Putride alghe verdi

15/09/2023

Fluido mortale

Una folla protesta dopo l’avant-première di un film a Lannion in Bretagna. L’atmosfera è tesa: volano insulti, minacce e intimidazioni. Nessuno del cast è sorpreso, a partire dal regista Pierre Jolivet che ha incontrato ostacoli d’ogni sorta nel corso delle riprese, realizzate senza autorizzazione ufficiale, con la cinepresa in spalla, senza poter allestire un carrello per un travelling, chiudere al traffico una strada, usare un parcheggio per i camion e la mensa. Qual è il soggetto del film, un evento politico o religioso controverso? Delle alghe verdi, come mostra la prima scena, una ripresa a volo d’uccello delle spiagge bretoni, diventate un manto verde maculato. Non sono insomma le alghe di cui si vantano i benefici nei centri di benessere o nei negozi biologici, ma le macroalghe del genere Ulva o lattughe di mare, che conoscono una fioritura eccezionale sul litorale bretone da maggio a settembre sin dalla fine degli anni sessanta.

Spiaggia di Bon Abri a Hillion (Côtes d’Armor), luglio 2019 (ROMI/REA)

Oltre al disagio per i bagnanti, oltre al puzzo di uova marce, tonnellate di alghe accumulatesi sulle spiagge fino a raggiungere un metro e mezzo di profondità si decompongono in 48 ore e marciscono quando le maree si abbassano, producendo idrogeno solforato (H2S), un gas tossico. A partire da 100 ppm (parti per milione) provoca un’irritazione del tratto oculare e respiratorio che può portare all’asfissia; a partire da 500 ppm provoca complicazioni neurologiche come convulsioni, perdita di conoscenza, coma e, se l’esposizione non è interrotta, decesso (secondo i dati dell’Institut national de recherche et de sécurité). Sulle spiagge bretoni sono stati rilevati valori da 200 a 600 ppm, sufficienti per anestetizzare il nervo olfattivo e paralizzare il sistema nervoso e respiratorio, con un risultato mortale rapido quanto il cianuro.

Presenti naturalmente nel mare, le alghe diventano pericolose quando aumenta la loro concentrazione. Come si spiega questo fenomeno? Con un eccesso di azoto e nitrati nelle rive e nei corsi d’acqua, aumentato di dieci volte a partire dagli anni 1960, che stagna nelle baie dove l’acqua è poco profonda e fluttua poco. Questi nitrati, che sono dei super-fertilizzanti, aggiunti al paesaggio marino e costiero che favorisce la fotosintesi, nutrono le alghe. Seccandosi, le alghe s’infiltrano infine nella sabbia, rendendo la terra sterile: su queste spiagge, sotto e sopra la loro superficie, non c’è traccia di vita, non si vede alcun uccello volare nelle vicinanze. Un paesaggio sinistro, privo di biodiversità e definito, in un documento della prefettura non reso pubblico, un “campo minato” – e pensare che si tratta di una riserva naturale!

Oltre ai casi di irritazione agli occhi e a diverse difficoltà respiratorie e cardiache, oltre alle morti sospette di umani e animali, a lungo considerate come semplici annegamenti, in alcuni casi i danni arrecati dalle maree verdi sono stati accertati. Il 30 luglio 1989, nella baia di Saint-Michel-en-Grève, Jacques Thérin, giovane sportivo, muore mentre corre sulla spiaggia. L’odore delle alghe che avvolgono il cadavere è così nauseabondo che è difficile stargli vicino. L’autopsia viene realizzata giorni dopo, un ritardo sospetto perché un corpo in decomposizione produce naturalmente H2S, rendendo i risultati meno affidabili. Il medico d’urgenza Pierre Philippe, che per primo sospetta un legame con le alghe verdi, contatta il procuratore della Repubblica e la Direzione dipartimentale degli affari sanitari e sociali (DDASS) per procurarsi l’autopsia. Che non arriverà mai.

