompere con l’inganno il guardiacaccia Andrea e la moglie Giorgina) si aggira nell’intera sua opera, sventolando il patto faustiano bell’e firmato.
Operaio e dirigente nella fabbrica dell’ottica e delle ombre, Hoffmann studia le scienze occulte, il magnetismo, il mesmerismo (teoria che si deve a Franz Anton Mesmer, studioso del magnetismo animale), la telepatia, il sonnambulismo, il meccanismo della fissazione, le manie. Conosce, fra gli altri, il Simbolismo dei sogni (Die Symbolik des Traumes,1814) di G. H. von Schubert, legge Rapsodie sull’applicazione del metodo di cura psichico ai distrubi mentali (Rhapsodien über die Anwendung der psychischen Kurmethode auf Geisteszeruttungen, 1803) di Johann Christian Reil, si interessa al saggio applicato sul magnetismo animale (Versuch einer Darstellung des animalischen Magnetismus als Heilmittel, 1811) di Ferdinand Kluge.
Nella Casa desolata Theodor prefigura, nel dormiveglia, il volto leggiadro di una fanciulla, che poi scorge, identico, all’ultima finestra del piano superiore della «casa desolata». Per non dare troppo nell’occhio, decide di osservare la ragazza per mezzo di uno specchietto tascabile rotondo, acquistato da un venditore ambulante, simile al mercante di barometri e ottico Giuseppe Coppolaalias Coppelius dell’Uomo della sabbia (Der Sandmann, 1815, fa parte dei Notturni), il quale vende a Nathanael il cannocchiale tascabile per osservare Olimpia. Nell’immagine proiettata dallo specchio, compaiono volti sconosciuti e «tremendi, orribili occhi di bragia»[12] che mandano scintille. Lo sguardo della ragazza sembra malcerto, fisso. La visione lo pietrifica, lo obnubila. Un uomo anziano fa notare a Theodor che l’apparizione non è che un ritratto a olio. Tuttavia, il volto della fanciulla continua a manifestarsi al giovane attraverso una nebbia azzurrina e con occhi mesti, ogniqualvolta il ragazzo alita sullo specchio per pulirlo, quasi l’apparizione non fossechela propria stessa immagine. Inoltre, allo svanire della figura, viene afflitto da un forte stato di prostrazione. Dopo vari incontri e prodigi, Theodor scopre che quell’immagine corrisponde a Edmonde, la figlia di Gabriele, personaggio femminile che èla sorella di Angelika. Quest’ultima si è rinchiusa nella casa desolata dedicandosi alle arti magiche, impazzita a causa del repentino innamoramento del suo fidanzato, il conte von S., per Gabriele. Tuttavia Hoffmann, qualche pagina prima di svelarci l’enigma, chiama la figlia di Gabriele Edwine, e non Edmonde. È alquanto probabile si tratti di un cambio di nome voluto, al fine di provocare ulteriore scompiglio nel racconto, aumentandone l’ambiguità. Angelika, negli accessi di follia, sembra assumere i tratti di una vecchia zingara. In uno di questi deliri, afferma di avere avuto una figlia dal conte von S: che si tratti di Edmonde? O invece Hoffmann, giocando sul doppio nome, ci vuole indicare il dipinto a olio dell’inizio, ovvero la figlia di Gabriele ritratta?
Il tumulto che genera la passione amorosa è un tòpos nei racconti e romanzi di Hoffmann, e nella cultura romantica in genere. Basti pensare allo scatenamento di forze provocato dalla fascinazione amorosa per Aurélie di cui è vittima il frate Medardus, che identifica la ragazza con Santa Rosalia, il cui quadro è appeso nella chiesa del convento. Cotale deflagrazione è prodotta da un’immagine che svela ai personaggi il loro più intimo desiderio. Il dispiegamento di afflati e struggimenti afferisce alla potenza creatrice stessa che opera una deviazione, ovvero un transfert, su un oggetto che si immagina degno di essere contemplato e adorato. In un certo senso l’oggetto dell’incanto viene reso muto (come pietrificato è il mirante di fronte all’apparizione), poiché l’estasi che si prova al cospetto di una donna amata, in un certo qual modo, la dipinge, ne fissa l’immagine. A questo punto comincia un’altra narrazione, nell’altrove del ritratto, che illumina una via completamente diversa da quella quotidiana. Non contempliamo, forse, attraverso il ritratto scrostato di noi stessi, il tralucere di uno sfondo originario, la speranza di una visione compiuta, il nostro dàimōn?
