I.
«Una caccia alle streghe»: ormai quasi non passa giorno in cui quest’espressione non appaia nei media, talvolta utilizzata in modo “pertinente”, per denunciare degli evidenti casi di persecuzione, ma molto più spesso impiegata in modo alquanto dubbio, invocata ad esempio da Trump per rivendicare la sua innocenza, o da altri personaggi pubblici per respingere delle semplici critiche. Alla luce di casi simili è difficile non chiedersi quanto chi parla di «caccia alle streghe» sia realmente consapevole di cosa è successo nei secoli passati, nei quali si stimano tra le quarantamila e le sessantamila persone (in larghissima maggioranza donne, tra il settanta e l’ottanta per cento) condannate a morte da diverse istituzioni cristiane, sempre in nome di una presunta ortodossia. Ad esempio, un dato che in genere è poco conosciuto è che la Svizzera, e più particolarmente la Svizzera Romanda, sia stata in assoluto il luogo in cui si è intervenuto con la maggior durezza contro presunte streghe e stregoni, con circa seimila sentenze capitali eseguite.

La Svizzera però è anche uno dei luoghi in cui la storia della “caccia alle streghe” viene oggi meglio studiata e forse non è allora un caso che proprio in Svizzera, al museo Photo Elysée di Losanna, in questi mesi sia stata organizzata On Mass Hysteria, l’ultima mostra di Laia Abril, coprodotta anche dal Museo della fotografia di Helsinki e dal BAL di Parigi. Qui infatti è precisamente questione dei comportamenti attribuiti a streghe, stregoni, indemoniati e indemoniate. Terza e ultima parte di una trilogia dedicata alla misoginia (nei precedenti capitoli erano state affrontate le questioni dell’aborto e dello stupro), anche in questo caso l’artista catalana, nata a Barcellona nel 1986, propone un lavoro estremamente documentato e ricco di spunti di riflessione: tanto a proposito della storia delle donne, dell’odio di cui sono state (e sono ancora) vittime e di come vi hanno reagito, che a proposito della storia della fotografia e del suo rapporto con le istituzioni mediche e politiche.

II.
Considerando prima questo secondo piano, per misurarne la portata conviene ricordarsi di un altro aspetto che per quanto ben noto è spesso trascurato: il fatto che la fotografia abbia avuto un ruolo determinante nel permettere alla scienza medica di codificare come una patologia l’isteria. Questo termine oggi non è più impiegato in ambito medico ma è stato a lungo al centro di accesi dibattiti, specie nella seconda metà dell’Ottocento; e solo nel 1987 è stato espunto dal DSM, il manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association. Riportiamo allora un breve brano di fine Ottocento sul quale ha richiamato l’attenzione Georges Didi-Huberman nel suo primo lavoro importante, L’invenzione dell’isteria, la sua tesi di dottorato pubblicata in Francia nel 1982 (e tradotta nel 2008 in italiano da Enrica Manfredotti per Marietti in un volume a cura di Riccardo Panattoni e Gianluca Solla): «Certo sarebbe meraviglioso poter creare delle malattie seguendo il proprio desiderio bizzarro e la propria fantasia, ma io non sono altro che il fotografo, colui che registra ciò che vede…». A pronunciare queste parole il 7 febbraio 1888, durante una delle sessioni del suo celebre seminario del martedì, non è stato un semplice fotografo, ma Jean-Martin Charcot (1825-1893), uno dei fondatori della neurologia moderna, a lungo Chef de service presso l’Ospedale della Salpêtrière di Parigi, e tra i medici più stimati e influenti del suo tempo. Per lui, come sottolineato da Didi-Huberman, il ricorso alla fotografia fu determinante nel cercare di rispondere a una sfida quasi insormontabile, ovvero all’impossibilità di studiare le malattie neurologiche con la stessa oggettività che caratterizzava altre discipline mediche. La fotografia avrebbe supplito nientemeno che all’impossibilità di vivisezionare i propri pazienti, divenendo non solo uno mezzo di documentazione e d’insegnamento, ma un vero e proprio strumento di laboratorio e di ricerca. Di conseguenza, Charcot si attivò sistematicamente per svilupparne le potenzialità: in particolare aprendo un laboratorio fotografico all’avanguardia all’interno della Salpêtrière e promuovendo una pubblicazione specificatamente dedicata alle fotografie: l’Iconographie photographique de la Salpêtrière. I volumi che la compongono raccolgono foto che intendevano documentare nel modo più preciso le diverse fasi che scandivano le crisi isteriche.
Eppure, come non poteva sfuggire allo stesso Charcot, l’oggettività offerta dalla fotografia restava limitata, anche perché la tecnologia disponibile all’epoca richiedeva lunghi tempi di esposizione. Ciò implicava che anche per le fotografie che potevano sembrare più spontanee e “naturali” fosse sempre necessario un complesso lavoro di preparazione, e spesso anche una forma di violenza, anche perché non era raro che si ricorresse all’ipnosi per evitare che i pazienti si muovessero durante la foto (o più precisamente le pazienti, visto che tra il 1875 e il 1880 un solo ritratto maschile appare nell’Iconographie photographique de la Salpêtrière). A ciò va poi anche aggiunto – ed è un aspetto essenziale – che tanto la fotografia che l’ipnosi si inserivano in un contesto nel quale sia il medico che le pazienti si ritrovavano costantemente a partecipare a una forma di spettacolo, che culminava proprio nelle sedute del seminario del martedì di Charcot, ospitate in un anfiteatro dove anche un pubblico esterno all’ospedale poteva assistere alle crisi delle sue pazienti.

