Ogni forma di sapere nasce da una passione, da una posta in gioco reale o immaginaria in cui ne va qualcosa di importante, se non di decisivo, nella vita di un individuo. In genere, la passione per il sapere sorge nei lunghi pomeriggi di noia di un adolescente. Come all’improvviso, si ha la rivelazione che altri mondi si celino nelle pagine, nelle immagini, nei tanti oggetti che ci circondano. In quell’istante, si vive una sorta di estasi o di stato di grazia, per mezzo del quale la vita stessa assume un altro senso. Il mondo allarga la propria misura, aprendosi ad altre dimensioni. Ogni cosa si spalanca, diviene enorme, senza confini. Dal succedersi ripetitivo delle ore nella propria cameretta, dall’intra moenia, si passa all’istante della rivelazione, alla dismisura di un universo incerto e fluttuante, meravigliosamente sconfinato. Si varca una soglia e si inizia a vivere extra moenia, fuori delle mura. Si apprende, se così possiamo dire, che il mondo è una specie di abisso concentrico e che ogni singolo punto ne contiene altri, ogni singolo sguardo è l’aprirsi di molteplici visioni possibili. È la vertigine degli infiniti mondi che tanti hanno provato nel corso dei secoli.
Questa sovversione dei confini dell’abitudine, la possibilità di moltiplicare all’infinito la differenza di ogni istante da se stesso, di ogni cosa dalla sua immagine apparente e canonizzata, è la scaturigine di ogni specialismo: la ricerca senza fine. Pressoché inevitabilmente, però, lo specialismo dà origine, presto o tardi, a un contromovimento, quasi che, al massimo della sua forza centrifuga, si innescasse una torsione che, invertendo la spinta propulsiva ed estatica del sapere, riportasse l’individuo pensante a ricomporsi in un’identità ultradefinita (lo specialista) da indossare all’interno delle mura protettive di una disciplina che tende a farsi dottrina, con tanto di gerarchie piramidali, di totem e di tabù. Ed eccoci trasformati nella figura grigia dello specialista, del topo di biblioteca, del professore, dell’esperto mediatico. Lo stato di grazia è perduto e non resta che una sorta di coazione a ripetere, spesso connotata da passioni tristi, che in modo ossessivo non fa che istituire nuovi confini, nuove frontiere, nuovi steccati. All’interno di questo campo chiuso è sovrano il labour, la fatica o la meccanica ripetizione, senza più alcuno spazio per il nomadismo delle idee, delle esperienze, nessuno spazio per il puro dispendio senza ritorno. Non c’è più alcuna meraviglia, alcuno stupore, alcuna estasi. Si è diventati degli onorabili e stimati specialisti.
Se c’è una cosa che oggi, forse più che mai, è necessaria è darsi nuovamente la possibilità di uscire dalle mura, di divellere i valichi di frontiera, avventurandosi nell’eterogeneo mondo ulteriore, perdendosi nell’aperto. Solo un sapere eteroclito può strapparci dalla nostra noia, da questa prevedibile noia da adulti, così distante da quella adolescenziale, gravida di attesa, di mondi a venire. Solo l’esperienza di una radicale alterità, di un sapere debordante, può sottrarci al nostro asservimento, ai nostri specialismi. Per inoltrarsi in questa terra di nessuno, occorrerà, forse, non solo attraversare ma anche oltrepassare i confini di un’eterologia, come ebbe a chiamarla Georges Bataille. Occorrerà andare, forse, oltre le frontiere del logos e di tutte le sue forme codificate, oltre la razionalità, oltre la luminosità dei saperi. Sarà, forse, necessario trovare le parole e le immagini di un oscuro sapere, di un sapere senza conoscenza, nel quale il mondo divenga uno spazio vivente, sensibile, pensante, autonomo, anarchico. Paul K. Feyerabend, indicando la via di un simile sapere, usava l’espressione “anarchismo metodologico” che è, in qualche modo, un ossimoro. Ma è proprio questa dimensione ossimorica – che ci abbandona, senza punti di orientamento, tra l’esigenza di un metodo e l’assenza di un principio regolatore – ciò di cui, qui e ora, si sente più la mancanza.
Essere capaci – ancora o nuovamente, poco importa – di perdersi, di sovvertire, di dichiarare la propria diversità, senza attesa di nulla, di alcun riconoscimento, di alcuna approvazione, di alcun premio, di alcun attestato. Destinarsi, se è il caso, anche a una certa invisibilità nel tempo della visibilità assoluta. Eclissarsi, rendersi incomprensibili, per rispondere all’incommensurabile dell’universo, per porsi all’altezza del nulla originario, del caos che regna fuori delle mura. L’oscurità shakespeariana che riluce nella notte dell’esistenza di ogni essere vivente. La stella di Celan che spinge a parlare, a dire l’ultima parola. Le deliranti epifanie e le esegesi di Philip K. Dick. Le parole taciute di Wittgenstein. Le cieche speranze di Guido Ceronetti. I fuochi fatui che presto si eclissano. Solo alla luce evanescente di questi brevi istanti di grazia, nati da un sapere oscuro e gaio, le mura di ogni specialismo si sgretolano e la vita assume un senso. Solo in questa luce sospesa tra crepuscolo e aurora, tra rappresentazione e presenza, la posta in gioco del sapere assume tutto il peso di un’inesausta ricerca di felicità.
In copertina: J.M.W. Turner, A Hulk or Hulks on the River Tamar: Twilight, c. 1811-1814 gouache e acquerello su carta, 262×330 mm © Tate, London