Anche l’ossessione della grandezza è una fissazione, forse financo una burla o un marchingegno solipsistico, un deus ex machina che protegge dal filisteismo. Noi ammutoliamo dinnanzi allo schiudersi abbagliante di codesto quadro originario, e ci pietrifichiamo; poi quella visione oscura ci richiama mentre si illumina, ed esige di essere detta. È pure una dannazione, la necessità di trovare un linguaggio che possa evocare l’ascensione dell’immagine. Ritratti, automi, bambole, apparizioni, fantasmi non sono forse altro che simulacri di un io spaesato. Sicuramente anche di un io, oltre che rivoltato, in rivolta. Ma chi è lo straniero che attraversa il nostro ritratto originario e deforma la nostra fisionomia?
Invasamenti e manie dei personaggi di Hoffmann ora illanguidiscono ora potenziano la vitalità dei posseduti, e insieme accrescono o ammalano lo spirito, mentre si volgono alla ricerca di un ubi consistam incontrovertibile, simile a una vena aurifera sotterranea e prodigiosa. Il tesoro sotterraneo acceca e, per eccesso di luce, dissolve i confini della percezione, rendendoli invisibili, “notturni” e della sostanza dei sogni. A sua volta il sogno, preludio di uno svelamento, lascia su un terreno ancora vergine le orme che ci consentono di riconoscere in seguito il nostro passaggio. Mentre ci capita di percorrere realmente quel sentiero sognato, ci sentiamo come se quel transito fosse già avvenuto, se avessimo oscuramente già attraversato quella via, soprattutto come se non potessimo (e non volessimo) non averla ancora una volta esplorata, insomma sperimentiamo il déjà vu. Il sognare, come l’agnizione dell’“essere sognati” che ci ingenera il déjà vu, rivela l’ubi consistam nel tableau vivant del sogno, ovvero smuove il quadro originario e ignoto in cui siamo ritratti. Il ritratto originario precede il sogno o, al contrario, il sogno anticipa il ritratto?
Afferenti a una potenza originaria e creativa, ma estranea, i personaggi hoffmanniani tentano disperatamente di rendersi immortali, o comunque di trovare il proprio paesaggio originario, luccicante enigma dello sfondo. Temono la fissità dei dipinti dai quali sono affascinati e respinti. Tuttavia, la consapevolezza di una vocazione artistica spesso si rivela attraverso il desiderio suscitato dalla donna amata, e soprattutto dal suo ritratto. Nella Corte di Artù (Der Artushof, 1816) il vecchio pittore tedesco in crisi di ispirazione, Godofredus Berklinger, è una maschera mefistofelica che si presenta attraverso una doppia visione (apparizione e ritratto): al protagonista Traugott era da poco apparso «un uomo serioso quasi tetro, dalla nera barba ricciuta, che montava in ricche vesti un destriero nero, tirato per le redini da un meraviglioso giovane», quando «si voltò rapidamente, destandosi dal sogno, ma venne colpito come da un fulmine: stupore e spavento lo resero muto, si ritrovò infatti a fissare lo stesso volto dell’uomo tetro ritratto sopra la sua testa» [13].
Berklinger riconosce la vocazione artistica del commerciante Traugott che, dal canto suo, ne ha piena consapevolezza solo nel momento in cui si innamora, sognante, del ritratto di Felicita: «Traugott era già sul punto di tornare nell’altra stanza, quando accanto alla porta vide un quadro che lo impietrì come un incantesimo. Ritraeva una fanciulla d’incantevole bellezza, vestita nell’antica foggia tedesca, ma in tutto e per tutto somigliante al ragazzo, tranne che per i tratti più floridi e l’incarnato più vivace; anche la sua figura sembrava più alta. Alla vista di quella splendida donna, Traugott si sentì pervadere da un’estasi ignota. Per forza e pienezza di vita il quadro eguagliava quelli di van Dick»[14]. Di fronte al dipinto gli si dischiude, manifestatasi come in uno specchio, l’immagine che portava nel cuore, gli si rivela una potenza interiore fino a quel momento sopita, l’impulso verso l’arte. L’estasi è ignota perché ignoto è il medesimo. Non si specchia forse Narciso nel medesimo, e dunque nell’oscuro? Che cosa ritrae il quadretto che in un episodio del Gatto Murr Johannes Kreisler mostra al principe, alla visione del quale quello fugge inorridito[15]?