III.
Ma torniamo a Laia Abril il cui lavoro, anche in seguito alla sua doppia formazione fotografica e giornalistica (studiando all’Università Llull di Barcellona e all’International Center of Photography di New York, prima di lavorare anche in Italia, per Colors, tra il 2009 e il 2014) si caratterizza per una grande attenzione ai documenti, che in questa mostra vengono proposti ai visitatori attraverso tre diversi dispositivi di montaggio, tutti volti a smuovere i pregiudizi che si possono avere attorno a quanto viene associato al nome di “isteria”.
Di questi dispositivi il primo è quello la cui struttura è più semplice, ma probabilmente è anche quello la cui presenza può risultare più sorprendente in un museo di fotografia, in quanto, almeno a prima vista, sembra escludere foto e immagini. Ciò che appare ai visitatori in questa parte della mostra infatti non è che un insieme di cartelle collocate una a fianco all’altra su delle grandi pareti. Ve ne sono oltre una sessantina e da lontano appaiono tutte identiche: tutte con all’inizio visibile solo una copertina in cartoncino beige sulla quale è posta una etichetta nera che ne descrive il contenuto. Basta avvicinarsi però, e iniziare a sfogliare i dossier, ed è subito evidente come ogni cartella sia molto diversa dalle altre in quanto, pur essendo ciascuna dedicata a un caso preciso riconducibile al fenomeno dell’isteria di massa, questi casi possono variare molto tra di loro.
Si va da una prima cartella contenente le scansioni di un libro ottocentesco sulle epidemie nel medioevo in cui è questione di ripetuti casi, accaduti tra il 1400 e il 1632, di suore che incominciarono a miagolare ed entrare in trance, fino ad un articolo del 2023 dedicato a un presunto caso di epidemia di «TikTok Tics». All’interno di questi limiti cronologici vengono approfonditi anche casi di letterale caccia alle streghe (in Francia e in Svizzera nel Quattrocento e a Salem, negli attuali Stati Uniti, nel Seicento), ma a interessare Abril sono soprattutto episodi che negli ultimi decenni si sono svolti in ambito scolastico nei più diversi paesi del mondo: dagli Stati Uniti a Hong Kong, dalla Malasya al Sud Africa, dalla Svezia all’Afganistan. Visitando On Mass Hysteria, si scopre così che non vi è quasi paese in cui non vi siano stati fenomeni collettivi di svenimenti, convulsioni, o di altri turbamenti. Precisiamo che pur trattandosi di documenti principalmente testuali, all’interno di alcune cartelle sono talvolta presenti anche delle immagini. La scelta di non renderle subito visibili permette tuttavia a Abril di resistere alla tentazione, purtroppo sempre molto diffusa, che porta al sensazionalismo e a estetizzare il dolore delle persone raffigurate (deriva in cui non sono invece mancati di incorrere intellettuali celebri come Breton e Aragon, autori nel 1928 del Cinquantenario dell’isteria, un breve testo che includeva diverse foto della Salpêtrière e nel quale l’isteria era apertamente celebrata come «la più grande scoperta poetica del diciannovesimo secolo»).