Nell’estate 1999, Gérard Jégou, trasportatore di alghe verdi, viene ospedalizzato per intossicazione e Maurice Briffaut trascorre quattro giorni in coma, quattro mesi all’ospedale e un anno di congedo malattia. Il 12 luglio 2008 nella baia d’Hillion (Côtes-d’Armor) alcuni cani muoiono d’infarto nello stesso tempo e nello stesso luogo. Il 28 luglio 2009 il veterinario Vincent Petit gira col suo cavallo, quando perde i sensi, mentre l’animale si accascia sulla spiaggia senza vita. Petit chiede invano l’autopsia, finché si accorge che la sua corrispondenza è letta e gestita direttamente dalla prefettura delle Côtes-d’Armor che non ha mai sollecitato. La sua richiesta legittima crea imbarazzo e diventa un affare di Stato. Dopo un iter tortuoso ottiene i risultati che non lasciano dubbi: con un tasso di H2S di 1,07 mg/kg (due volte la dose mortale), il cavallo è morto intossicato.

Il 10 aprile 2009 Pierre Philippe interviene a un reportage televisivo, Thalassa. Yvette Doré, sindaca di Hillion, confessa a Philippe di aver ricevuto diverse segnalazioni di cani morti sulle spiagge comunali. Nonostante i tentativi di dissuasione della prefettura, anche lei interviene nel reportage. All’epoca s’ignorava che, già nel 2006, la DDASS aveva rilevato una quantità di H2S esorbitante sulla spiaggia di Saint-Michel-en-Grève: più di 1000 ppm (equivalente a un decesso in pochi minuti). La DDASS informa la prefettura del pericolo mortale ma nel 2008 nessuno aveva alzato un dito.

Il 22 luglio 2009 sulle Côtes-d’Armor è la volta di Thierry Morfoisse: alla guida del quarto camion di alghe in decomposizione da scaricare nell’arco della stessa giornata, è preso da convulsioni; frena in mezzo alla strada, esce dall’abitacolo, si accascia ai piedi del camion e muore così. Il titolo di un libro di Yves-Marie Le Lay, Putain d’algues ! (2021) s’ispira alle sue ultime parole. Al funerale i familiari notano che ha una tinta blu. Le analisi del sangue mostrano un 1,4 mg/l di H2S. Archiviato come infarto, la famiglia riesce a ottenere dal procuratore l’autopsia, prontamente analizzata da tre medici indipendenti: Claude Lesné (ricercatore onorario al Centro nazionale delle ricerche), Françoise Riou (Capo reparto di epidemiologia al CHU, l’ospedale di Rennes) e André Picot (esperto europeo in tossicologia). Le loro conclusioni contraddicono quelle ufficiali: l’H2S è la causa del decesso. Eppure solo il 14 giugno 2018 – cioè nove anni dopo! – quello di Morfoisse viene riconosciuto come incidente sul lavoro.
Alcuni lettori si chiederanno cosa fanno le autorità nazionali: entrano finalmente in scena il 20 agosto 2009, quando quattro ministri vestiti bene si recano sulla spiaggia di Saint-Michel-en-Grève; ascoltano, prendono coscienza del problema, fanno tante promesse e (tutto il mondo è paese) non ne mantengono nessuna.

Come se nulla fosse, il tribunale amministrativo di Rennes (29 giugno 2012) continua a sostenere che non ci sono legami tra incidenti umani e alghe verdi. Nel corso dell’estate 2011, sulla spiaggia di Saint-Maurice sulle Côtes-d’Armor, muoiono uno dopo l’altro una trentina di cinghiali; alcuni hanno in corpo una quantità di H2S di 500 ppm. L’8 settembre 2016 a Gouessant, nella baia di Saint-Brieuc, muore un cinquantenne che faceva jogging, Jean-René Auffray. Davanti al silenzio delle autorità, alcuni militanti ecologici tra cui Le Lay misurano l’H2S della baia muniti di maschere di protezione (e non di maschere da immersione come ci si aspetterebbe in questa regione): il rivelatore segna 380 ppm. C’è da restarci secchi.

Azione di Greenpeace, prefettura di Finistère a Quimper, 10 luglio 2023 © Micha Patault, Greenpeace

Complesso agro-industriale

Perché le autorità hanno tanta difficoltà a riconoscere un nesso di causalità con le alghe verdi? Ogni dubbio si dissipa se rispondiamo a un’altra domanda: perché c’è uno squilibrio nel ciclo dell’azoto? Inutile cercare la risposta nel mare visto che viene dall’entroterra, dove agricoltura e allevamento intensivi locali versano gli effluenti di azoto in eccesso nel fiume, considerato come una discarica di acque reflue. Inoltre gli animali, nutriti con una soia transgenica piena di pesticidi importata dagli Stati Uniti al porto di Brest, la restituiscono alla terra attraverso le loro deiezioni. Così il nitrato d’ammonio usato per far crescere il mais che, alla prima pioggia, percola nelle terre assieme agli altri fertilizzanti pieni di azoto che il mais non riesce ad assorbire. Sostanze che passano dalle terre ai fiumi e dai fiumi al mare.

