Ulysse e Michel-Ange sono due fratelli chiamati alle armi dal loro re. Un po’ legionari, un po’ vagabondi, combattono la guerra tra soprusi e violenze. Quando però ritornano a casa, da Cléopâtre e Vénus, quel mondo che volevano conquistare lo portano con loro chiuso in una valigia. Sotto gli occhi attoniti delle due donne si dipana una serie di cartoline illustrate: monumenti, paesaggi naturali, cattedrali medievali, animali, automobili, grandi magazzini e ancora e ancora. Ulysse e Michel-Ange hanno portato a casa un universo in formato tascabile.
Questa sequenza, tratta da Les Carabiniers di Jean-Luc Godard, dà forma a ciò che Susan Sontag chiama «esperienza catturata», ovvero la capacità della fotografia di appropriarsi della cosa fotografata. Alla luce delle relazioni pericolose che intercorrono tra l’occhio e la cosa guardata (si pensi solo al fenomeno della reificazione) è lecito chiedersi, nell’era dei selfie, cosa accade se a essere preda di questa caccia grossa è l’immagine di se stessi? E cosa sottende alla cattura quando ad essere cacciatori sono gli artisti? A rispondere ci pensa il nuovo libro di Gabriella Giannachi, Autoritratto. Storia e tecnologie dell’immagine di sé dall’antichità al selfie. Il volume segue un andamento diacronico in cui, per quanto il medium fotografico occupi una parte sostanziale, l’autrice passa in rassegna casi studio provenienti anche dalla pittura, dalla scultura e dalla video-arte, spostandosi dall’antichità ai nostri giorni con soluzione di continuità.
L’autoritratto ha infatti una lunga tradizione che intreccia sia l’evoluzione dei medium di rappresentazione che le pratiche di costruzione e determinazione del sé. In questo percorso l’elemento che risulta essere maggiormente implicato è la relazione che l’uomo auctor e agens intrattiene con la società. È evidente però che se nell’età moderna la rappresentazione del sé si lega perlopiù a una presa di coscienza individuale del soggetto – che viene indagato secondo una prospettiva ontologica e monolitica di un’identità in via di affermazione -, dal XIX secolo in poi la visione del sé rappresentato in forma di immagine diffusa si fa più complessa, abbracciando man mano fattori sempre più esterni al soggetto che rendono l’esperienza di cattura del sé un’esperienza primariamente economica da collegare agli andamenti di mercato. Ma procediamo per gradi.
È durante il Rinascimento italiano e olandese che l’autoritratto fiorisce per due motivi fondamentali: il ruolo dell’artista inizia a differenziarsi da quello del semplice artigiano, tanto da imporre nelle corti e nelle chiese una personale interpretazione della realtà e del sacro, e poi gli specchi – sempre più numerosi – assumono la forma piana, rispetto a quella precedente concava, che permette alla superficie di riflettere una fetta di mondo più ampia (non è casuale infatti in concomitanza lo sviluppo della prospettiva). In questa fase dell’autoritratto pittorico, la rappresentazione del sé è già il risultato della percezione di una temporalità complessa che si contamina di presente, passato e futuro simultaneamente. L’autoritratto nella sua mise en scène incarna infatti la componente performativa e documentativa del presente che diviene passato grazie all’intenzionalità dell’artista di farsi opera d’arte, nonché futuro nella socializzazione della propria immagine attraverso l’opera.

Van Eyck, Dürer, Tiziano, e poi Parmigianino, Sofonisba Anguissola, Artemisia Gentileschi, Annibale Carracci, e ancora Rembrandt, Diego Velázquez, Élisabeth-Louise Vigée Le Brun fino ad arrivare a Michelangelo Pistoletto, sperimentano la pittura per lasciare al mondo l’immagine di un sé che si costruisce attraverso l’opera in un dialogo costante con lo spettatore. Spettatore ideale e assente: almeno fino ai quadri specchianti di Pistoletto che traghettano l’autoritratto in un orizzonte tutto novecentesco che include chi guarda e chi è guardato in una sola dimensione spaziale e temporale. La costruzione del sé non è una pratica di svelamento a senso unico, dall’ombra non si arriva necessariamente alla luce attraverso una retta via, anzi già in Rembrandt (e fino a Francis Bacon) la costruzione del sé riflesso passa prima attraverso la dissolvenza dei margini, poi all’appropriazione di un’altra forma che si concretizza infine nell’immagine pittorica, concepita come altro dal corpo. Un corpo che si conosce e si definisce ormai mediante la sua immagine (basti pensare alle implicazioni psicoanalitiche degli autoritratti di Egon Shiele, probabilmente il grande assente dalla trattazione seppur ampia e approfondita).
Quest’ultimo aspetto costituisce l’asse portante della pratica dell’autoritratto attraverso il medium fotografico, che sposta definitivamente le lancette dell’orologio in avanti bloccandone la direzione. Dall’identità di un’immagine ontologicamente definita si passa alla frammentazione, al molteplice, al simulacro, nonché al funerale di un sé che è ormai completamente altro e altrove, lontano dall’immagine impressa su un supporto che gode ormai di vita propria. Questo processo accompagna la lotta a volte angusta a volte giocosa tra realtà e finzione di cui Marcel Duchamp fa scuola con la sua Rrose Sélavy. Una lotta che fa presagire ai suoi combattenti la conquista del cambiamento e di un nuovo spazio sociale, in cui la quotidianità si veste di una nuova dignità estetica insieme a ciò che di sommesso cova tra le pieghe del reale. Claude Cahun, Ana Mendieta, Francesca Woodman, Lynn Hershman Leeson, Valie Export, Cindy Sherman, Gillian Wearing, Zanele Muholi usano l’autoritratto fotografico per costruirsi e divenire soggetto riconosciuto a se stesse e agli altri proprio attraverso l’atto performativo fissato in un clic.

