Spesso gli artisti visivi adottano la soluzione più elementare (e massimalista). Anzi, negli ultimi due secoli, questa è stata spesso una loro prerogativa. A partire da Gustave Courbet – direi – su su fino alle neo-avanguardie, in molti hanno avvertito la necessità di rendere più semplice e diretto qualcosa che si era eccessivamente complicato. Semplificando io stesso, potrei addurre qualche esempio: quando le modalità di accesso alle esposizioni erano state gerarchizzate dall’accademia, Courbet si inventò – siamo nel 1855 – le Pavillon du Réalisme, auto-promuovendo la sua opera in contrasto con le istituzioni. Dieci anni più tardi, davanti alla complessità della prospettiva e della fotografia, Claude Monet e un manipolo di artisti decisero di semplificare la resa spaziale adottando una prospettiva “vissuta”, costruita con pochi e accennati indizi, in modo da non perdere la spontaneità dell’esecuzione en plein air. O, ancora, un quadro così radicale come la Composizione suprematista: bianco su bianco (1918) di Kazimir Malevich fu anche il risultato di una riduzione portata alle sue estreme conseguenze: se ciò che dovrebbe contare in pittura è la composizione e il tono, perché ostinarsi a camuffarli dietro a un soggetto figurativo?
Ma la domanda che mi sembra più cogente è: cosa prenderebbe di mira, oggi, un gesto così apparentemente anti-evolutivo come quello di questi artisti? Posto che qualche artista sia ancora disposto, come fecero i suoi predecessori, a miscelare coraggio e frustrazione, stanchezza e risolutezza, complessità e chiarezza, verso quale obiettivo si rivolgerebbe? Ebbene, non credo vi siano molti dubbi: l’aspetto che più ha subito una sofisticazione nell’età contemporanea è senz’altro il sistema dell’arte. Sorto (nella sua conformazione attuale) alla fine del Settecento, il sistema dell’arte ha raggiunto un livello di specializzazione e sviluppo pressoché onnipervasivo. Basterebbe osservare il colophon di una qualsiasi mostra per rendersene conto: l’arte è oggi mediata da assessori, direttori, curatori, conservatori, educatori, mass-media, social-media, tecnici, mezzi di trasporto specializzati, addetti stampa, spazi architettonici e via dicendo.
Di per sé una tale catena di mediazioni non mi appare negativa, ma va compreso quanto essa possa apparire un ostacolo insormontabile per un artista. Ogniqualvolta un’opera deve essere esposta, infatti, sono richiesti innumerevoli passaggi: un allontanamento non tanto dalle intenzioni originarie dell’autore – la cui sacralità è un mito sapientemente costruito dal Romanticismo e dallo star system – quanto dalla concreta finalizzazione dell’opera stessa.
Ciò che intendo dire è che il sistema dell’arte, proprio perché si configura come un dispositivo culturale, può essere un ostacolo di carattere sociale ed economico che impatta non solo sul pubblico ma anche sugli stessi artisti. Si tratta cioè di una vera e propria barriera, la cui dimensione andrebbe prima o poi sondata. Ad un artista si richiedono ormai competenze e risorse che son difficili da sostenere senza conferirsi una struttura aziendale e un salto di scala transnazionale: capacità nelle relazioni sociali, predisposizione al networking, mediazione tecnologica e discorsiva dell’opera, capacità di mobilitare fondi e finanziare i propri progetti, ecc.
Il paradosso che sto proponendo, insomma, è che dietro a molte avanguardie, se le si osserva in rapporto allo sviluppo tecnologico, comunicativo ed economico del loro tempo, ci sia stata in realtà una scelta non adattiva, anziché una logica di progresso e competitività. E che tale scelta, oggi, possa essere reiterata nei confronti dell’apparato di mediazione impiegato nel sistema dell’arte. L’idea che propongo, ovviamente, non è nuova: semmai è una rivisitazione – spero meno pretenziosa – di vecchi adagi della critica d’arte del Novecento (ad esempio quella che si è richiamata al “grande rifiuto” di Herbert Marcuse, alla rinuncia operaista, ecc.). Ma l’elemento interessante, in questo caso, non deriva dalle teorie; piuttosto dalle pratiche.