La Bretagna è il primo territorio agricolo francese e non solo, se pensiamo alle esportazioni di polli in Arabia saudita, Qatar, Emirati arabi. Qui, sul 6% della superficie agricola utile nazionale, si produce cibo per ventidue milioni di persone in una regione che ne conta circa tre; qui ci sono quattro maiali per ogni abitante (superano quindi i topi pro capite a Parigi); qui vive il 60% dei maiali francesi.

Se l’ecosistema delle coste bretoni è alterato, se l’equilibrio suolo-piante-animali è profondamente perturbato, se c’è eutrofizzazione – ovvero squilibrio del milieu acquatico a causa dell’aumento della concentrazione di nitrati e fosfati – la colpa è solo dell’industria agro-alimentare. Non sono illazioni: nel 1999 Senato e Corte dei Conti confermano ufficialmente l’origine agricola delle maree verdi in occasione di un convegno organizzato dall’oceanografo Michel Merceron. L’epilogo restituisce il polso della situazione: Merceron è costretto a cambiare il titolo degli atti del convegno per ottenere il finanziamento della regione: non Pollutions agricoles ma Pollutions diffuses (IFREMER, 2004). Accostare inquinamento e agricoltura è un tabù.

Ora, mi dico, in una società volta al benessere collettivo dell’umanità la storia finirebbe qui: per far cessare la sofferenza basta estirparne alla radice la causa, giusto? Ma nel mondo che abbiamo ereditato e che contribuiamo a creare con i nostri pensieri, parole e azioni le cose vanno diversamente, cioè per il verso storto.

Come spiega bene Yves-Marie Le Lay, presidente dell’associazione Sauvegarde du Trégor e autore di Algues vertes, un scandale d’Etat (Libre & Solidaire 2020), la vicenda delle alghe verdi mostra un enorme conflitto d’interessi e le collusioni tra i difensori dell’agricoltura intensiva e i poteri pubblici, ammanicati con la famigerata FNSEA (Federazione nazionale dei sindacati dei coltivatori diretti), le cooperative, le banche e quello che Le Lay chiama il “complesso agro-industriale”. A protestare all’uscita del cinema, c’era da aspettarselo, sono infatti Jeunes agriculteurs, un’emanazione della FNSEA.

Tuttavia se i privati non fanno che difendere i loro interessi, sconcertante è il lassismo dello Stato, che fa finta di reagire per guadagnare tempo, preconizzando misure minori: meno nitrati, mangime di qualità per i maiali per una deiezione migliore, vaghe promesse di ripensare le professioni agricole… Piccoli “amenagements” dall’impatto risibile, quando bisognerebbe chiudere il rubinetto e, come dice prosaicamente Le Lay, il rubinetto qui è il culo dei maiali! Non si tratta di misure populiste o irrealizzabili: nei Paesi Bassi, a fronte dello stesso problema, sono state chiuse le coltivazioni più inquinanti. In Francia invece, pur di non rimettere in questione l’agricoltura intensiva, lo Stato s’impegna a raccogliere le alghe verdi, un’operazione dai costi esorbitanti.

Parliamo di 134 milioni di euro nel 2010-2015, quando viene indetto il primo Piano algues vertes (PAV) per ridurre di almeno il 30% il tasso di nitrati nei fiumi in cinque anni e arrivare al 2027 a 10 mg/l (nel 2015 il tasso medio era di 35,3 mg/l), al fine di dimezzare le maree verdi. Un obiettivo contestato dalla FNSEA per l’impatto negativo sulla produzione. Soldi spesi male comunque, se pensiamo che i trattori portano via, assieme alla alghe, anche la sabbia, causando un’erosione accelerata del litorale una distruzione dell’ecosistema marino, per non parlare delle zone in cui non possono intervenire, spesso le più contaminate, come le piane fangose.