IV.
Quasi assenti in questa prima parte della mostra, le immagini sono però, per quanto sempre in modo non scontato, al centro del secondo dispositivo espositivo presente in On Mass Hysteria: un dispositivo questa volta sia visuale che testuale attraverso il quale vengono approfonditi tre casi, tutti piuttosto recenti, accaduti rispettivamente in Messico, a Chalco, nel 2007, in diverse località della Cambogia tra il 2009 e il 2022, e a Le Roy, nello stato di New York, tra il 2011 e il 2012. Il caso messicano e quello statunitense riguardano due strutture scolastiche: un collegio cattolico nel quale 600 ragazze persero la loro capacità di camminare correttamente, e una scuola superiore dove una dozzina di adolescenti incominciò a soffrire di spasimi muscolari e di tic incontrollabili, sintomi simili a quelli della sindrome di Tourette (dal nome di uno dei più stretti collaboratori di Charcot). Il caso cambogiano riguarda invece migliaia di svenimenti avvenuti in delle fabbriche tessili.
Si tratta quindi di casi piuttosto eterogenei, a ciascuno dei quali Abril dedica una specifica installazione con immagini raffiguranti sia elementi ricorrenti nella “storia dell’isteria”, che quelli specificatamente legati al caso considerato. Ad esempio, nel caso della scuola messicana (estremamente rigida: imponeva l’abbandono di ogni effetto personale e lunghe ore di preghiera in ginocchio, e puniva l’uso delle lingue indigene) è possibile trovare una foto di un’enorme adunata che raccoglie centinaia di persone apparentemente identiche (in uniforme e coi volti sfumati) allineate secondo una perfetta geometria, oppure foto di una statua della Madonna e di una maschera tradizionale messicana.
A proposito degli elementi d’ordine più generale, sono invece emblematiche tre immagini cliniche di un utero, realizzate per localizzare l’origine della rabbia, della tristezza e della paura. Da un lato sono evidentemente rappresentative del nostro passato: per secoli, da Ippocrate fino all’Ottocento, la medicina ha creduto che l’isteria dipendesse da un disturbo dell’utero. Per un altro verso, tali immagini sono purtroppo però anche attuali nella misura in cui ancora oggi spesso la sofferenza delle persone con sintomi associabili all’isteria è sottovalutata e banalizzata. Abril lo mostra anche con grandi pannelli che presentano sullo sfondo immagini in bianco e nero (sfuocate o tagliate) di donne coinvolte in questi episodi; mentre in primo piano, a caratteri giganti in rosso e in maiuscolo, sono impresse frasi rappresentative dei discorsi ufficiali che banalizzano i fatti accaduti riconducendoli a una presunta “fragilità” femminile. È il caso ad esempio di alcune frasi pronunciate dai manager delle industrie dove lavoravano le operaie cambogiane vittime di svenimenti. Le quali «indossano troppo make-up» o «svengono a causa dei loro sentimenti».

V.
L’ultima parte della mostra è costituita da un dispositivo ancora diverso dai precedenti, ma a sua volta molto semplice ed efficace. Ci troviamo questa volta di fronte a un insieme di schermi sui quali sono proiettati numerosi brevi spezzoni di video relativi a manifestazioni in cui le donne sono recentemente scese in strada, nei paesi più diversi (dall’Iran alla Polonia, dalla Francia all’India, dalla Nigeria all’Italia), per battaglie civili e politiche: ad esempio contro i femminicidi o in difesa del diritto all’aborto e all’istruzione. A prima vista l’inclusione di questi video può forse sorprendere: almeno nei discorsi ufficiali è difficile che si parli di isteria (e probabilmente le manifestanti preferiscono essere descritte con altri termini). La loro presenza è però giustificata se si pensa che Abril persegue esplicitamente l’obiettivo di rendere possibile una riappropriazione del termine “isteria”, cercando di liberarlo dalla sua connotazione solo negativa. Illuminante in questo senso è un’idea ripresa dallo storico della medicina Robert Woolsey e dall’antropologa Josefina Ramírez, secondo i quali «l’isteria di massa funzionerebbe come un “protolinguaggio” – ossia una risposta fisica, collettiva e non verbalizzata, che simboleggia la lotta delle giovani donne contro l’oppressione della società».

Come affermato da Laia Abril, in un’intervista rilasciata in una fase iniziale della realizzazione di questo progetto che può essere letta nel volume Prix Elysée 2018-2020, quest’idea l’ha portata a concepire il proprio ruolo come orientato a tradurre un simile protolinguaggio, ovvero le possibili manifestazioni fisiche attraverso cui un corpo può esprimersi quando non trova o deve rinunciare alle parole, in immagini.
In una simile prospettiva la presenza di quest’ultima installazione può allora risultare preziosa anche per riflettere più in generale su come la fotografia possa contribuire a una protesta di massa e a una lotta per l’emancipazione. Per chi partecipa a una protesta è vitale essere filmato e fotografato, ma il semplice fatto di esserlo non garantisce l’ottenimento di un qualche risultato. Anzi, succede spesso che le autorità contro le quali è rivolta una protesta predispongano forme di narrazione volte a sminuirla o a criminalizzarla, senza dimenticare le tendenze alla spettacolarizzazione, alla banalizzazione e al sensazionalismo che in generale caratterizzano i media. Evitare simili derive è tanto necessario quanto tutt’altro che semplice, e il lavoro di Laia Abril può servire a trovare un modo per farlo.

Laia Abril. De l’hysthérie de masse
Lausanne, Photo Elysée
fino al 1 ottobre 2023