Speranza nella disperazione. Il carteggio Celan-Szondi

21/09/2023

Nel loro incontro lungo undici anni, Paul Celan e Peter Szondi hanno cercato l’esattezza. Il bucovino e l’ungherese di lingua tedesca, figli di un’Europa esaurita dalla geopolitica, vittime in prima persona della persecuzione nazista, si sono scritti, cercati, ma soprattutto giustificati e rettificati, finché è stato possibile. Fino alla scelta di entrambi della morte per acqua, a distanza di un anno o poco più, tra il 1970 e il 1971. Il poeta che tenta di dire la Shoah e il critico che raccoglie l’eredità di Walter Benjamin (di cui è tra i più precoci lettori, della generazione dei non-contemporanei) si conoscono a Parigi, hanno amici e conoscenze comuni, come Adorno, Jacob Taubes e il grecista Jean Bollack (figura di rara importanza nel suo campo, nonché autentico Mittler tra i due), si vedono in quattro diversi paesi.

Eppure il carteggio Celan-Szondi è esiguo. Centodieci tra lettere, cartoline, dediche, telegrammi, per un totale scarno di una settantina. La sensazione è che il non-scritto, ciò che evade la lettera, sia più importante. È questo uno dei casi in cui pubblicare un carteggio deve svelarne i presupposti, le allusioni, il contesto attorno ai testi: deve sceverare nel detto le dosi ampie di farmaci o veleno con cui i due interlocutori si intossicano o provano a salvarsi, a volte insieme, a volte da soli. Per questo alle comunicazioni epistolari si aggiunge un apparato imponente di note, supplementi, documenti, editi da Christoph König e ora, a distanza di quasi vent’anni, riproposti in italiano per la cura attenta di Luca Guerreschi, che chiariscono il dietro le quinte di ogni missiva, di ogni comunicazione a volte concretissima (gli orari dei treni per Heidelberg, gli indirizzi sempre diversi di Szondi in giro tra Francia, Usa, Israele, dove andò invitato da Scholem). Perché dietro lo scritto ci sono battaglie personali e culturali che meritano, sessant’anni dopo, nuova luce.

Si può partire da un gioco di contrasti che solo la cruda scansione cronologica epistolare regala (al netto di atti e fatti intercorsi – visite, colloqui de visu, telefonate – che non lasciano traccia e darebbero tutt’altra impressione). Mentre il 4 e il 30 agosto del 1960, dalla Sils-Maria di Nietzsche e Rilke, giungono giocose a Celan tramite Szondi cartoline collettive («il cerchio si chiude – Jean Bollack e Peter Szondi, e lei è presente nel nostro conversare», gli scrive Taubes, oppure «carissimi saluti, le sue Gretel Adorno /Wibke v. Bonin»), nella puntata successiva Celan riporta il loro rapporto al dato esatto: «A Peter Szondi, con cordialità e naso ricurvo, naso ricurvo e cordialità». La krumme Nase è il punto in cui i destini si sono incontrati, generando cordialità, senza nulla togliere all’abissalità della condivisione. Quella dedica accompagna infatti il frutto di quell’estate a Sils, l’estratto di Conversazione in montagna,il racconto che Celan pubblica nel 1960 di un incontro mancato – quello con Adorno, non solo il filosofo dell’impossibilità della poesia dopo Auschwitz, ma anche l’ebreo che ha rinunciato al suo cognome. Quel dialogo immaginario cominciava con l’immagine di un ebreo in cammino: «e con lui camminava il suo nome, l’impronunciabile». Naturalmente Celan conosceva la difficoltà di portare il proprio nome: in un abbozzo di lettera a Szondi mai spedito, dai toni duri («lei sa quale fiducia Le ho accordato») e nitidi («esiste un mondo dello spirito che ci toglie bensì la speranza, ma ci dà la certezza», diceva citando Kafka), Celan si firmava «Paul Antschel, false Paul Celan».

Nei nomi Szondi e Celan camminano insieme: si firmano Peter e Paul, ma dandosi sempre del lei. Il percorso è da subito un’amicizia: nel settembre del 1960 Celan gli dedica tre strofe di Argumentum e silentio, in cui la notte giace «tra l’oro e l’oblio» (è il verso che dà il titolo al volume italiano), chiosando «in gratitudine, in amicizia». E il cuore di questo rapporto è una battaglia culturale attorno ai nomi, alla necessità di dirli e considerarli tali.