La realtà supera l’immaginazione: dal 1991 al 2010 viene stanziato circa un miliardo di euro di aiuti pubblici per limitare l’inquinamento agricolo delle acque bretoni. Un finanziamento a fondo perduto, senza alcun vincolo per i produttori, senza garanzia di risultati, con multe per eccesso di inquinamento coi nitrati non dissuasive. Gli obiettivi ovviamente non sono raggiunti e la conclusione è perversa: controllate dagli stessi inquinatori, le sovvenzioni sono utilizzate per rendere ancora più produttive le aziende d’allevamento. Poiché l’80% del fondo pubblico viene dai contribuenti, gli inquinatori sono finanziati dalle vittime dell’inquinamento!

Alla fine del 2016 il Consiglio regionale bretone lancia un secondo Piano alghe verdi (2017-2021) di 117 milioni di euro. Il Consiglio scientifico dell’ambiente in Bretagna (CSEB) che ha denunciato la situazione e sostiene che bisognerebbe diminuire la quantità di bestiame (ah, il vecchio buon senso) si vede tagliare i finanziamenti dal Consiglio regionale nell’estate 2016. È sostituito da un altro comitato scientifico (CRESEB) costituito non solo da scienziati indipendenti ma anche da eletti del consiglio regionale, tra cui non mancano rappresentanti dell’agricoltura intensiva. Non ci sono dubbi: i maiali bretoni cagheranno che è una meraviglia.

France Nature Environnement, affiche, febbraio 2011

C’è del marcio in Bretagna

“Venite in Bretagna ad avvelenarvi sulle nostre spiagge!”: chiaro che questa inquietante storia algale non è una buona pubblicità per una delle regioni più amate dai francesi. Chiaro che un film come Les algues vertes, girato essenzialmente nel Finistère-nord e attorno alla baia di Saint-Brieuc, abbia incontrato resistenze durante le riprese e un’omertà diffusa; o che ne sia stata vietata la proiezione al Consiglio regionale della Bretagna, diretta interessata che, in extremis, ha persino elargito un finanziamento per la sua realizzazione. Una scelta paradossale se pensiamo che Les algues vertes è stato proiettato al Senato, all’Assemblea nazionale e al Parlamento europeo, e che la dice lunga sulle reticenze verso una questione locale tanto dolorosa quanto divisiva.

Les algues vertes (uscito nelle sale francesi il 12 luglio) racconta una storia vera, quella di Inès Léraud (interpretata da Céline Sallette), una giornalista caparbia e combattiva che nel 2016 conduce un’inchiesta accurata sulla proliferazione di alghe verdi e sul modo in cui viene prodotto il cibo che mangiamo (ed esportiamo). Anche quando il suo Journal breton per l’emissione radiofonica Les pieds sur terre in onda su France Culture viene sospeso, prosegue le indagini per tre anni e si trasferisce con la sua compagna nella regione. Nel 2020 fonda Splann! (“chiaro” in bretone), una ONG di giornalisti indipendenti radicata in Bretagna.

Nella realtà come nel film Léraud batte ogni pista: il Comune, i laboratori scientifici, i medici e ovviamente gli allevamenti. La sua inchiesta disturba al punto di subire, in un crescendo, pressioni politiche, intimidazioni della FNSEA, l’avvelenamento del suo cane fino a minacce di morte anonime. Viene attaccata da associazioni agricole con migliaia di abbonati sui social, accusata di fare disinformazione, e si accorge persino di essere sotto sorveglianza informatica. “Quando vado nelle aziende agricole, vengo buttata fuori”, afferma Léraud, “Ricevo minacce fisiche. I testimoni che hanno accettato di parlare con me si ritraggono per paura che qualcuno a loro vicino perda il lavoro nell’industria agroalimentare”. Nel frattempo si cerca di vietare la pubblicazione d’inchieste sulle alghe verdi sui giornali locali durante i tre mesi estivi al fine di non danneggiare il turismo – tentativo non riuscito per fortuna.