Le immagini, poiché mettono in contatto con il medesimo (che non è l’identico) e con il lontano (lo straniero, colui che sopraggiunge, che prima non c’era) sono necessarie per renderci consapevoli della nostra capacità di visione e del nostro potere metamorfico, poiché anch’esse ci guardano e, indicandoci il baluginio degli sfondi e la luce oltre le nubi, la chiarita, ci accolgono mentre ci inquietano. L’amata Felicita, nella realtà, delude; diviene la moglie del consigliere; infine Traugott sposa Dorina, il doppio di Felicita («Si trattava della stessa immagine, dipinta ora da Raffaello e ora da Rubens»[16]). Ma ormai si è schiuso lo scrigno del suo destino di pittore.
In Hoffmann, come detta l’ideologia romantica, vita borghese e arte sono inconciliabili; lo scrittore goliardizza e ironizza, toccando punte di irresistibile comicità, però subisce l’insanabilità di codesto dissidio. In Mastro Martin il bottaio e i suoi apprendisti (Meister Martin der Küfner und seine Gesellen, 1818) dice Reinhold dell’amata: «Quando ho terminato il ritratto, dentro di me è calata la calma e spesso, curiosamente, mi sembrava che Rosa fosse diventata il quadro e che il quadro fosse la vera Rosa […]. Come potrebbe quella creatura celestiale che porto in cuore diventare mia moglie? No! Deve risplendere in tutta la sua grazia, bellezza e giovinezza nei capolavori creati dal mio spirito vivo»[17].
I personaggi si isolano o fuggono – in preda alla pulsione di morte, in un desiderio di auto-annientamento – dalla narrazione principale, per trovarsi nell’altra narrazione, quella ascoltata nel luogo in cui abita la «potente regina», la Donna possente degli abissi. Chi è costei che il protagonista delle Miniere di Falun, Elis Fröbom, incontra nelle profondità del sottosuolo? La Grande Madre? La Creatrice dei Fenomeni? La Morte? Persefone rapita da Ade? Oppure lo Spirito della Musica e della Poesia, quel «regno lontano che cinge i più strani presentimenti» in cui «poeti e musicisti sono fratelli»[18]? O forse l’eternità? Il mistero dell’essenza dell’arte?Magari tutto questo insieme?

Il film del 1951, I racconti di Hoffmann (The Tales of Hoffmann)di Michael Powell e Emeric Pressburger, tratto dall’omonima opera di Jacques Offenbach (Les contes d’Hoffmann), s’incentra sulla ricerca della donna eterna. Non è forse così anche per Don Giovanni (al quale Hoffmann, che ha cambiato il terzo nome in Amadeus in onore di Mozart, dedica una novella)[19]? E non si chiama proprio Johannes il suo kappelmeister? L’inesausta caccia del libertino non nasconde, forse, un desiderio “altro”, “oscuro”?
D’altronde, come leggiamo nelle Miniere di Falun, nelle «profondità più estreme» è forse possibile esplorare più nitidamente l’abisso che ci abita: «Se la talpa cieca scava la terra seguendo un istinto anch’esso cieco, può benissimo essere che nelle profondità più estreme, al debole bagliore della torcia da minatore, l’occhio dell’uomo veda in modo più chiaro, e anzi che alla fine, rafforzandosi sempre di più, sia capace di riconoscere nelle meraviglie della pietra il riflesso di ciò che in superficie giace nascosto sopra le nubi»[20]. Ma che cos’è il «raggio ardente» che trafigge Elis mentre la Regina potente lo cinge a sé e quella sensazione di «galleggiare tra le volute di una nebbia azzurra, trasparente, scintillante»[21]? L’obnubilare e il sotterrare nascondono raggi e bagliori. Non è l’abisso sosia della luce?
La novella, che trova molteplici assonanze con La montagna delle rune di Tieck, e che fu amata da Hofmannsthal, Schumann e Wagner, è ispirata a un fatto di cronaca. Il protagonista, inizialmente, è un marinaio. Dopo aver incontrato un vecchio minatore, prefigura in sogno ciò che gli accadrà, ovvero la sua fatale discesa nelle miniere; così in precedenza un vecchio timoniere della sua nave aveva presagito la propria morte: mentre si trovava febbricitante gli era occorsa la visione di un mare squarciato e di un abisso, creatosi dalla lacerazione, dove «orride creature del profondo si contorcevano e avvinghiavano tra loro»[22]. Dal canto suo, Elis sogna che il cielo si è mutato in una «volta di pietra nera sfavillante» e che una «massa solida, trasparente, lucente»[23] ha preso il posto del mare, trasformando l’acqua in cristallo. La «capacità prismatica di riflessione e moltiplicazione dell’immagine» di questo tipo di vetro lavorato, dotato di sonorità metallica, «amplifica a dismisura i piani del possibile»[24].
