Dentro i miei occhi di pietra

18/09/2023

Il prossimo 5 ottobre verrà consegnato a Roma, al Tempio di Venere nel Parco archeologico del Colosseo, il primo Premio Strega Poesia: scommessa difficile ma necessaria. I cinque finalisti della prima edizione (selezionati su più di 150 opere concorrenti da un comitato tecnico composto da Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa, Mario Desiati, Elisa Donzelli, Roberto Galaverni, Valerio Magrelli, Melania Mazzucco, Stefano Petrocchi, Laura Pugno, Antonio Riccardi, Enrico Testa e Gian Mario Villalta) sono Silvia Bre con Le campane (Einaudi), Umberto Fiori con Autoritratto automatico (Garzanti), Vivian Lamarque con L’amore da vecchia (Mondadori), Stefano Simoncelli con Sotto falso nome (Pequod) e Christian Sinicco con Ballate di Lagosta (Donzelli); e tre di questi libri, con significativo segno dei tempi, mostrano un rapporto tutt’altro che estrinseco con le immagini. Abbiamo così chiesto ai rispettivi autori di offrirci ciascuno una piccola antologia di questa loro opera, o del loro lavoro in generale, espressamente pensata per «Antinomie»; e le proporremo ai nostri lettori a partire da questa settimana sino a quella della premiazione.

Silvia Bre è la prima della serie, et pour cause: perché in effetti è almeno sin da Marmo (libro di svolta e davvero maiuscolo, edito da Einaudi nel 2007) che, sin dal titolo, correlativo della sua ispirazione è un’impersonalità minerale («dove io sono io non sono / che la pace profonda di me stessa // e non so più chi sono»), da frammento primigenio o degnità presocratica, che rinvia a un’esistenza non transeunte: «Non c’è cosa ch’io dico che non dica / ch’io vivo un’altra vita che è più viva / di questa stessa mia che vivo e dico». E sono appunto i simulacri dell’arte a rinviarci questo sguardo fisso e severo, al contempo meno e più che umano. Nelle Campane (come già nelle Barricate misteriose, dove echeggiava l’omonimo brano clavicembalistico di François Couperin) il riferimento è piuttosto al mondo acustico, al risuonare di chi ascolta. Ma anche stavolta questo suono enigmatico proviene «dalla cima che dondola al nulla scudo, / campane»; e alla parola ha accesso, dell’umano, solo «la parte altissima, antigravitazionale»: che «inneggia / a quello che non è». Ci si ricorda della prospettiva impossibile dell’ultima inquadratura delle Onde del destino di Lars Von Trier, dell’ironia metafisica di quell’“epilogo in cielo”: forse è solo da lì che si può gettare uno sguardo davvero comprensivo sulla vicenda così fragile, di contro, di noi terrestri.

Andrea Cortellessa

                                                                     gita alla Madonna del parto

Piero della Francesca, Madonna del parto
                                                                                                          un quadro di Antonio Capaccio

La calma a lampi acceca e d’improvviso
sospende la battaglia dei contrari –
il quadro è un viso eterno di stupore

stelle lontane voi non lo sapete
ma il cielo che vi tiene è già caduto
perduto rincorrendo un altro cielo

stelle fedeli è tardi
nemmeno voi ci siete

e gli occhi soli rimangono a vegliare
questa grandiosa rivincita del vuoto.

Sono stelle magnifiche gli sguardi.

Antonio Capaccio, Cielo

da Le barricate misteriose (2001)


davanti a un quadro di Stefano Di Stasio

È sera o in quella benda c’è la voglia
di non vedere nulla e stare stesi
dentro il fermo sentiero del pensiero –
qui si contempla con gli sguardi chiusi.
E il sonno con un gesto da ghirlanda
trattiene tutto il fato nella posa
di fare niente –
al cero acceso d’una sola rosa
il mondo è come morto di bellezza.

E in mezzo a tanta sacra distrazione
dove le forme s’amano da sole
sommessamente gli uomini e le cose
tremano un dubbio nuovo – nella mente
il mondo è un pellegrino che si cerca.

Stefano Di Stasio

da Le barricate misteriose


Anonima romana – Musei Capitolini

e qui dove io sono io non sono
che la pace profonda di me stessa

e non so più chi sono

e nemmeno un pensiero che mi venga
in questo luogo astratto dalla storia

per quanto lieve volli la mia vita
mai quanto volli lieve la mia morte

e ormai che sono qui
io sono quieta

soltanto
a volte
come fosse in sogno

sento due occhi ignoti

entrare

dentro i miei occhi di pietra

da Ritratti, di Marco Delogu

da Marmo (2007)


L’estasi di Gian Lorenzo Bernini, beato
mentre scolpisce Ludovica Albertoni

Ah mezzanotte semplici capelli
lungo il collo imperlato dai respiri,
sopra la fronte altissima di fronte
a chissà che mattino – incoronata
che immagine che sei, così di tutti!
Se non sei mia è più mio l’averti avuta?
Fammi chiedere ancora, ancora
non di che cosa, solo di più, per slancio
per aurora, soltanto ancora e non saperne nulla
mia povertà mio calco
cieca gioia, che forze avrai sfidato
per venirmi alla mente
dove ti sfioro senza fare un gesto.
Ma ti devo fermare per cadere ai tuoi piedi
per ritornare in me
pieno d’un viso senza più pensiero.
E sono già chi dice «ti tenevo» e già vacilli
nella coda lunghissima degli occhi.
La spiegazione pulsa nel marmo, ricomincia.
Non rimane che il farsi della vista,
di un discorso che dubita, del tempo,
e questo suono stesso sta per dire
che anche io, lo scultore, sono un resto.