Insomma, c’è del marcio in Bretagna, e questo marcio è il prodotto più genuino del complesso agroindustriale legato alla coltivazione e agli allevamenti intensivi. Ma di industriale non c’è solo l’agricoltura ma anche la “fabbrica del silenzio” (Léraud) davanti alla nocività delle alghe verdi e al loro impatto ambientale, come dimostrano la difficoltà a ottenere i referti delle autopsie delle morti sospette o i depistaggi e i non sequitur delle autorità pur di non rimettere in gioco la politica agricola locale.

Céline Sallette in Les algues vertes

Mafia agroalimentare

Che la colpa sia degli agricoltori? Come il film ci aiuta a capire, sono loro le prime vittime dell’agro-business, foraggiato dagli eletti locali e da sindacati agricoli che fanno il brutto e il cattivo tempo come la FNSEA. Sono loro a subire minacce e pressioni mentre, alle loro spalle, si accumulano immense ricchezze. Sono loro a temere ritorsioni come la perdita di sovvenzioni ottenute. Solo l’1% di produttori di polli e suini in Bretagna è indipendente, il 99% è integrato in gruppi e cooperative agricole i cui direttori e amministratori provengono spesso dalla FNSEA. Queste cooperative vendono pesticidi, fertilizzanti, alimenti, animali, imponendo un modello verticistico in cui gli agricoltori non hanno voce in capitolo.

Quando l’industria agro-alimentare si difende sostenendo di creare ricchezza dimentica che, grazie allo sfruttamento sistematico degli agricoltori, ad arricchirsi è solo questa stessa industria che, ennesima beffa, beneficia di generose sovvenzioni pubbliche.

È un circolo vizioso tristemente noto: da una parte gruppi agro-industriali così potenti da dettare politiche nazionali a loro favore; dall’altra, agricoltori troppo indebitati per passare a un modello diverso, impauriti dalle ricadute economiche o accusati di nuocere all’economia locale. André Ollivro, militante di Halte aux marées vertes, non esita a parlare di “mafia dell’agroalimentare”. Ollivro non somiglia ai giovani che si mobilitano per la causa ecologica e, stanchi dell’inazione dei governi, preferiscono azioni coup de poing. Per quest’uomo di 78 anni persino l’attivismo di Greenpeace si spinge troppo in là, figuriamoci la disobbedienza civile!

Tutto comincia quando, negli anni 2000, torna nella sua regione e stenta a riconoscerla: impossibile farsi il bagno nelle spiagge della sua infanzia. Il suo impegno non passa inosservato: il motore del suo camion viene manomesso, riceve minacce di morte sotto forma di necrologi e trova un letamaio davanti casa o una volpe morta con la testa tumefatta dall’acido (è il 2 agosto 2011, nel pieno dell’affaire dei cinghiali morti stecchiti sulla spiaggia). Le sue denunce restano lettera morta, e a quanto pare anche le sue soluzioni: “il debito degli agricoltori deve essere cancellato. Oggi molti agricoltori affittano i loro terreni. Sono talmente indebitati che ogni riconversione è per loro impossibile. Dobbiamo restituire la campagna alla Bretagna e ridurre la densità di bestiame sul territorio, altrimenti continueremo ad avere così tanti nitrati nei nostri corsi d’acqua. Se vogliamo migliorare le cose, dobbiamo imporre una riduzione della produzione e controllare che venga effettivamente compiuta. Molti prodotti realizzati qui finiscono all’estero. È questo il modello che vogliamo incoraggiare oppure la produzione locale per il consumo locale?”.

Le istituzioni hanno da tempo optato per il primo modello, sordi a ogni evidenza scientifica. Sin dal 1977 (!) Joël Kopp dell’ISTDM (Istituto scientifico e tecnico della pesca marittima, poi IFREMER) conclude che l’inquinamento del litorale è causato dai fosfati e dai nitrati utilizzati dall’agricoltura. Nel 1979 il ministro dell’Ambiente Michel d’Ornano dichiara che non ci sono legami tra agricoltura intensiva e aumento dei nitrati. Nel 1988 due scienziati dell’IFREMER, l’oceanografo Alain Ménesguen e Jean-Yves Piriou, presentano le conclusioni di uno studio sulla proliferazione della ulva armoricana al comune di Saint-Brieuc, davanti al prefetto delle Côtes-d’Armor e ai membri del consiglio regionale: l’eccesso di nitrati nei fiumi viene dall’agricoltura intensiva.