L’utilizzo del video non è da meno in questo processo di autoaffermazione, anche se – riprendendo Rosalind Krauss -, trattando lo schermo alla stregua di uno specchio, si rafforza la componente narcisistica legata alla pratica performativa che può essere colta soltanto attraverso la percezione altrui (come nei lavori di Vito Acconci). Tra gli artisti citati anche la giovane italiana Irene Fenara, nelle cui opere la natura relazionale e performativa del processo di auto-percezione incontra i sistemi di controllo, come le telecamere di video sorveglianza. A questo punto siamo in grado di capire cosa può succedere all’immagine del sé prodotta attraverso i selfie. Indubbiamente vi sono delle distinzioni: il selfie rispetto all’autoritratto presuppone il passaggio da una dimensione partecipata dell’immagine a una social, e si definisce infatti attraverso un rituale sociale che ha come presupposto la sua diffusione. Questo contribuisce alla costruzione di una personalità che si modella già consumatrice, fagocitata dall’economia dell’esperienza. Per quanto la pratica sia recente, Gabriella Giannachi si cala nella contemporaneità rintracciandone esempi nei lavori di Eva e Franco Mattes, Constant Dullaart, Rafael Lozano-Hemmer, Christopher Baker, Amalia Ulman, Erica Scourti, Cached Collective.

Quest’ultimo capitolo, in cui l’autoritratto si è fatto selfie divenendo di fatto capitale digitale, per essere compreso e conosciuto in tutti i suoi aspetti – tecnici ed etici – impone un ripensamento della fotografia. Questo è per lo meno il parere (e non solo per i selfie) di Andrew Dewdney che nel suo ultimo libro Dimenticare la fotografia pone l’accento sulla necessità di obliare le categorie attraverso le quali si è analizzato il medium fotografico fino a questo momento. Del resto, effettivamente, di quello scrivere con la luce è rimasto veramente ben poco. Il corposo volume di Dewdney, ricco anch’esso di casi studio, si immerge così in quella che viene definita la post-fotografia, ovvero il network image o immagine in rete, che indica la fotografia espansa o l’immagine computazionale o algoritmica. Questo modo di guardare l’immagine permette facilmente di spostare l’attenzione più in generale ai processi di rappresentazioni, rispetto a quelli fotografici come li abbiamo conosciuti sino a oggi. Questo perché – come sottolinea tenacemente l’autore – occorre analizzare l’immagine e il mondo visivo nella cultura in rete, in connessione con la codifica fotografica della realtà che interagisce a sua volta con le forze geopolitiche e biopolitiche globali.
Dimenticare la fotografia non significa allora proclamare l’ennesima morte dell’arte, ma avviare un approccio allo studio delle immagini che si affranchi dall’iper-specializzazione del mondo accademico e favorisca una «visione sinottica in cui le riflessioni sulle tecnologie e sulla vita culturale vadano a incentivare la regolamentazione dei media e delle telecomunicazioni». Se è vero infatti che un tempo la fotografia era una forza rivoluzionaria e radicale (come dimostra l’uso del mezzo nella costruzione del sé nelle pratiche femminili e femministe), ora può essere considerata di buon grado, a queste condizioni, una forza conservatrice.
Le pratiche performative relative all’autoritratto, in ogni caso, incidono in maniera più o meno significativa sui processi di soggettivazione: sia che si utilizzi il medium pittorico che quello video o fotografico (considerando le dovute differenze). In questa dinamica la rappresentazione del sé mette in contatto la sfera privata con quella pubblica, saldando il corpo sociale a quello individuale e simbolico. Fenomeno più recente, e molto più insidioso, è invece che le strategie di marketing entrino nel merito di questa auto-rappresentazione. Che questa caccia grossa prosegua, allora, tenendo conto che tra essere cacciatore o preda intercorre il tempo di un colpo di carabina.
Gabriella Giannachi
Autoritratto. Storia e tecnologie dell’immagine di sé dall’antichità al selfie
traduzione di Elisa Dalgo
Treccani, 2023
pp. 304, € 23
Andrew Dewdney
Dimenticare la fotografia
traduzione di Sara Benaglia
postmedia books, 2023
pp. 248, € 24
In copertina: Francesca Woodman, Untitled, New York, 1979.