C’è però nel dialogo anche un’ipotesi di gerarchia, come indica König nella postfazione, un’aspirazione di Celan al dominio, che alla fine vede Szondi «indebolirsi di fronte al poeta». Si parla sempre, ne va sempre della poesia di Celan. Assente ogni nota di lettura inversa: Celan non parla degli scritti di Szondi che pure riceve. È Szondi a cercare ascolto, semmai, senza trovarlo: nell’aprile del 1961 gli rivela che la scrittura gli riesce difficile – «non sto molto bene», ammette per la prima volta alludendo alla crisi depressiva che l’ha colto «nonostante i “successi”» – e che il lavoro «sarebbe un rimedio, se soltanto ne fossi all’altezza». La risposta di Celan trascura ogni segnale di Szondi, ne ignora il cenno a Hölderlin – il cuore del corso che teneva Szondi a Berlino, che si suppone dovesse interessargli –, e si concentra sulla vicenda che lo riguarda da vicino, che va a incidere su ciò che König chiama “idioma”, dove «l’elemento lessicale diviene individuale». Una vicenda che occupa una parte decisamente maggioritaria del succinto carteggio: l’affaire-Goll, ovvero la campagna di diffamazione ai danni di Celan avviata nel 1953 dalla vedova di Ivan Goll, Claire, con una lettera circolare a editori, critici e giornalisti, e proseguita poi, nell’aprile 1960, con un articolo famigerato: Cose che non si sanno di Paul Celan, in cui la moglie del poeta espressionista poi surrealista morto nel 1950 accusava Celan di aver plagiato, e non solo tradotto, Goll.

Lo scambio di lettere tra Celan e Szondi palesa quanto sia delicata la posta in gioco dell’affaire. Non è in gioco solo la rispettabilità di Celan (che si avvia proprio in quei mesi a ritirare il Premio Büchner, uno dei riconoscimenti più prestigiosi della letteratura tedesca), del suo onore poetico, della sua originalità insomma, ma anche ciò che Celan determina nella lettera che segue i cenni disperati di Szondi al suo malessere. Ovvero un clima interno alla Literaturwissenschaft tedesca che non solo si accanisce sullo strano oggetto-poetico che è l’autore di Papavero e memoria non appena qualcuno le offre il destro, ma lo fa indicandone “l’origine” (l’essere-ebreo), come fece il recensore Günter Blöcker («può darsi che ciò sia dovuto alla sua origine»).

Ecco allora intervenire la prassi di certezza e di rettifica di Szondi, la prassi che è forse un “rimedio”. La filologia come àncora cui aggrapparsi per smontare le accuse. Tra il 1960 e il 1961 Szondi interviene pubblicamente in più sedi, contrattaccando e facendo nomi e cognomi, rischiando così di compromettere la propria ascesa universitaria. Brillante trentenne, non è ancora abilitato quando scrive a Christ und Welt o sui Neue Deutsche Hefte, dimostrando, cronologia alla mano, come la genesi delle formule poetiche incriminate – quelle in cui Celan, secondo Claire Goll poi ripresa da Rainer Kabel (il «Caino», per Celan, che poi tornerà a Canossa), avrebbe plagiato Ivan Goll – fosse genuinamente celaniana. Grandissima parte delle espressioni che sembravano richiamare Goll era in realtà già stata scritta da Celan nell’esordio della Sabbia delle urne – pubblicato ma poi ritirato dal mercato nel 1948 – prima che Celan conoscesse Goll e i suoi versi.

E tuttavia contro l’urticante tesi della dipendenza lanciata da Kabel («non si dovrebbe condannare subito Paul Celan: dipendenze, influssi e sviluppi di tecniche poetiche non sono affatto un delitto!»), Celan – che nel frattempo, dice Bollack a Szondi in una lettera a cuore aperto, si anima di un «insaziabile sospetto» – non si accontenta delle rettifiche di Szondi, e dell’uso che ne fa una parte di accademia che gli è sempre più invisa. Non ci si può fidare di una critica letteraria la cui formazione – tesi di laurea, corsi, abilitazioni – si è data sotto il nazismo con gradi notevoli di compromissione col regime e il suo linguaggio egemonico. La cura di König è attenta nel mostrare come la sensibilità dei due sia spesso capace di cogliere sfumature di Nazi-Zeit in intellettuali che parlano da scranni elevati nonostante il passato torbido, sfumature che sarebbero emerse molto più tardi. E come a volte queste rimangano ancora nascoste (si veda il caso di Franz Tumler, interlocutore di Szondi).