Così, sono stato colpito da una piccola iniziativa di due artisti (Francesco Carone ed Eugenia Vanni) che hanno avuto la saggezza di saper circoscrivere la loro azione: se una mostra comporta ormai un’ingente mobilitazione di capitali, tecnologie, risorse umane specializzate, la loro contro-deduzione è stata quella di ridurre la scala di tali iniziative. A Siena, in sinergia con la Contrada della Lupa, credo siano partiti da tali presupposti per dare vita al Museo d’Inverno (due stanzette sopra la trecentesca Fonte Nuova di quel rione). Se si eccettuano la grafica, le fotografie degli allestimenti e i banner (realizzati dal Laboratorio di sarte e bandieraie della Contrada), qualsiasi ruolo all’interno di questo micro-sistema è ricoperto dagli artisti: fungono da “direttori”, da “curatori”, soprattutto da proprietari delle opere (il Museo si prefigge di esporre le collezioni degli stessi artisti). Se qualcuno vuole visitare questo Museo, deve contattare Carone e Vanni, farsi aprire da loro lo spazio, farsi accompagnare – seppure con inappuntabile discrezione – in mostra, e così via. Al suo interno si accorgerà che gli oggetti d’arredo, persino i più funzionali, sono stati realizzati e donati dagli artisti coinvolti: una targhetta all’ingresso di Maurizio Nannucci, l’attizzatoio per il camino di Luigi Presicce, ecc. (l’ultimo oggetto a giungere in questo corredo – mi dicono – sarà un posacenere di Emanuele Becheri, l’artista la cui collezione è attualmente esposta nella mostra Emanuele Becheri. Autoritratti per una collezione).
Ciò che rende interessante questo esperimento è il fatto che esso non rifiuti tout court la mediazione, ma che la affidi in toto agli artisti. Una de-professionalizzazione delle mansioni che non risulta però una de-responsabilizzazione: non si rimuovono le funzioni necessarie a fruire una mostra, nell’ingenuità di poter disintermediare questo atto culturale, ma si cerca invece di riappropriarsene. A prima vista, calcando la mano sui cliché, il gesto potrebbe apparire come il trionfo ossessivo del perfezionismo artistico. Una forma di controllo totale che, anziché riaprire i giochi, li riporta all’origine, li obbliga alla fedeltà, li riconduce alla sovranità dell’artista. Per il verso opposto, invece, esso potrebbe sembrare l’ennesimo esperimento di auto-gestione in cui gli artisti provano ad aprire canali alternativi alle istituzioni, ecc. A mio avviso, però, ciò che è interessante del Museo d’Inverno è che non si possa incasellare bene in nessuna delle due opzioni. E ciò mi sembra evidente a partire proprio dalla mostra di Becheri.
Emanuele Becheri ha esordito una ventina d’anni fa, a partire da quella che si definiva, nel dibattito teorico, come la crisi dell’autorialità: le sue opere erano cioè l’esito di fattori incontrollabili da parte dell’artista, riprendendo una tradizione che affondava almeno sino a Marcel Duchamp. Compiuto un gesto incoativo, d’avvio, Becheri lasciava che l’opera si generasse in modo imprevedibile dalle sue premesse contestuali. Il risultato finale era pertanto la disattensione – diciamo così – verso qualsiasi controllo autoriale, aprendo di volta in volta il campo a fattori esogeni come il caso, l’improvvisazione, il processo fisico, la reazione chimica, ecc. In queste ricerche, l’artista si è spesso concentrato su un elemento fondativo come quello della traccia (in senso indicale), alla base del disegno e di ogni discontinuità segnica. Ha così ibridato i media e attraversato il loro campo espressivo, seguendo il principio dell’enjambement: il senso interrotto di una ricerca finiva per riversarsi nella successiva. Da questo atteggiamento è derivata una de-regolazione che lo ha condotto anche nel campo della musica, della sonorità temporale e dell’improvvisazione radicale. Specialmente in questo frangente, Becheri ha sperimentato in un ambiente artistico underground e marginale, senza per questo convertirlo nel soggetto delle sue opere. Da qualche anno, infine, si è attestato su una pratica che sembra poter sussumere tutti questi processi: la scultura. Qui, tutte queste ricerche sono ora riassunte nella resistenza alle sollecitazioni da parte della materia, nei fattori di casualità esecutiva, nell’interpolazione della cottura o della fusione. Semplificandole, certo. O – se si vuole – riducendone le mediazioni e i media, in un bisogno di chiarezza (non adattivo rispetto all’attuale contesto ipermediale).

