Cheloidi: una visita al Maxxi

26/09/2023

Le macchine mitologiche s’innescano ovunque il desiderio s’inalberi e, zitto zitto, tenendo tesi i tessuti spugnosi, tenti di convincerci che, sì, c’è qualcosa là fuori e per di più ci parla. È lì, se seguiamo l’intuizione di Furio Jesi, è in quel momento, che la macchina mitologica prende il sopravvento e ci illude, operando uno scambio tra i materiali che abbiamo di fronte (che Jesi chiama appunto “mitologici”) e la cosa che però esiste solo nella nostra testa, o meglio nel nostro desiderio: è un mito.

Sapere che questa macchina c’è e opera non ci libera dalla possibilità di illuderci, anzi[1], tuttavia è uno strumento in più per scavare quella distanza critica, tutta interna ai processi desideranti in cui con agio e disagio viviamo, che serve per discernere il falso dal vero, il brutto dal bello, il cattivo dal buono, ciò che vorremmo che fosse da ciò che invece è. Perché la macchina mitologica funziona solo a contatto col desiderio, l’uno attiva l’altra, lei lo eccita e lo gonfia, lui la riempie di vita, fino a che qualcosa di autonomo non fa capolino da quella copula: il mito appunto. Qui, il mito da cui guardarsi è l’“Arte” come cosa sola, una e compatta. D’altra parte, è difficile negare che di fronte a me ho dei materiali “artistici” che mi invitano a provarci, a pensarla una, l’arte, e forse, persino (miraggio estremo della macchina mitologica o di quella museale?), vogliono che lo faccia.

Ci ho pensato per l’ennesima volta qualche giorno fa, mentre visitavo il nuovo allestimento della collezione del Maxxi, Fuori tutto, senz’altro molto utile per avere un’idea delle linee di tendenza all’opera nell’arte di questi anni. In effetti la collezione di un museo che ambisce a campionare l’arte del XXI secolo ti mette di fronte al fatto compiuto (e del resto ovvio) che arte vuol dire molte, forse troppe cose diverse tra loro; cose per lo più incompatibili. Al tempo stesso è come se ci schiaffasse in faccia il guanto della sfida: riesci a farne una di tutte queste cose? È allora che il desiderio s’ingrossa e sbuffa, preme per trovare un punto di unità che illustri perché “Arte” è questo ma anche quello, cioè qualcosa di più di una “cosa”, per parlar generico ma giusto, che si trova nei musei, nelle gallerie e nelle riviste specializzate (e qualche volta per strada), e di cui parlano per lo più i curatori, i critici, gli storici e i teorici dell’arte. Ed è qui che la macchina mitologica si attiva, Vorsicht!

Masbedo (Iacopo Bedogni e Nicolò Masazza), Protocol no. 90/6, 2018, videoinstallazione, courtesy Masbedo & In Between Art Film, vista dell’installazione al MAXXI, Roma, photo Roberto Apa

Neanche entro nella prima galleria della mostra che subito due opere mi precipitano nella vertigine desiderante. Si tratta di Protocol no. 90/6, del duo Masbedo, presentata nell’ambito di Manifesta 12, a Palermo, nel 2018, e Incontri in luoghi straordinari di Giulia Crispiani, presentata alla Quadriennale d’arte 2020 Fuori, dove ha vinto il premio Giovani Collezionisti. Entrambe sono state acquisite dal Maxxi successivamente. Si tratta di opere diversissime, per tecnica di realizzazione, concezione, e, mi sembra, idea di arte che c’è dietro.

Giulia Crispiani, Incontri in luoghi straordinari, 2020-2021, Installazione: carta, lino, cotone, vinile, cartone, photo Luis Do Rosario, courtesy Fondazione MAXXI