Gian Lorenzo Bernini, L’estasi della Beata Ludovica Albertoni

da Marmo

Vedevo uno che ha smesso di sapere
seduto verso il mare, nel silenzio:
una forma dell’aria, un’onda pura
partita da un secolo qualunque.
Eravamo nella stanza nella stessa luce,
nell’ombra – io, come si dice, viva
lui creatura del giapponese che lo dipinse.
Parlavo mi pare del bene che faceva
quel suo covare di schiena l’orizzonte
e la mia calma in fondo alla sua vista,
mi chiedevo che felicità fosse
ad arrivare da così lontano
e non pensavo a nulla
mentre da fuori il sole ci ha fasciati
e rispondeva.

Hokusai, Flautista su un ramo di salice piangente, contemplando il Fuji

da Marmo

Schönberg: Variazioni per Orchestra op. 31

A volte pare che ciò che non si sa
ci lasci stare – è come notte,
il nero muove e vince contro il sole
e sembra d’essere fuori, fermi a guardare
qualcosa che si offre e intanto prende,
o passano e ripassano nell’aria ancora suoni
in quella lingua ignota che si accorge
di noi, vuole farsi capire – e più che suoni movenze,
più che movenze ondate, lampi, pulsazioni,
sciami di eventi che ci vengono incontro
per custodire in fondo a noi
il suo cuore.
È qui, tutto da guadagnare
il tema delle cose,
dove non c’è mai nulla che si tocchi,
solo una forma viene e poi si toglie
per rimanere viva all’infinito – altrove
un’immagine avanza
come adesso contro il buio
e le frasi diventano così, piene di tempo.
Ogni singola nota varia il mondo.

***

Però non è diverso trovare
nella terra di un prato
un puro oggetto senza più funzione –
un distintivo, forse, o bottone d’un guanto
o il tasto spezzato di un rottame, la zampa
dell’animale di una spilla – ecco,

una vaga scheggia senza la cosa,
quasi nulla,
pulirlo con un soffio
e avere sulla mano quell’ossicino
di un momento morto,
il suo nome perduto
che canta, mare nella conchiglia,
il tema solo umano della pena.

da Marmo

… Questo è mio padre, o forse è come era lui,
una somiglianza, uno della razza dei padri: terra
e mare e aria.
Wallace Stevens

Impasto sabbia rossa con acqua del mio fiume
per un’idea non esatta quanto l’intenzione. Invento.
Qui con me nessuno. Adesso
tento l’impresa di spostare
la freschezza del fiore che ho in mente
su un pensiero duraturo da guardare:
voglio che la voce del suo nome
s’alzi e s’alzi ancora dall’argilla
e tuttavia persista eternamente.
Se non è magia chi noterà il mio gesto?
Eppure vivo nel mio delirio
un grande inizio.

Sono Lish, di Uruk, sumero.
In questo fermo silenzio universale
primo nel tempo
scrivo.

Lo scriba rosso, Louvre

da Marmo

la grottesca, ornamento senza nome

Che ramo sei, che spunti da una mano
che bestia vegetale e geometrica
che schiena di ragazza, se hai la coda
che fiore mai, se ci guardi dagli occhi

che cielo, nella conca di un soffitto
quale calmo delirio, che lezione –
un caos sceso da un ordine lontano
da qualche dio animale che ci accorda

o tempo rivenuto su dai morti
a dimostrare come si resiste –
sei luce capovolta di una lingua
che porta come sempre in sé sepolti

i padri ancora vivi da cercare.

Particolare della decorazione a grottesca del voltone del Palazzo dei Priori di Assisi, circa 1556

da La fine di quest’arte (2015)

Borromini Francesco
Tombeau

… non so quando avrò visto il camaleonte
perché da allora
non ho mai smesso di vederlo

c’era una contrazione
del paesaggio, come un astro che si folgora
in un rumore ammutolente

cavalcava
sulla cosa che di continuo precipita
e si nasconde

ho provato la gioia a immaginarmi inerte
su un fondale
autentico per sempre

ma dopo lo cercavo, ne volevo ancora
cosí ho dovuto vivere
sospinto
verso lo spazio schierato contro, da incantare

ho virato ogni punto
in una linea
poi l’ho inarcata in una superficie
poi ho tradito i muri con le ombre

la vetta delirante
dall’andatura eterna
ancora frena, s’avvita
verso qualche sua tana

sopra il suolo di Roma

mio centro
mi traboccava intorno come una trama che dilaga
tra spirali di azzurri, scorci
d’arancioni

la toccavo in un grande silenzio, con le pietre
le ho mimato il mio amore tortuoso
in colonnati di adorazione
in pallide facciate malinconiche