Analogamente in Doge e dogaressa, che inizia con l’ecfrasi del quadro omonimo di Carl Wilhelm Kolbe, le profondità marine di Venezia sono lo sfondo minaccioso con le sue «teste scintillanti»[25], il paesaggio originario in cui agiscono il doge Marin Faliero, la dogaressaAnnunziata elo spasimante (ricambiato) Antonio. I due innamorati, che finalmente vivono la loro passione proibita, soccomberanno, infine, travolti dalla tempesta.
È proprio del sogno essere l’angelo del destino, il suo messaggero, colui che parla un linguaggio “altro”, che udiamo obnubilato, poiché non è mai completamente traducibile o ricomponibile. Perciò sull’ignoto pende la spada di Damocle: il rischio è di perdersi nel richiamo, di sprofondare negli abissi, risucchiati dal grembo della Donna Possente, senza possibilità di risalita, cioè senza più la capacità di guardare in alto. La vista delle cime, tuttavia, si conquista attraverso l’estasi che abbaglia e pietrifica, ovvero per mezzo di un accecamento che cerca una veduta del proprio anelito, il desiderio del medesimo. Sicché, sostando nelle grotte (platoniche), guardando il fondo-sfondo dei crateri, soffermandosi sull’impulso – o a questo obbedendo ciecamente – di gettarsi, come Empedocle, nella lava ribollente, conosciamo un po’ di più noi stessi. Così nella novella Il consigliere Krespel, Antoine, «bella come un dipinto» e dalla «celestiale voce»[26], non può fare a meno di cantare, ben sapendo che a causa di una deviazione del torace, difetto di costituzione che ha impresso alla sua voce quel timbro ineffabile, il canto potrebbe esserle fatale.

Hoffmann scrive su una partitura, ricercando la nota perfetta e le sonorità degli sfondi. Tenta di rintracciare, attraverso i suoi personaggi, una melodia originaria, che il canto evoca e da cui sgorga, un principio di cantabilità, che egli vuole scovare e vedere.Ma come si può vedere l’essenza della musica, se non nel balenare tintinnante degli sfondi?
Il processo alchemico di fissazione e coagulazione, tipico del procedere artistico che inquadra l’oggetto della visione, è precipuamente evidente, in Hoffmann, nell’uso del ritratto e nel fenomeno di pietrificazione/cristallizzazione delle profondità. Come sottolinea Alessandro Fambrini, «lo specchio lucente (spiegelblanken Wellen) introduce, in posizione iniziale del racconto, un motivo chiave per la narrativa hoffmanniana: quello del riflesso e del doppio. Attraverso lo specchio si mette a fuoco il luogo parassiale in cui risiede il fantastico»[27], dove nulla c’è. Che è come dire: lì c’è tutto. L’infinito scorrere degli eterni, per dirla con Severino, balugina dietro maschere, specchi, o quadri.
Come in Don Giovanni, anche in Hoffmann non c’è memoria, ma leitmotiv, erotico musicale (in senso kierkegaardiano), che srotola il reale in un’infinità di spettri che raccontano storie e animano «misteriosissimi oggetti»[28]. Sembrerebbe invece esserci, nel fantastico, una memoria originaria che si rivelerebbe attraverso lo sfondo vertiginoso, astorico e affabulatore in cui si muovono i personaggi. Se l’arte in Novalis è iniziazione, accesso a un mondo mitico, la narrazione e la composizione sono per Hoffmann un infinito attraversamento di soglie, di quadri, alter ego, in un tempo sospeso, fiabesco, infante e demonico, che è esso stesso soglia e sfondo, infinita possibilità di rendersi manifesto, di “animarsi”, attraverso un rispecchiamento narcissico che fa affiorare il linguaggio dal più in fondo possibile, massimamente vicino al prodigio della Natura e al suo celarsi.
[1] Charles Baudelaire, Sull’essenza del riso e in generale sul comico nelle arti plastiche, Solfanelli, 2017, pp. 46-51 [cfr De l’essence du rire et généralement du comique dans les arts plastiques, in Oeuvres complétes (Opere complete), II, Gallimard, 1976, pp. 536-543]. Distinto dal comico significativo, il comico assoluto è il grottesco, è l’espressione sinonimica del comico innocente a un grado più alto.