Per tecnica di realizzazione: Protocol no. 90/6 è un’opera audiovisiva della durata di alcuni minuti, che riprende i movimenti di un pupo, realizzato per l’occasione dall’Associazione Figli d’Arte Cuticchio, che tenta di compiere dei movimenti, e alcuni forse li compie, ma alla fine cade. Cade per ben due volte, facendo un rumore metallico molto forte. Il video è trasmesso in loop su una colonna di schermi alta alcuni metri. L’immagine è molto grande. Incontri in luoghi straordinari è un’installazione che nasce da una serie di lettere che l’artista ha ricevuto in risposta a una sua, inviata a sessanta persone durante il lock down. L’opera che vedo si compone di 4 elementi disposti nello spazio, che condividono tutti il carattere del “risultato”: su una parete, le fotocopie delle lettere di chi ha deciso di rispondere all’artista; su un’altra, alcuni estratti di queste lettere ricamati su tessuto; al centro dello spazio, un pallet di cartoni per la pizza su cui è stata stampata la lettera inizialmente inviata da Crispiani (la didascalia parla di altri 3000 cartoni come quelli, distribuiti in due pizzerie romane che li hanno utilizzati per la consegna a domicilio delle pizze – presumo, ma non è specificato, sempre in tempo di restrizioni); su una terza parete, la gigantografia di una lettera di risposta composta dalla stessa Crispiani estrapolando alcune frasi dalle lettere ricevute.

Per concezione: Protocol no. 90/6, a quanto apprendo dall’ampia didascalia, nasce da una ricerca condotta da Masazza e Bedogni nell’Archivio di Stato di Palermo, viene pensata per i suoi spazi e al suo interno viene esposta per la prima volta. Si tratta dunque di un’opera che dichiara la propria origine in un dato ambiente, si nutre di quell’ambiente, e di quello stesso ambiente intende diventare elemento. Al tempo stesso vuole trascenderlo: l’idea germinale proverrebbe dal ritrovamento di alcuni verbali che documentano un controllo effettuato, nel ’56, dai Carabinieri di Caltanissetta a un Vittorio De Seta sospetto di simpatie comuniste; l’opera riflette, giusta la didascalia (e in effetti alcune azioni del pupo lo lasciano pensare), sulla capacità dell’arte e degli artisti di comunicare le proprie idee. Ora, l’elemento più interessante è proprio che questo tentativo di comunicazione risulta continuamente impedito: non tanto perché a eseguirlo è un burattino di legno, né per l’uso della camera, che anzi ricorda lo sguardo di uno che si avvicina per capire, magari proprio per captare i messaggi di quello strano personaggio. È piuttosto la presenza, enorme, dello schermo a produrre un effetto di distanza singolare, paradossale, perché lo schermo scherma l’opera che incornicia e media. La cornice diventa così un’ampolla di plastica trasparente da cui non riesce a uscire altro che rumore. Incontri in luoghi straordinari: come ho già detto, l’opera nasce sotto Covid-19 e per un’iniziativa precisa che ha un forte carattere di scommessa: il progetto di opera potrà realizzarsi solo se un’altra o un altro deciderà di aderirvi. È poi un’opera che sceglie di trasmettere un messaggio esatto e univoco, utilizzando un medium fisico, in un momento storico in cui i corpi – biologici e non – sono il focolare del sospetto e i media digitali sembrano la sola soluzione percorribile per uscirne vivi. È un’opera che, tuttavia, smaterializza la propria origine: quello che si vede non ha nulla a che fare con il luogo e il tempo in cui è stata concepita, che sono presenti solo come narrazione e, per adiacenza cronologica, memoria collettiva. È un’opera in cui l’artista fa sistematicamente un passo indietro, per riprendere il controllo sulle cose solo parzialmente e solo dopo che altri vi hanno partecipato (con la selezione delle frasi da cucire, la composizione della lettera finale, la scelta di inviare i cartoni). Al centro vi è una critica sociale precisa e un progetto forte di costruzione di comunità e creazione di legami. Gli incontri in luoghi straordinari saranno pure incontri di carta, puramente immaginati, ma non per questo sono meno coinvolgenti, come attestano le risposte alla lettera di Crispiani.

