La traduzione italiana del libro di Georges Didi-Huberman su Georges Bataille è una scelta editoriale importante, per più di un motivo. Innanzitutto rende fruibile per il lettore italiano un testo chiave di Didi-Huberman del lontano 1995[1], una elaborata riflessione sul “sapere visuale” di Georges Bataille che sarebbe rimasta centrale nel corso di tutto il suo lavoro teorico negli anni a venire. In secondo luogo, questo testo permette di leggere gli articoli che Bataille ha scritto per la rivista «Documents» negli anni 1929-1930 accompagnati dalle immagini che ne erano parte integrante, nel contesto e nel montaggio della rivista, ed è quindi uno strumento prezioso per l’approfondimento del suo pensiero. Infine, questa traduzione è integrata da una lunga postfazione dell’autore alla terza edizione del libro del 2019, che fa il punto sulla polemica con Rosalind Krauss negli anni Novanta e sul dibattito teorico suscitato dalla nozione di informe in Bataille.
In Italia gli articoli di Bataille per «Documents» sono stati tradotti inizialmente da Sergio Finzi nel 1974 per le edizioni Dedalo a partire dalle Opere complete di Georges Bataille, estrapolati dal contesto e dalle immagini. In seguito alla riedizione critica integrale di «Documents» in due volumi curata da Denis Hollier nel 1991, è iniziata negli anni Novanta una rilettura della rivista nel suo insieme, considerata come lavoro importante di decostruzione delle categorie estetiche tradizionali, di ridefinizione della nozione di arte, e di messa a fuoco dei rapporti tra teoria e immagine. Ed è in questo contesto che si colloca il testo di Georges Didi-Huberman dedicato agli scritti di Bataille su «Documents».

Fondata nel 1929 con intenti specialistici e scientifici e finanziata da Georges Wildenstein – mercante d’arte, collezionista, e storico dell’arte – la rivista «Documents», di cui Georges Bataille era segretario generale, si è avvalsa della collaborazione di Georges-Henri Rivière, vicedirettore del Museo d’Etnografia del Trocadero, di Michel Leiris e di alcuni transfughi del surrealismo, come Limbour, Vitrac, Desnos. Il direttore della rivista, il cui fondamentale apporto è ancora in gran parte da approfondire, era Carl Einstein, scrittore e critico d’arte tedesco che aveva già pubblicato due importanti lavori sulla Scultura negra e sull’Arte del XX secolo, ed aveva rapporti con l’Istituto Warburg di Amburgo.
Nonostante il titolo apparentemente accademico della rivista (che aveva come sottotitolo «Dottrine, Archeologia, Belle Arti, Etnografia», e, dal quarto numero, «Varietà»), in realtà «Documents» non intendeva prendere in considerazione i documenti generalmente trattati nelle riviste di storia dell’arte, ma gli scarti di quei documenti, ai margini della tradizione. Una rivista eterodossa, né accademica né propriamente d’avanguardia, annunciata come “l’Enciclopedia illustrata della vita moderna”. L’illustrazione vi aveva in effetti un ruolo dominante. Come afferma Denis Hollier, «era convenuto che i documents annunciati dal titolo sarebbero stati documenti iconografici: dominava l’illustrazione, i testi erano relegati in secondo piano, in forma di accompagnamento. Documents non ha praticamente pubblicato testi senza illustrazioni (con qualche rara eccezione…), mentre invece ne ha pubblicato un numero significativo senza alcuna indicazione di autore. Un testo può far a meno di firmatari, ma non dell’illustrazione».
La scelta delle immagini della rivista era attentamente studiata. Molte le riproduzioni di artisti contemporanei come Hans Arp, Picasso, Brancusi, De Chirico, Miró, e rilevante il ruolo della fotografia, in particolare delle foto d’autore, come quelle di Eli Lotar Ai macelli della Villette del 1929 che accompagnavano la voce «Mattatoio» del Dizionario critico, o l’Alluce e la Bocca di Jacques-André Boiffard. O il linguaggio dei fiori di Karl Blossfeldt, su cui si sarebbe soffermato anche Walter Benjamin.

Il Dizionario critico di «Documents», sotto la veste tradizionale del dizionario, non forniva il senso ma i “compiti” (les besognes) delle parole, i loro significati nascosti, rimossi o mascherati, e presentava voci quali «Infelicità», «Informe», «Mattatoio», «Polvere», «Bocca». Per la voce «Informe» in particolare, Bataille puntualizzava che «non è soltanto un aggettivo con tale senso, ma un termine che serve a declassare, esigendo in generale che ogni cosa abbia la sua forma».