Dunque, non è un caso che il Museo d’Inverno ospiti una mostra con le opere della sua collezione. Sono lavori realizzati da artisti sodali e che raccontano, per risonanza, aspetti diversi della sua stessa poetica. I disegni di Michelangelo Consani, realizzati ad ogni principio di giornata, raccontano dell’unicità (temporale, contingente, aleatoria) di ogni gesto – un assunto diventato irrinunciabile per Becheri. La scultura di Davide Rivalta di una ostinata dedizione alla materia figurale. Un intenso disegno di Luca Rento del sofisticato retroterra storico-artistico (qui riaffiorano tratti che Arturo Martini, a sua volta, vide in Amedeo Modigliani). E, ancora, l’inedito idolo di Carlo Guaita testimonia quella produzione laterale che caratterizza ogni artista: in questo caso, quell’aspetto magico che nel Modernismo è stato esorcizzato attraverso letture formaliste. Così come l’autoscatto di Paolo Meoni è testimone del modo di destrutturare la riconoscibilità di un medium a partire dalla corporeità e dalla materialità. Ciascuna opera dei dieci artisti presenti – ne ho citati solo alcuni – è insomma il segno di un dialogo, di un’intesa, parziale quanto profonda, che si raduna attorno a un artista: non all’artista, ma a uno fra gli artisti. In ogni caso, attorno a quello che è il contesto che conferisce una cornice a questa raccolta: per questo quasi tutti sono autoritratti ricontestualizzati, cioè frammenti di una possibile comunità o rifrangenze – non riflessi – di ulteriori autoritratti.

Ora, è proprio su quest’ultimo punto che vorrei concludere la mia riflessione. Ciò che Emanuele Becheri o il Museo d’Inverno – in questo caso, i due soggetti sono intercambiabili – rivendica non è il culto dell’intenzione dell’artista, la venerazione delle sue capacità di controllo e previsione. Non è, insomma, il recupero dell’autorialità. Semmai il fatto che l’autore sia da intendersi come un contesto: non egemone, non l’unico; ma in qualche modo una voce che è in grado di innescare narrazioni, modi di percepire, fenomeni da osservare che accompagnano l’opera nella catena di mediazioni che la attende. Attorno alla voce dell’artista, al reiterarsi della sua pratica, alla sua visione del mondo, si costruisce un’esperienza dell’opera che può reclamare l’importanza della mediazione altrui attraverso il paradosso della propria auto-sufficienza. L’esperienza che si fa al Museo d’Inverno è quella di una visita in dialogo con gli artisti, di un’incursione in una comunità fluida, dalle configurazioni variabili, ma radunata attorno al medesimo interesse. Certo, questa potrebbe anche rivelarsi un’obiezione: uno spazio auto-referenziale che si concentra solo sugli artisti; un accesso su richiesta che potrebbe filtrare a priori i suoi interlocutori (conoscenti, colleghi, persone già interessate all’arte contemporanea, ecc.), senza una vera efficacia democratica; un tipo di visita in cui i silenzi possono essere imbarazzanti e le opinioni franche inibite dall’ospitalità.
Ma siamo certi che questi siano difetti soltanto imputabili a questo particolare Museo? Io penso di no. E, in ogni caso, ritengo ci sia una contropartita molto interessante: tornare a visitare l’esposizione come un atto mediato dagli artisti, come prima dell’invenzione della mostra, visitando atelier o collezioni private; riassemblare un gruppo sociale (quello degli artisti) non sulle basi di un presenzialismo globalizzato; accettare un tempo di fruizione diverso, allo stesso tempo più dialogico e più concentrato.
Non credo ci sia nulla di auto-referenziale in questa scelta. Anche gli artisti possono riconoscersi come comunità e parlare di sé stessi, negoziando la natura dei loro legami. Si tratta solo di calibrare gli spazi, i tempi, i modi. E non è detto che, nel farlo, gli artisti non ci stiano, ancora una volta, raccontando anche qualcosa del nostro tempo.
In copertina: Veduta della mostra Emanuele Becheri. Autoritratti per una collezione, Museo d’Inverno, Siena, 2023. Foto: Ela Bialkowska OKNOstudio.