Il punto decisivo è però più radicale, e riguarda la sua poetica. L’11 agosto 1961 Celan invade lo spazio mentale di Szondi per chiarirlo: «Si ricorda che una volta Le scrissi di come questa faccenda sia senza fondo? Lo è, Peter. Lei come me è ebreo, e così qui posso qui tralasciare alcune cose ed esprimere, in questo contesto un pensiero: dai “migliori” stessi”, l’ebreo – e questi non è altro che una figura dell’umano, ma quantomeno una figura – viene fin troppo volentieri sublimato come soggetto e pervertito in un oggetto o “sujet”».

La faccenda è «senza fondo», perché la perversione dell’ebreo a cosa e «suddito» si dà anche con le migliori intenzioni. Si dà nuovamente quando il fatto storico-Shoah viene ridotto a metafora (l’indicibile, il male assoluto, l’«olocausto»). Celan vuole invece chiamarlo per nome. Da qui la strutturale avversione alle metafore nella sua poetica: «si rende immagine ciò che non si vuol percepire, che non si vuole ammettere: di data e luogo viene fatto… un “topos” a forza di chiacchiere. Orbene, anche Auschwitz era un luogo comune e mille luoghi». La lotta alle metafore è un obiettivo preciso per concretizzare, storicizzare, indicare. Celan vuole nominare, non vuole “tradurre”. Storicizzare sempre, fuggire la topica dell’orrore, de-universalizzare gli atti della Shoah significa un effetto anche personale: significa evitare di spogliarne i versi del loro ebraismo (come avrebbe fatto di lì a poco Walter Jens cristianizzando Matière de Bretagne). Ma non basta: nel senza fondo si deve andare più a fondo ancora – essere più esatti nel governo delle dipendenze. Bisogna cioè sondare l’autenticità del lascito di Goll. La vedova, suggerisce Celan, sarebbe intervenuta sulle poesie di Goll poi pubblicate postume in Traumkraut (Erba di sogno), ‘celanizzandole’. Bisogna estirpare alla radice il sospetto della dipendenza: quelle di Celan non sono, come voleva il «gangster», il critico Fritz Martini, «immagini erranti» tra poeta e poeta. Non si può parlare, à la Eliot, di «esistenza simultanea» o di affinità metaforiche: le parole di Celan sono deissi del dolore dove ha avuto luogo, dove non è stato ancora cancellato. Nomi concreti.

Szondi si prenderà quattro mesi per riscrivergli. È la modalità avvelenata del “dialogo interrotto” che i due inscenano per iscritto. Gli scriverà solo dopo aver ricevuto, per una volta, «pensieri commossi», «dopo la lettura della sua prolusione» (il saggio Speranza nel passato, da noi pubblicato nell’appendice einaudiana all’Infanzia berlinese di Benjamin). Stavolta è Celan a cercarlo, a svelare commozione e pensiero sorte in lui perché Szondi ha scoperto il futuro anteriore nello sguardo storico-sociale di Benjamin. Il futuro anteriore, «futuro e nondimeno passato», è quella temporalità capace dell’«unione di speranza e disperazione». Forse l’unico modo per andare oltre quella sentenza di Kafka – «quest’uomo», lo chiama Celan – che voleva lo spirito come certezza senza speranza, il solo per trasgredire l’esattezza dell’accaduto.

Paul Celan – Peter Szondi
Tra l’oro e l’oblio. Lettere 1959-1970
a cura di Luca Guerreschi
Neri Pozza, 2023, 320 pp., € 32

In copertina: Carlo Saraceni, La caduta di Icaro, 1606-07

Massimo Palma

(Roma, 1978) scrive, traduce e fa ricerca. Studioso del pensiero e della letteratura tedesca e francese del Novecento, ha scritto libri su Walter Benjamin, Eric Weil e Alexandre Kojève e i saggi "Foto di gruppo con servo e signore", e "I tuoi occhi come pietre. Trauma e memoria in W.G. Sebald, Paul Celan, Charlotte Salomon" (Castelvecchi 2017 e 2020). Ha tradotto e curato opere di Max Weber ("Economia e società", Donzelli 2003-2018), Walter Benjamin ("Senza scopo finale"; "Esperienza e povertà", Castelvecchi 2017 e 2018), Georges Bataille ("Piccole ricapitolazioni comiche", Aragno 2015), e Georg Heym ("Umbra vitae", Castelvecchi 2020). Come narratore ha pubblicato "Berlino Zoo Station" (Cooper 2012), "Happy Diaz" (Arcana 2015, Castelvecchi 2021), "Nico e le maree" (Castelvecchi 2019). "Movimento e stasi" (Industria & Letteratura 2021) è il suo primo libro di poesia.

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