La «somiglianza informe» che è al cuore della lettura batailleana di Didi-Huberman è una radicale messa in discussione della somiglianza e delle sue forme proprio grazie ai compiti dell’informe, al suo lavoro di trasgressione e declassamento, non disgiunto dalla dialettica del desiderio e della violenza.
Negli stessi anni, a partire da «Documents» e in particolare dalla nozione di «informe», Yve-Alain Bois e Rosalind Krauss organizzano nel 1996 una mostra al Centre Georges-Pompidou di Parigi: L’informe. Mode d’emploi [2]. L’informe di Bataille viene considerato come una delle chiavi di lettura di molte pratiche artistiche del XX secolo e delle sue sfide. L’informe scalza gli oggetti dal loro piedistallo, li declassa. La mostra presentava opere di artisti e fotografi dalla fine degli anni Venti alla metà degli anni Settanta. Nella polemica che negli anni di «Documents» aveva visto opporsi Bataille e Breton, le posizioni di Bataille – suggeriscono i curatori della mostra – sembrano essere più consone alla modernità. I lavori di Didi-Huberman e di Yve-Alain Bois e Rosalind Krauss, più o meno contemporanei, prendono dunque entrambi come filo conduttore l’«informe», ma con prospettive ed esigenze molto diverse tra loro.

La «somiglianza informe» di cui parla Didi-Huberman decostruisce la categoria stessa di rassomiglianza, in quanto strumento di un’apprensione radicale della differenza, dell’eterogeneità, della capacità che le cose hanno di trasformarsi, di capovolgersi nel loro contrario. Rosalind Krauss e Yve-Alain Bois partono dalla voce informe per individuare nell’arte contemporanea alcune linee guida, come l’orizzontalità, il basso materialismo, la pulsazione e l’entropia, ovvero le quattro sezioni in cui era suddivisa la mostra al Pompidou. La voce informe indica non tanto un aggettivo (senza forma, o deforme) quanto un’operazione, un’attività di declassamento. Attività investigata da Krauss e Bois nell’arte contemporanea, a partire da Bataille; da Didi-Huberman nel pensiero teorico di Bataille, così come emerge dall’insieme dei suoi articoli in «Documents».
Come ripensare oggi queste due posizioni, dopo quasi vent’anni? Che uso ne hanno fatto gli autori nello sviluppo del proprio lavoro? A queste domande cercano di rispondere due giovani studiosi dell’Università di Roma La Sapienza, Andrea D’Ammando e Matteo Spadoni, nel loro libro Letture dell’informe (Lithos, Roma 2014), citato da Didi-Huberman nella postfazione. Il saggio di Spadoni si sofferma soprattutto sul testo di Georges Didi-Huberman, con una tesi forte: la dialettica dell’informe sarebbe un tassello fondamentale del lavoro critico di Didi-Huberman, accanto ad autori fondamentali di riferimento come Aby Warburg e Walter Benjamin. Più in particolare, la dialettica dell’informe «rimarrebbe sostrato di tutte le configurazioni dell’esperienza estetica»: l’informe sarebbe un «compito» inesauribile che stravolge e attacca e «mette in rivolta» la nostra esperienza immaginativa.
Se il lavoro di Spadoni considera l’analisi dell’informe di Didi-Huberman alla luce degli sviluppi futuri dell’autore, affermando che «non si tratterà tanto di attaccare o difendere le posizioni didi-hubermaniane sull’informe, quanto di leggere l’informe grazie ad esse», il saggio di Andrea D’Ammando viceversa, dedicato all’approfondimento della posizione di Rosalind Krauss, si volge all’indietro, al contesto in cui questo approfondimento è nato, soprattutto in riferimento alla critica d’arte americana dell’epoca e alla posizione di Clement Greenberg. Per D’Ammando non possiamo cogliere appieno l’uso che dell’informe fa Rosalind Krauss senza tenere presente il suo bersaglio critico, Greenberg appunto.