mi sono opposto alla spinta che innalza
e porta via le immagini

l’avido morso della mente
condensa
in una forza unica

la potenza vuota che sta nel cielo

quella violenza

che non vada perduta
e sia più che reale in una materia particolare
in una costruzione logica
estratta dall’aria
sorretta dentro la vita dalla sua tensione

almeno per un momento

perché il movimento la trascina via subito
al prossimo buio
nello spazio impermeabile a qualsiasi figura
chiuso a ogni proporzione

io certe volte
a martellate
l’ho obbligato a smentirsi, a vibrare
in consonanza con le mie strutture

a smarrirsi con me

nel luogo impermanente
dove gira
il respiro che oscilla
indeciso come la luce

anche se poi ha preso il sopravvento

una notte

ha respinto ogni prospettiva
in un campo visivo secolare

ha fermato i miei monumenti…

TRA TUTTE LE MIE CHIESE UNA FU MIA SOLTANTO
QUELLA COI TRE GRADINI SULLA STRADA.
CELEBRAI FUORI TEMPO IN TANTO MARMO
LA VITTORIA DEL VOLO – FU IL MIO CAPOLAVORO –
CONTRO LA PUNTA VERA DI UNA SPADA.

i tre gradini di ingresso, e di uscita, della chiesa di San Carlo alle Quattro Fontane, a Roma, di Francesco Borromini, fotografati da Diego Mormorio

da La fine di quest’arte

Che tutto questo senso c’è e va perso
lo dice la memoria che svapora
il turbinio cangiante che fa piangere
lo schiumare che brilla in cima
a qualche consonante
e il guardare che assottiglia tutte
le bottiglie di Morandi, lo Zoccolo del Mondo
che annulla la fatica di esibirsi
e la domanda unanswered,
sette minuti di eterna discordanza
e ogni singola riga di Giorgio Agamben
– cose sparse venute a tenersi
gesti d’altri sul punto di andare –
penso alle scarpe portate da Vincent
alle nere figure di Alfonso in processione
davanti alla strage della sua innocenza
come sudditi in onore di un re
a chi lampante preferiva il no
ai buchi tra i denti di Artaud
penso a Rimbaud, quel temporale
che ha smesso di parlare anche per me.

Giorgio Morandi, Senza titolo

da La fine di quest’arte

Grotte di Chauvet,
la preistoria acustica della poesia

Nessuna legge s’alza
da un fascio di orizzonti, è un’aria lenta
che ha luogo da sé
e canta all’aria.
Il ritmo innato vaga prima della vita.

Non sorge il dopo della discendenza:
è un toro che vibra invece
preso nel segno
libero dalla storia nella roccia dove canta
aria che canta a sé
senza momento.
Il fuoco acceso fa silenzio.

Essere noi, adesso,
non è una porzione
miserevole del tempo –
ondeggia sempre
ancora
accolto
in quello che si sente.

Grotte di Chauvet

da Le campane (2022)

William Turner, La nave negriera

Avevamo pensato bastasse essere vivi
alta tra le mani mulinanti l’ambizione incendiaria
pensavamo che quel nuotare vivi bastasse
a entrare nelle menti, essere visti
nero fiore dell’acqua nella notte, nello sciame di onde,
orde, eserciti di mare contro paia d’occhi pronti
a sparire, entrare a corpo morto nel nero delle menti
di bianco solo il bianco dell’occhio. Nessuno mai
riposa in pace sul fondo di menti senza pace
il vostro eterno il nostro
la perla dell’occhio svuotato dai pesci
cinque metri più sotto.

William Turner, La nave negriera

da Le campane

In copertina: Pompei, Casa delle Pareti Rosse, affresco

Silvia Bre

è poeta e traduttrice. Nata a Bergamo nel 1953 vive a Roma. Ha pubblicato le raccolte di poesia “I riposi” (Rotundo 1990), “Le barricate misteriose” (Einaudi 2001, Premio Montale), “Sempre perdendosi” (nottetempo 2006, Premio Montano), “Marmo” (Einaudi 2007, Premi Viareggio, Mondello, Frascati, Penne, Arenzano, Cosenza), “La fine di quest’arte” (Einaudi 2015), e “Le campane” (Einaudi 2022, Premi Montano, L’Aquila, Alghero Donna, Premio speciale Camaiore). Nel 2019 ha ricevuto il Premio Maggiore per la traduzione del MIBACT. Ha tradotto tra l’altro Manguel, Lessing, Walker, Aldermann, Graves; in poesia Louise Labé e, per Einaudi, “Centroquattro poesie”, “Uno zero più ampio” e “Questa parola fidata” di Emily Dickinson, “Il giardino” di Vita Sackville-West (Elliot), “Citizen” di Claudia Rankine (66thand2nd), “Esercizi di potere” di Margaret Atwood (nottetempo) e “Fuoco e ghiaccio” di Robert Frost (Adelphi). Del 2022 sono il Tascabile Einaudi “Poesie”, un’ampia raccolta di traduzioni da Emily Dickinson, e il saggio “Mistero” (Vallecchi).

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