Per l’idea di arte: tagliando con l’accetta, si potrebbe dire che, a dispetto della tecnologia dispiegata per la sua realizzazione, Protocol no. 90/6 è un’opera d’arte classica, mentre Incontri in luoghi straordinari è un’opera d’arte non-classica, nel senso che raccoglie quell’eredità novecentesca che ha tentato di pensare l’arte più come procedura che come un oggetto. In questa distinzione non si cela un giudizio di valore, si tratta, di un fatto. Provo a dare due o tre ragioni: intanto, Protocol no. 90/6 è un oggetto discreto, riconoscibile e compatto, mentre Incontri in luoghi straordinari non è un oggetto discreto e si presenta come un insieme di cose diverse, unite da un titolo e dalla relativa didascalia e dislocate in uno spazio preciso ma sufficientemente grande da poter ospitare me e altri visitatori. Poi, Protocol no. 90/6 è un’opera figurativa, in senso lato realistica, i cui elementi sono ben riconoscibili e riconducibili al mondo dell’arte (anche il pupo è un’opera d’arte in sé: in questo modo il video produce automaticamente un effetto di riflessione dell’arte su se stessa), inoltre è forte il carattere artigianale e tecnico dell’intero lavoro, dal soggetto alla cornice; Incontri in luoghi straordinari è un’opera installativa, i cui elementi non sono riconducibili al mondo e alla tradizione dell’arte, il tasso apparente di artigianalità e tecnica è ai minimi termini, e il suo realismo è estremo, cioè non è il frutto di una mediazione artistica. Questo fatto permette di introdurre un terzo elemento differenziale per cui sono propenso a pensare Protocol no. 90/6 come un’opera lato sensu classica e Incontri in luoghi straordinari un’opera non-classica: Protocol no. 90/6 è un’opera classica almeno perché rimanda ad alcuni ben selezioni elementi della realtà (a vocazione esemplare) mediati dalla tecnica artistica; così si produce uno scarto dalla vita e dalle cose ordinarie che trova il suo diretto correlativo nella pausa dell’osservatore (contemplazione).

L’opera segnala la sua “differenza” con il fatto stesso di esserci e di imporre la contemplazione: vuole esseree vuole essere riconosciuta come un’altra cosa. Incontri in luoghi straordinari impiega invece materiali prelevati direttamente dalla vita ordinaria, anonimi e largamente disponibili (carta, cartone, lino, vinile), senza mediazione e senza riflessione; l’opera si presenta come cosa tra le cose. Tuttavia proprio questo consente la riflessione e la mediazione e, alla fin fine, l’azione pure, un’azione in tutto e per tutto collettiva, che interviene con forza nella vita dei partecipanti. Insomma, se Protocol no. 90/6 è un’opera da contemplare, Incontri in luoghi straordinari è un’opera di cui la visitatrice accanto a me ha potuto dire una cosa così, più o meno: “certo, ha scelto proprio una grafia difficile, non si riesce a leggere niente”, segnalando l’urto e la delusione di fronte a un’opera che si nasconde tra le cose e che, per questo, non ci chiede di essere contemplata, ma di partecipare: o ci stiamo, e allora ci sforziamo di leggere (o di scrivere una lettera a nostra volta), oppure quell’opera non sarà mai un’opera perché non avrà messo in opera niente. Al contrario, Protocol no. 90/6 è ben riconoscibile come opera, è già in opera, anche se ci passo accanto senza contemplarla; anche senza di me.

Ora, dicevo, queste due opere mi hanno gettato nel desiderio vertiginoso di voler capire. La distinzione classico / non-classico funziona fino a un certo punto: è generica e non permette di trovare un punto di unità che non sia arbitrario. Inoltre, rischia di essere fuorviante: non è che l’arte classica è meno arte contemporanea dell’arte non-classica, anzi. Tuttavia, questa distinzione ha il vantaggio di indicare una divergenza, che è impossibile ridurre, e forse anche un punto di contatto: l’arte che ho chiamato “classica” è quell’arte che a partire, più o meno, dalla Rivoluzione francese, pur continuando a coltivare un forte carattere artigianale e tecnico, ha smesso di dipendere da un quadro teorico precostituito ed esterno e cominciato ad avanzare la pretesa di essere essa stessa uno sguardo autonomo sul mondo, uno sguardo la cui autonomia rivendica in modo talmente radicale da rifiutare per lo più la subalternità alle forme vigenti del sapere. Protocol no. 90/6 è un esempio di quest’arte, un’arte che significa solo se stessa rispetto ad altre forme di sapere, e pertanto si presta a essere utilizzata per le più svariate funzioni e finalità, almeno fintantoché qualcuno, didascalicamente, cioè autorevolmente, cioè gerarchicamente, non lo impedisca. A dispetto di quanto normalmente mi capita di leggere sulla “trascendenza” e la forza “rivelativa” dell’arte in genere (che poi, quando vai a leggere ben benino, ti accorgi che l’autore parla di questa forma di arte e non dell’arte in genere; sta cioè alimentando una mitologia), l’arte classica è radicalmente immanente: è un buco nero, assorbe tutte le letture che ne diamo, tutti gli usi che ne facciamo e gli sopravvive persino, intatta.