Entrambi i saggi iniziano dunque con una pars destruens: se per Krauss si tratta di andare oltre Greenberg, per Didi-Huberman l’esigenza è di minare il concetto stesso di rassomiglianza, di decostruire il “tono idealistico” della storia delle immagini. Nella sua lettura, Didi-Huberman accosta l’informe di Bataille all’immagine dialettica di Benjamin e all’immagine-sintomo di Warburg. Parla di una «dialettica sintomale» in Bataille, costituita dai momenti di tesi, antitesi, e sintomo. La tesi è la rassomiglianza, che l’informe mette in discussione: «Meglio di chiunque altro, senza dubbio – scrive Didi-Huberman – Georges Bataille ha saputo lacerare la rassomiglianza. Meglio di chiunque altro egli ha saputo, lacerata, renderla lacerante». L’antitesi è rappresentata dalle «forme concrete della sproporzione», o dalla «decomposizione dell’antropomorfismo». Il sintomo indica una dialettica senza sintesi, una dialettica eretica, negativa, alterante. Se il gaio sapere del titolo è un esplicito riferimento a Nietzsche, la centralità della dialettica, sia pur eretica, pone la questione dell’influenza della filosofia di Hegel nel pensiero di Bataille. Questa lettura è stata aspramente criticata da Bois e Krauss, secondo cui Hegel, l’idealismo, e la dialettica sarebbero totalmente estranei a Bataille, almeno nel periodo di «Documents». Nella rivista Bataille critica gli aspetti idealistici della filosofia, la «redingote» che la filosofia pretende di dare all’universo, compreso il materialismo dialettico, cui contrappone un materialismo basso e irriducibile.
Ma se è vero che Bataille combatte l’idealizzazione sotto tutte le sue forme, e l’idealismo in filosofia, il suo rapporto con Hegel e con la dialettica è tuttavia più complesso e sfumato[3]. Lo stesso Bataille, ne Le deviazioni della natura apparso nel secondo numero di «Documents» del 1930, parla di uno «sviluppo dialettico di fatti così concreti come le forme visibili», e fa riferimento a Ėjzenštejn, al suo montaggio cinematografico, incentrato sul conflitto. Sempre su «Documents», in Gravures d’Hercules Seghers, Carl Einstein parla esplicitamente di «una dialettica delle forme sotto il segno della morte».
Si tratta in ogni caso di una dialettica che lascia aperto il conflitto, la contraddizione. Una dialettica assai diversa da quella cui fanno riferimento Breton e i surrealisti, che nel Secondo Manifesto auspicano un superamento di tutte le antinomie. L’eterologia di Bataille si oppone a qualsiasi specie di rappresentazione omogenea del mondo, mettendo in valore gli scarti, i «resti» inevitabili di qualsiasi tentativo illusorio di superare le dicotomie.
La dialettica «sintomale» di cui parla Didi-Huberman non vuole assolutamente essere una dialettica che affermi il primato della sintesi conciliatoria. Il sintomo è la manifestazione di un conflitto, l’espressione di una contrapposizione di forze o di impulsi contrastanti e inconciliabili. Il sintomo fisico, isterico o nevrotico, così come il sogno o il lapsus, è significativo proprio in quanto espressione di un rimosso, di un contrasto psichico inconscio, in cui degli impulsi riemergono con effetto perturbante. Il sintomo rende manifesto qualcosa che era stato espulso, censurato, rimosso. Qualcosa di basso che l’idealizzazione rifiuta. «Io oppongo alla poesia l’esperienza del possibile», scriverà Bataille nell’Esperienza interiore. L’idealizzazione ha un ruolo difensivo contro aspetti insopportabili della realtà[4], aspetti che il sintomo crudelmente ripropone.

Il saggio di Bataille su van Gogh contenuto nell’ultimo numero di «Documents» in questo senso è esemplare: esso ci offre una doppia lettura del sintomo, clinica e critica. Ciò che è in gioco non è tanto la malattia di van Gogh, quanto la sintomatologia delle forme culturali: il sintomo rivela uno stato di cose essenziali, declassa e smentisce l’idea umanista dell’essere umano. L’uomo non può scappare alla sua insufficienza. Sotto questo aspetto, afferma Georges Didi-Huberman, Batatille può essere avvicinato a Warburg, che nello stesso periodo lavorava al suo atlante Mnemosyne: «entrambi hanno cercato il sintomo nel simbolo», «entrambi non hanno esitato […] ad aprire il gioco delle forme a dei campi finora trascurati, disprezzati».
Il riferimento a Georges Bataille e alla dialettica dell’informe è centrale in molti lavori successivi di Didi-Huberman, a partire ad esempio da Aprire Venere, del 1999[5]. La Venere rinascimentale, come quella raffigurata da Botticelli nel momento della sua nascita, è un’immagine di bellezza e di nudità ideale. Ma che succede se “apriamo” quest’immagine, se cerchiamo di vedere ciò che l’immagine porta con sé senza mostrarlo? Alla corte dei Medici era ben noto, tramite Poliziano, il mito classico della nascita di Venere. Il mito fa riferimento alla castrazione del padre Urano, dai cui genitali precipitati in mare, in un’unione di sperma e sangue, nasce la dea della bellezza e dell’amore. Mito crudele che l’idealizzazione taglia via, scotomizza. Dalla rinascimentale Venere dei Medici un percorso porterà alla Venere dei medici, la Venere apribile in cera colorata di Clemente Susini di fine Settecento – in mostra tra l’altro a Milano quest’anno alla Fondazione Prada – che, straordinariamente realistica, col suo filo di perle e i capelli veri, sensualmente distesa su un drappo di seta, sarà destinata allo studio anatomico del corpo umano dei medici. Mero scopo scientifico? Il riferimento finale al coevo viaggio fiorentino del marchese de Sade non è casuale.