Negli anni 1980-90, mentre molti comuni bretoni dichiarano la loro acqua non potabile, i prefetti più solerti regolarizzano le estensioni illegali degli allevamenti intensivi. Marc Le Fur, deputato delle Côtes-d’Armor dal 1993, soprannominato “le député du cochon”, fa di tutto per favorire questa industria, come un emendamento del 2014 in cui fa passare da 450 a 2000 posti la soglia a partire dalla quale un porcile deve chiedere un’autorizzazione.

Parallelamente si mette in moto la macchina del fango per discreditare gli scienziati, denunciarli in quanto militanti, minacce per l’attività economica della regione, “khmer verdi” (Michel Bloch, presidente dell’Unione dei produttori di carne bretone, UGPVB, 2011), così come i militanti dell’associazione Eau et rivières sono “parassiti” che fanno delle spiagge bretoni una nuova Chernobyl (Sébastien Coupé, presidente della Cooperl, prima cooperativa porcina delle Côtes-d’Armor, 1993). Nel 2012 un rapporto inter-ministeriale riconosce la strategia dell’incertezza e della disinformazione messa in atto dalla filiera agro-alimentare per prolungare l’inazione ambientale ma Nicolas Sarkozy, l’allora Presidente della Repubblica il cui bilancio ecologico è imbarazzante, non perde occasione per attaccare i verdi in quanto integralisti (8 luglio 2011, Crozon).

Qualcosa si muove: tra mille ostacoli l’opposizione cresce, a partire dal 1969 quando l’associazione per la produzione e la protezione di trote e salmoni in Bretagna (APPSB) diventa Eau et Rivières. Nel febbraio 2011, diciotto mesi dopo quella visita dei ministri alla spiaggia di Saint-Michel-en-Grève, l’associazione France Nature Environnement fa stampare sei affiches che denunciano i danni dell’agricoltura intensiva, alghe verdi incluse. Attaccati da ogni dove, incluso l’allora ministro dell’Agricoltura Bruno Le Maire, vengono denunciati e impediti di diffondere le affiche sulla metro parigina. Coronata di successo è infine l’azione di Greenpeace che, il 10 luglio 2023, all’uscita di Les algues vertes, versa una tonnellata di alghe davanti le prefettura di Finistère a Quimper e chiede una moratoria su ogni nuovo allevamento intensivo.

Ora sappiamo

Il regista Pierre Jolivet ha deciso di raccontare questa storia attraverso un film e non un documentario, co-sceneggiato dalla stessa Léraud, sulla scia del bellissimo eco-thriller Dark Waters (Cattive acque, 2019) di Todd Haynes. E soprattutto dell’omonimo graphic novel scritto da Léraud assieme al disegnatore Pierre Van Hove, che ha venduto 150.000 copie oltre a ricevere il Premio del giornalismo nel 2020. Attaccata in giudizio per diffamazione, il giorno dell’udienza il profilo Wikipedia di Léraud annunciava che era morta… Ma i fatti raccontati in Les algues vertes sono incontrovertibili e la denuncia viene ritirata.

Les algues vertes (che spero venga distribuito in Italia assieme alla traduzione del romanzo a fumetti) è una potente denuncia dell’agricoltura  produttivista e non eco-sostenibile, incompatibile cogli impegni presi da quegli stessi governi che la finanziano. Non solo: offre una lezione sul giornalismo d’inchiesta riguardo le questioni ambientali che si tiene in una sola frase: “Il giornalista locale sa tutto, ma non può dire molto, e il giornalista nazionale può dire tutto, ma sa poco”. Ora sappiamo tutti.

France Nature Environnement, affiche, febbraio 2011

In copertina: Inès Léraud, Pierre Van Hove, Les algues vertes, Delcourt 2019

Riccardo Venturi

insegna Teoria e storia dell'arte all'università Panthéon-Sorbonne di Parigi. Attraversa spesso i confini – non solo geografici – tra la Francia e l’Italia e, a volte, quelli transatlantici. Collabora con la Fondazione ICA di Milano, scrive per cataloghi di mostre, pubblicazioni accademiche e non, cartacee e digitali, tra cui “Artforum”, “Alias - Il Manifesto”, “Flash Art”, “doppiozero”. Armato di matita, stila spesso liste di progetti accarezzati, fattibili o chiaramente implausibili.

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