Jacques Roubaud, l’immagine inghiottita dal respiro

22/09/2023

Pronunciare un nome significa farlo esistere all’interno di un mondo possibile. Si tratta di un mondo che può corrispondere a quello cui appartiene chi parla; può coincidere o meno con quello che si suole chiamare “reale” (ma reale per chi?); può sussistere come mera sequela di grafemi e fonemi privi di qualunque referente, o che al contrario si riferiscono a un referente, che a sua volta può possedere un diverso statuto di realtà rispetto a chi proferisce ma anche a chi riceve il nome.

Quale senso possiamo attribuire al dire il nome di chi è stato, non è più e non potrà più dire, anche se le sue parole sono diventate “discorso”, cioè parola pronunciata attraverso la voce di chi legge, proprio a partire dal suo non-esserci?

Quelque chose noir del poeta francese Jacques Roubaud – tradotto come Qualche cosa nero da Domenico Brancale e Tommaso Santi per i tipi di Ibis-Finis Terrae – prova a dire che non è più possibile articolare un nome: Alix Cleo Roubaud (nel testo di Jacques Roubaud il secondo nome di Alix, come in molte altre testimonianze grafiche, appare non accentato). Questo nome viene indicato per intero solamente una volta – con una determinazione scandita dalle sillabe, dalle spaziature testuali, dalla punteggiatura assente che si fa respiro per non soffocare – all’interno della raccolta poetica di uno dei protagonisti più importanti dell’Oulipo, uscita originariamente nel 1986 a 30 mesi dalla morte notturna della moglie trentunenne, fotografa in ascesa e sofferente di una grave forma di asma sin dall’infanzia.

Il titolo è una variazione a partire dalla sequenza fotografica più importante realizzata in vita da Alix Cléo Roubaud nel 1981, esposta in maniera completa per la prima volta nel 1983, post-mortem, ai ‘Rencontres photographiques d’Arles’: Si quelque chose noir è una serie di 17 fotografie la cui corretta successione è stata ricostruita solo in tempi recentissimi, grazie alla cura di Hélène Giannecchini, alla quale si deve anche la prima mostra interamente dedicata alla fotografa, allestita presso la BnF tra il 2014 e il 2015. In questa serie, l’artista disloca, attraverso lunghe esposizioni e una complessa stratigrafia di effetti ottici sviluppati in camera oscura, la propria morte – e in un’immagine anche quella di Jacques Roubaud. In una stanza buia – una letterale “camera oscura” che si trasforma a poco a poco in “camera ardente” – Alix si moltiplica secondo un effetto di autovisione: il suo corpo, ora in piedi ora rannicchiato vicino alla finestra da cui filtra la luce e su cui si sovrappone anche il volto di lei bambina, progressivamente si osserva mentre giace in evidente posa mortuaria sul lato opposto della stanza, inscritto tra due fasci luminosissimi, quasi a disegnare un’ipotetica – quel si del titolo – teca nella quale autocontemplarsi, come fosse una Venere anatomica in chiaroscuro non a disposizione (solo) dello sguardo altrui, bensì del proprio. Ma non c’è autocompiacimento, né da parte di lei né da parte di Jacques Roubaud che ne ricostruisce i contorni nel puro grafema della parola poetica. Si tratta, piuttosto, di una tensione logica e controfattuale nell’esibizione dell’essenza fotografica. Perché Alix Cléo Roubaud è stata anche una teorica della fotografia, che nello stesso momento in cui Roland Barthes sanciva il noema fotografico in «ça-a-été», proponeva una struttura temporale differente: «le moment de la prise photographique est vécu comme un futur antérieur: ceci ne sera plus quand vous le verrez», così scrive lei stessa nel dicembre 1980 in Toutes les photographies sont des photographies d’enfance, un breve testo composto a latere delle riprese di Les Photos d’Alix, film di Jean Eustache sull’opera di Alix Cléo Roubaud che si aggiudicò il premio César per il miglior cortometraggio nel 1982, all’indomani del suicidio del regista.

Les Photos d’Alix, regia di Jean Eustache (1980)

Jacques Roubaud, che tutto ha letto di Alix in vita (i saggi, le lettere, i tentativi letterari, perché Alix era anche scrittrice) e in morte (è lui a curare nel 1984 la pubblicazione di una selezione dai diari di lei, ripubblicati con importanti aggiunte nel 2009 con il titolo Journal (1979-1983), edito da Seuil, aperti per sua stessa ammissione solo dopo la scomparsa della moglie, non può che para-frasare, ovvero dire accanto, alle parole e alle immagini dell’altra. Allora, ecco che in alcuni componimenti vertiginosi – Vertigo è il titolo anche di uno scatto di Alix – il poeta dà letteralmente corpo alla voce impossibile della giovane donna, puro phantasma e pneuma, soffio che sfugge all’afasia della morte recuperando il proprio respiro e le proprie, di parole.