Nelle prospettive di ricerca di Didi-Huberman, Bataille ritorna come l’innovatore di un’iconografia alterata, un’iconografia di immagini rivoltate in una costellazione di disastri della ragione. In Atlas ou le gai savoir inquiet, il terzo volume dell’Occhio della storia pubblicato nel 2011, l’autore ci parla dei disastri della e nella cultura: il batailleano gai savoir visuel si associa all’inquietudine della storia recente. Il volume delinea la metamorfosi di Atlante, titano condannato dagli dei dell’Olimpo a portare per sempre sulle sue spalle il peso del mondo, nell’Atlante, forma visiva e sinottica di conoscenza. L’Atlante Mnemosyne di Warburg ci fa viaggiare dai monstra agli astra, dalle bellezze dell’arte agli orrori della Grande Guerra. L’Atlante è anche una raccolta di disastri, dove possiamo ritrovare materiali per ripensare la follia della nostra storia. In questa prospettiva, afferma Didi-Huberman, un tassello importante è costituito dalla raccolta dei «disastri nell’antropomorfismo» composta da Bataille e dai suoi amici in «Documents»[6].
Infine, possiamo ricordare il recente Incontro con Didi-Huberman, al teatrino di Palazzo Grassi a Venezia il 10 giugno scorso, incentrato sul «visibile pensare»: le immagini pensano, ma come pensare questo pensiero visuale? Si tratta di una sfida al nostro linguaggio e alle nostre teorie. Di nuovo, da parte di Didi-Huberman, un riferimento esplicito e un ritorno a Georges Bataille.
Georges Didi-Huberman
La somiglianza informe o il gaio sapere visuale secondo Georges Bataille
a cura di Francesco Agnellini
Mimesis, 2023
pp. 532, € 28
[1] G. Didi-Huberman, La Ressemblance informe ou le gai savoir visuel selon Georges Bataille, Macula, Paris 1995 (20193).
[2] Y.-A. Bois, R. Krauss, L’informe. Mode d’emploi, catalogo della mostra, Centre Georges-Pompidou, Paris 1996, trad. it. di E. Grazioli dall’ed. inglese, L’informe. Istruzioni per l’uso, Bruno Mondadori, Milano 2003.
[3] Hegel è sempre stato un autore di riferimento fondamentale per Bataille, moltissime citazioni lo dimostrano: cfr. F.C. Papparo, Incanto e misura, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1997, pp. 37 sgg. D’altronde, come ricorda Bruno Moroncini, attento studioso recentemente scomparso, «non è necessario che la dialettica sia gioco forza mediatrice: esiste una dialettica degli estremi, vale a dire senza mediazione e senza sintesi che data almeno da Hölderlin e che per molti versi Bataille fa propria» (La letteratura e i diritti del “piccolo”, in Georges Bataille o la disciplina dell’irriducibile, a cura di F.C. Papparo e B. Moroncini, il melangolo, Genova 2009, p. 146 n).
[4] Sulla confusione di idealizzazione e sublimazione in Krauss e Bois, che parlano di atteggiamento «desublimatorio di aggressione» a proposito dell’informe, cfr. B. Moroncini, La letteratura e i diritti del “piccolo”, cit., p. 145, per cui la sublimazione non lavora soltanto con gli oggetti-immagine, ma anche e fondamentalmente con gli oggetti-abietti.
[5] G. Didi-Huberman, Ouvrir Venus, Gallimard, Paris 1999, trad. it. di S. Chiodi, Aprire Venere, Einaudi, Torino 2001.
[6] G. Didi-Huberman, Atlas ou le gai savoir inquiet, l’Œil de l’histoire, III, Minuit, Paris 2011, p. 226.
In copertina: F. Regnault, Doppio bambino, (particolare) incisione de Gli scarti della natura, Paris 1775, pl. 19. Illustrazione per l’articolo di G. Bataille, Gli scarti della natura, «Documents», n. 2, 1930, p. 81.