L’arte che ho chiamato “non-classica” sembra in qualche modo reagire, oggi almeno, all’arte classica. L’arte procedurale, l’arte installativa e altre forme di arte a cui, a causa di un’educazione fortemente classicista, capita ancora di scoprirsi poco abituati, dà spesso istruzioni precise su come farne uso e, anzi, punta a una paradossale “univocità aperta” che, mentre ci permette una piena comprensione di quello che (ci) dobbiamo fare (foss’anche uno spizzante: “facci quello che ti pare”) rendendoci padroni della risposta, non predetermina gli effetti di cui pure prepara la realizzazione. Uno degli obiettivi più frequentemente rivendicati da questa forma d’arte, si sa, è quello di “smediare” il rapporto con la realtà, facendoci avvicinare alla realtà; riappropriandocela. Questo implica altresì che opere del genere presentino un tasso di artigianalità mediamente inferiore a tutto vantaggio dell’aspetto progettuale e procedurale. Incontri in luoghi straordinari ne è un esempio, perché la sua interpretazione non spetta a noi, visto che già disponiamo di quella autentica, a noi spetta solo di partecipare all’opera mettendola in atto e, eventualmente, di sposarne il progetto politico. Quest’arte è radicalmente trascendente: procede strutturalmente al di là di se stessa, va fuori di sé, vuole essere usata, e se rimanesse chiusa in se stessa, se non venisse usata, perderebbe ogni valore e significato.

Proprio adesso la macchina mitologica potrebbe sferrare il suo colpo più duro. Fermiamola subito: Protocol no. 90/6 e Incontri in luoghi straordinari sono solo due esempi possibili di arte “immanente” e arte “trascendente” e, peraltro, parziali. Sono i materiali su cui si sta appuntando la mia riflessione, solo perché li ho avuti di recente a disposizione. Naturalmente mi hanno colpito e credo che esemplifichino molto bene due tendenze divergenti e oppositive nell’arte contemporanea, ma in mezzo e intorno c’è tantissima altra roba: non solo tanti gradi diversi di classicità e non-classicità, immanenza e trascendenza, disuso e uso (se queste categorie hanno un senso), e Fuori tutto ne dà un saggio, ma forse anche altre tendenze che non ho ancora incontrato, o che semplicemente non ho saputo riconoscere[2]. Se però inibisco la mia pulsione (ridicola prima ancora che mitografica) a esaurire l’arte contemporanea in queste due opere, le tratto finalmente per quello che sono: due casi materiali diversi di qualcosa che chiamiamo “arte”, allo stesso modo in cui due porte sono due casi diversi di qualcosa che chiamiamo “porta”. Il limite di questa analogia sta nel fatto che le due porte vengono unificate dalla funzione e dal funzionamento dell’oggetto (il predetto “qualcosa”), mentre i due casi di arte immanente e trascendente sono opere incomparabili (non c’è davvero un “qualcosa” che le unisca, sono un po’ come una porta e uno zaino); fanno cose diverse ed è inutile chiedere loro di funzionare allo stesso modo, non ci riusciranno. Il vantaggio è che mi permette di pensare l’arte senza scivolare nella vertigine universalizzante e reificante. Caso per caso si valutano le cose, perché volta per volta qualcuno presenta come “arte” qualcosa, cioè tenta di portarlo sotto il concetto “arte”, e qualcun altro dice sì o dice no, e proprio sulla base di quello stesso concetto, più o meno condiviso, ma certo ben presente nell’aria che respiriamo. Il “qualcosa”, allora, qui deve essere più un concetto che non una cosa come, per esempio, una speciale proprietà o una pratica o, ancora, quell’istituzione che fa coesistere (in un clima di pace artificiale quanto opprimente) gli incompossibili. Come ogni concetto, anche il concetto “Arte” è un luogo ricco di tensioni e conflitti, di antagonismi e processi, di storia.