[2] Gli elisir del diavolo, L’orma editore, 2016, p. 70.
[3] Cfr Gerhard Neumann, Anamorphose. E. T. A. Hoffmann Poetik der Defiguration, cit. in Doge e dogaressa, traduzione e commento di Giulia Ferro Milone, in I fratelli di Serapione, Roma, L’orma, 2020, tomo I, p. 348, nota 4; all’opera omnia di Hoffmann L’orma editore ha dedicato la collana, appunto, Hoffmanniana, diretta da Matteo Galli.
[4] Descrizione e desiderio. I quadri viventi di E.T.A. Hoffmann, Roma, Meltemi, 2005, p. 9.
[5] Augen–Blick der Animation, G. Neumann, Puppe und automate, p. 142, cit. in Schiaccianoci e il re dei topi, traduzione Riccardo Morello, commento di Matteo Galli, in I fratelli di Serapione, cit., tomo I, p. 214, nota 1.
[6] Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Napoli, Pironti, 1977, pp. 31-2.
[7] Lichtung, radura; dal verbo Lichten, diradare o, nel significato proposto da Luca Archibugi, dall’italiano antico, chiarita; la traduzione chiarita, che vuol dire precisamente radura, però conserva nell’italiano il significato di luce (Licht) contenuto nella parola tedesca Lichtung).
[8] E. T. A. Hoffmann, La casa desolata, (Das öde Haus, 1817), in Id., Automi, bambole, fantasmi, Roma, L’orma, 2022, p. 139; originariamente parte dei Notturni.
[9] Le Veglie sono ancora oggi di difficile attribuzione; Garzanti riconosce in Ernst A. F. Klingemann l’autore, invece Marsilio le pubblica come anonime.
[10] Matteo Galli, introduzione a E. T. A. Hoffmann, Notturni, Roma, L’orma, 2013, pp. XXIII-IV.
[11] Cfr. Zacharias Werner, in I racconti di Serapione, cit., tomo II, p. 349.
[12] La casa desolata, cfr. nota 8, p. 151.
[13] La corte di Artù, in I fratelli di Serapione, cit., tomo I, p. 147.
[14] Ivi, p. 161.
[15] Il gatto Murr, Roma, L’orma, 2016, p. 309.
[16] La corte di Artù, cfr nota 13, p. 169.
[17] Mastro Martin il bottaio e i suoi apprendisti, in I fratelli di Serapione, cit., tomo I, p. 456.
[18] Il poeta e il compositore, ivi, p. 86.
[19] La novella viene pubblicata per la prima volta sull’Allgemeine musikalische Zeitung nel 1813 e, in seguito, nei Pezzi fantastici.
[20] Le miniere di Falun, in I fratelli di Serapione, cit., tomo I, p. 182.
[21] Ivi, p. 196.
[22] Ivi, p. 187.
[23] Ivi, p. 184.
[24] M. Milner, Il gabinetto di ottica di E. T. A. Hoffmann, in La fantasmagoria. Saggio sull’ottica fantastica, traduzione di Giuseppe Guglielmi, Bologna, il Mulino, 1989, pp. 53-106, cit. in Le miniere di Falun, traduzione e commento di Alessandro Fambrini, p. 184, nota 1.
[25] Doge e dogaressa, in I fratelli di Serapione, cit., tomo I, p. 357.
[26] Il consigliere Krespel, in Automi, bambole e fantasmi, cit., p. 179; il racconto fa parte de I fratelli di Serapione.
[27] cfr R. Jackson, Il fantastico. La letteratura della trasgressione, traduzione di R. Berardi, Napoli, Pironti, 1986, p. 18: «Un campo parassiale è un’area in cui i raggi di luce sembrano unirsi in un punto dopo la rifrazione. In questa area, oggetto e immagine sembrano coincidere, ma in realtà lì né l’oggetto né l’immagine ricostituita risiedono veramente: lì non c’è nulla», cit. in Le miniere di Falun, cit., p. 176, nota 1.
[28] I fratelli di Serapione, cit., tomo I, p. 53: «E ora, mio caro Cyprian, voglio mettermi in ginocchio davanti a te! Ci hai dato prova di quali misteriosissimi oggetti siano i ricordi lontani».
In copertina: E. T. A. Hoffmann, Autoritratto come Johannes Kreisler in abiti da casa, 1915, acquerello originale, Staatsbibliothek, Bamberga (particolare)