Les Photos d’Alix, regia di Jean Eustache (1980)

Esperimento: confrontare il testo di Jacques Roubaud (Roubaud 2023:178) «Toutes les photographies sont moi » (che proponiamo in corsivo per meglio distinguere le due voci) con alcuni passaggi dello scritto teorico di Alix Cléo Roubaud a partire da Les Photos d’Alix, che per comodità indicheremo tra parentesi quadre poste accanto ai versi con i quali si crea un effetto rebound:

« Toutes les photographies sont moi »  [Toutes les photographies sont moi. Toutes les photographies que je prends sont moi en ce simple sens que tout fabriqué (produit, travail) contient le fabricant (producteur, travailleur).]

«

Périssables, sentimentales, moi-même périssable  [La photographie est elle-même périssable]

Tout ce qu’on risque de perdre. te le donner. tu vas le perdre. [Tout ce qu’on risque de perdre […] il faut les photographier.]

Je ne ressemblai pas toujours au monde. [Parce-que la photographie ressemble au monde à s’y tromper

J’ai été le monde, moi aussi. [et moi je ne ressemble pas toujours au monde. […] Je ne vois pas porquoi je ne sui pas le monde, moi aussi.]

Ressemblante, à s’y tromper. [Parce-que la photographie ressemble au monde à s’y tromper, et pas toujour à moi]

Je ne dissipe pas l’ombre de l’oubli. je m’essaye à briller d’éclat hors de la mémoire. contrebande indiscernable du souvernir pur.

Entre, assiste à mon enfance intérieure, au deuxième côté du temps. [les photographies d’enfance ne sont pas des souvenir d’enfance; on n’atteint, par la photographie, à son enfance intérieure, qu’en la remettant en scene.]

»

La sensazione è di trovarsi di fronte a un ventriloquismo – marcato ulteriormente dalla presenza delle virgolette – che mette in forma il pensiero di Alix non solo sul piano del contenuto, ma anche su quello microstilistico della punteggiatura. Una caratteristica del Journal dell’artista – nel quale la tensione formale esibisce una volontà scoperta di misurarsi con il medium letterario – consiste nell’uso di segni di interpunzione senza spaziature, il cui effetto è particolarmente straniante sulla pagina stampata in francese; quando la lingua oscilla verso l’inglese – Alix era canadese, dunque perfettamente bilingue, oltre a saper padroneggiare altri idiomi a partire da una vita raminga, risultato dell’occupazione da diplomatico del padre – la puntatura svanisce, avvicinandosi a esiti modernisti a lei noti. In Quelque chose noire Roubaud non ripropone gli stilemi punteggiati di Alix, ma ugualmente deforma la pagina con campiture di bianco intraverso, con lettere minuscole che seguono punti fermi, a significare, anche, la rottura di qualsivoglia possibilità di ordine dopo la catastrofe.

Buona parte dei componimenti sembra prendere le sembianze dell’elegia, dove il poeta ricorre in maniera sistematica al «tu» mentre è intento nell’atto, dolorosissimo, dell’osservazione luttuosa: come se fosse la struttura speculare (e di reduplicazioni e giochi di specchi le sue fotografie sono piene) del diario di Alix Cléo Roubaud, in cui l’autrice era solita rivolgersi proprio a Jacques. Le mani, i seni, il sesso dell’amata vengono nominati nell’atrocità del desiderio proibito dalla morte.

Le numerose ecfrasi delle immagini fotografiche, talvolta pienamente riconoscibili nel testo grazie alla presenza dei titoli, paiono allora miniaturizzare e verbalizzare il funzionamento di un buco nero astronomico. Il buco nero è tale perché il suo campo gravitazionale è così potente da catturare anche la luce, comprimendo la materia, spaghettificandola in una densità che noi siamo in grado di osservare solamente come una proiezione violenta di luce distorta (nella forma dei quasar) che proviene dal passato – buona parte dei buchi neri registrati dai telescopi si riferisce agli albori dell’universo, dal momento che la luce impiega svariati miliardi di anni luce per giungere a noi. Ecco, le fotografie di Alix Cléo Roubaud dette per bocca di Jacques Ruboaud sono esattamente questo: «qualche cosa nero che si richiude.  e si sigilla. una deposizione pura, incompiuta» e che pure si sprigiona violentemente dal passato, dal «non c’è più» che giunge fino a noi con la luminosità della traccia dell’esistito, che è vera proprio perché afferma la sua negazione, perché è indice inequivocabile del non-è.