Pensare che oltre il concetto di “Arte” non ci sia proprio nulla, ma solo una serie di materiali diversissimi su cui quel concetto si appunta, significa trovare il loro tratto di unione lasciandoli come tali. “Come tali” non significa però “omonimi”: non significa cioè chiamare “Arte” cose in realtà diverse, che andrebbero a rigore sotto nomi diversi. Sarebbe una mitologia opposta, che non terrebbe conto della storia dell’arte e del concetto occidentale di “Arte” (che è quello qui impiegato e, direi, oggi globalmente egemone). Una storia che mostra che qualcosa che non era e non poteva essere “Arte” a un certo punto lo è diventato proprio per via di uno stretto riferimento a quell’arte che presupponeva e da cui voleva distinguersi; ampliandone così il concetto in modo irreversibile. È a questa altezza che si deve riconoscere una sorta di continuità tra le diverse forme e tendenze dell’arte. Una continuità che appartiene ai materiali per via di quella storia che ci ha consegnato il concetto con cui li riconosciamo ugualmente “artistici”: anche quando non siamo capaci di dare conto di quell’uguaglianza che però non possiamo fare a meno di osservare, ormai.

La storia, si sa, si dimentica facilmente. Ciò che però è impossibile dimenticare, perché sotto gli occhi di tutti, sono i suoi effetti. Il concetto contemporaneo e vigente di “Arte” è un concetto ferito, anzi strappato, sfigurato dalla sua stessa storia. Basta vedere prima Protocol no. 90/6 e poi passare a Incontri in luoghi straordinari per accorgersene. Da che mondo è mondo, gli strappi, se a strapparsi è il tessuto della vita, si conservano nelle cicatrici. Nel concetto di “Arte”, la cicatrice che unisce e separa Protocol no. 90/6, Incontri in luoghi straordinari e le tendenze che esemplificano ha la forma di un cheloide.

Collezione Maxxi. Fuori Tutto
a cura di Bartolomeo Pietromarchi
sezione architettura a cura di Pippo Ciorra, Laura Felci, Elena Tinacci
sezione fotografia a cura di Simona Antonacci
MAXXI, Roma
fino al 25 febbraio 2024


[1] Basta leggere, per rendersene conto, il formidabile Gastronomia mitologica di Jesi, in Materiali mitologici, Einaudi, Torino 1979, pp. 174-182.

[2] A pensarci bene, lo schema polare che ho appena delineato è troppo rigido per crederci davvero. È senz’altro salutare provare a smascherarlo subito come il mythikos logos che colpisce la mia narrazione. Partiamo da un esempio: Gaddafi in Rome: Notes for a Film, di Alessandra Ferrini. L’opera mette in prospettiva critica il patto siglato tra Silvio Berlusconi e Muammar Gheddafi nel 2009 con il passato coloniale italiano. Così, di fatto, costruisce una sorta di “video saggio” mediante cui “disseziona” la storia coloniale e il presente postcoloniale italiani (è l’artista a dichiararlo qui: https://www.alessandraferrini.info/gaddafi-in-rome-film). In questo modo, si compie un gesto certamente autonomo, ma è un’autonomia diversa e meno radicale (cioè, non particolarmente interessata a qualificare i fondamenti di tale autonomia) di Protocol no. 90/6; siamo poi di fronte a un’arte dall’impatto politico e sociale, ma in un senso diverso e, anche qui, meno radicale (cioè, con un interesse minore per i fondamenti della socialità e della politica) di Incontri in luoghi straordinari. In realtà, mi sembra che Gaddafi in Rome faccia un’altra cosa ancora: un’inchiesta. Si tratta a tutti gli effetti di un modo di operare comune anche ad altre esperienze artistiche (si pensi al ben noto lavoro di Forensic Archictecture), il cui fine è la produzione di opere che abbiano, a fianco al valore estetico, un valore documentale in sede giudiziaria e/o storiografica. Una tendenza recente, “investigativa”, che il sistema dell’arte contemporanea non ha tardato a recepire.

In copertina: Masbedo (Iacopo Bedogni e Nicolò Masazza), Protocol no. 90/6, 2018, videoinstallazione, courtesy Masbedo & In Between Art Film, vista dell’installazione al MAXXI, Roma, photo Roberto Apa

Marco Tedeschini

(1984) insegna estetica della comunicazione all’Università di Roma “Tor Vergata”. Si occupa di estetica, teoria della conoscenza, filosofia delle emozioni. Dal 2017 dirige, insieme a Francesco Verde, Syzetesis – Rivista di filosofia. Ha pubblicato diversi articoli su riviste scientifiche e due libri: “Il conflitto estetico. Teoria del disgusto”, Lithos, Roma 2018 e “Adolf Reinach. La fenomenologia, il realismo”, Quodlibet, Macerata 2015. Suoi interventi critici e culturali sono apparsi su “Poesia del nostro tempo”, “Le parole e le cose 2”, “Che Fare”.

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