L’autenticità dell’immagine non è negata, ma spostata. Ciò che è completo ciò che si mostra ma ora lo nega.

L’istante della morte carico dell’invisibile.

«Dire è la nostalgia di mostrare».

Irrimediabilmente esiliata dalla mia vista. dalla tua immagine.

Che, lei, non dirà più niente.

Non è allora casuale, ma scelta consapevole quella della copertina dell’edizione italiana, che non presenta alcuna fotografia, bensì un’opera dell’artista Sophie Ko, intitolata Geografia temporale. E quando miro in cielo arder le stelle (2021). L’immagine cosmica è prodotta dalla cenere di immagini bruciate, che non sono più nella loro forma originaria, che sono polvere eppure traccia ancora capace di riverberare una luce virtuale, ipotetica, che proviene da un mondo possibile.

Della (non) coincidenza fra parola e immagine, e delle vertigini di senso che si stabiliscono fra reale e virtuale era pregno anche Les Photos d’Alix: mentre Alix Cléo Roubaud racconta una serie di suoi scatti a Boris Eustache, a poco a poco tra le parole e le immagini mostrate si crea uno iato stridente, perché le une non corrispondono evidentemente alle altre. «Ce film: dire et montrer ne collent pas; en les décollant on produit un déplacement de fiction faits inexistants/verité (faits existants)», così scrive lei con echi wittgensteiniani nelle note preparatorie al film come riporta Hélène Giannecchini nella monografia dedicata all’artista Une image peut-être vrai (Seuil 2014).

Tre poesie della raccolta di Jacques Roubaud – intitolate rispettivamente Roman-photo, Roman II e Roman III – mettono in scena la conflagrazione di mondi possibili – una delle ipotesi sui buchi neri è che in loro corrispondenza ci possa essere un buco bianco in un universo parallelo. In alcuni di questi mondi, la giovane moglie del protagonista (un uomo senza nome) non è morta. Altrove, lei è in grado di telefonargli – la voce e il respiro di Alix, che aveva intitolato uno scatto realizzato a partire dalla sua respirazione asmatica Quinze minutes la nuit au rythme de la respiration. Il «tempo di ogni mondo possibile è il presente»: ma futuro anteriore e passato collassano, come in un buco nero, nel tempo del lutto, e luce e nero sono l’unica verità possibile.

La scrittura di Jacques Roubaud in Quelque chose noir prova a fare quello che per Alix Cléo Roubaud sa fare la fotografia, che è di per sé stessa sentimentale: «la photographie est sentimentale car l’amoreux (-se) est collectioneur de l’aimé (-e). Elle ne chante pas, elle ne célèbre pas, elle dit. […] C’est pourquoi la photographie de l’amour […] est celle d’un amour qui est toujour amour de loin» scrive Alix (la parte è sottolineata nell’originale del Journal). Jacques Roubaud non celebra, non mitizza, non idealizza. Dice l’immagine che non può più dire dell’esistente, che nega proprio nel momento in cui afferma, testimonia, lacera: «la negazione di te non si opporrà quindi all’affermazione (non sei) ma al niente che precede la mia parola».

E infine, in questa catena verbo-visiva, in cui il paradosso dell’immagine fotografica e di quella poetica si tengono sul bordo del nero, si inserisce una voce ulteriore, quella di chi traduce e che sapientemente, nella breve nota al termine del volume, recita: «Ogni parola ha conosciuto il tempo in cui è rimasta muta per parlare».

Jacques Roubaud
Qualche cosa nero
a cura di Domenico Brancale e Tommaso Santi
Ibis, 2023, 270 pp., € 18

In copertina: ph. Alix Cléo Roubaud, Si quelque chose noir (Saint-Félix, 1980)

Beatrice Seligardi

è ricercatrice (RTD-a) in Critica letteraria e letterature comparate presso l’Università di Sassari. I suoi interessi di ricerca si concentrano sulla teoria letteraria, la morfologia delle forme e i rapporti tra letteratura e visualità. È autrice di tre monografie: “Ellissi dello sguardo. Pathosformeln dell’inespressività femminile dalla cultura visuale alla letteratura” (Morellini 2018), “Finzioni accademiche. Modi e forme del romanzo universitario” (Cesati 2018) e “Lightfossil. Sentimento del tempo in fotografia e letteratura” (Postmedia Books 2020). Fa parte della redazione di “Between” e del direttivo di Compalit (Associazione di Teoria e Storia Comparata della Letteratura).

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